7. - LUNGO IL FILO ROSSO: IL DIBATTITO NEL CAMPO MULTIFORME DEI PRINCÌPI, DEL PROGRAMMA E DELLE LORO APPLICAZIONI TATTICHE

 

La lacuna, appunto perché nasceva da cause oggettive, non poteva non riflettersi nel dibattito sia sulle Tesi già illustrate, sia su quelle più propriamente tattiche che riproduciamo più innanzi, e nelle conclusioni che se ne trassero in riferimento al processo di costituzione dei partiti comunisti e alle direttive di azione a tutti impartite come vincolanti. Lo stesso dibattito, serratissimo data la mole dei lavori e l'intreccio di sedute plenarie, di commissione e sottocommissione, oscillò fra elevatis­sime punte teoriche e di princìpio e minuzie polemiche contingenti o locali. Era anche questo un effetto da scontare nella difficile gestazione del «partito comunista mondiale unico»; non un ideale da erigere a modello, ma uno stato di fatto subìto nella sua materialità, più forte di qualunque auspicio. Ne rievochiamo i punti salienti in un ordine che meglio ci sembra riflettere il nesso fra i diversi temi, cercando sia di mostrare la continuità del filo dei princìpi - sui quali mai nessun disaccordo divise noi dai bolscevichi -, sia di mettere in risalto come le diverse proposte e decisioni tattiche oscillino intorno al filo teso, a volte coincidendo pienamente con esso, a volte rimanendogli al disotto; e, in quest'ultimo caso, di chiarire in che senso, in quali limiti, e perché.

 

a)        Il ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria (1).

 

Può sembrar strano che questo corpo di tesi di princìpio non solo abbia suscitato scarse discussioni fra militanti di formazione ideologica tuttavia diversa, e sia stato infine approvato all’unanimità: strano solo in apparenza, in realtà consono al basso grado di formazione di una co­scienza teorica genuinamente comunista nei gruppi e partiti aderenti. C'è di più: se uno sforzo sincero, anche se debole, di elevarsi all’altezza dei princìpi in esso contenuti venne fatto in quei giorni, lo fu (bolscevichi a parte) da esponenti non tanto dei partiti già formalmente aderenti all’IC, quanto dei gruppi e organizzazioni non rigorosamente marxisti ma animati da forte istinto di classe che aspiravano ad esservi ammessi; e non a caso Lenin, Zinoviev, Trotsky misero il maggiore impegno nello sforzo di chiarire le idee ai secondi con l'arma della persuasione dialettica, invece di affrettarsi a concedere brevetti di ortodossia e in­vestiture organizzative ai primi.

Le Tesi, in origine più brevi e, nella parte polemica, rivolte con­tro bersagli in prevalenza «russi», erano state completate in sede di commissione con una severa critica dell’immediatismo operaista e spon­taneista europeo-occidentale e americano. Ma ciò non impedì a Le­nin di spiegare con pazienza al portavoce di un movimento schiettamente proletario e di massa come l'inglese Tanner che, quando gli shop stewards rivendicavano il concetto di dittatura del proletariato come dittatura di una minoranza decisa operante sul terreno dell’azione diretta, ebbene, «se questi compagni sono per l'esistenza di una minoranza che si batta energicamente per la dittatura del proletariato e educhi le masse operaie a questo fine, una tale minoranza non sarà altro, nella sostanza, che un partito»; né valeva appellarsi alle dege­nerazioni parlamentari dei partiti della II Internazionale, perché «anche noi siamo nemici di un siffatto parlamentarismo e di siffatti partiti politici: abbiamo bisogno di partiti nuovi, di partiti diversi»! A sua volta, rispondendo all’anarcosindacalista Pestaña il quale obiettava l'inutilità di indaffararsi a creare partiti politici, nuclei di una futura armata rossa, perché in ogni caso, come dimostra la rivoluzione francese, un partito e un esercito sorgeranno inevitabilmente nel corso del processo rivolu­zionario, Zinoviev argomentò: «É forse questo, oggi che dobbiamo combattere contro un mondo di partiti borghesi armati fino ai denti, un argomento a favore della creazione del partito come puro "risultato" della rivoluzione? Che cosa faremo, durante la rivoluzione? Chi orga­nizzerà le file dei migliori operai all’inizio della rivoluzione? Chi pre­parerà, elaborerà e diffonderà il programma? [...] Non possiamo aspet­tare che la rivoluzione arrivi cogliendoci di sorpresa e che, come suo "risultato", si cristallizzi un partito; dobbiamo fin da questo momento, senza perdere un'ora, metterci a costruirlo».

In un certo senso, osservava ancora Zinoviev, la situazione era analoga a quella in cui era sorta la I Internazionale, quando la durezza della repressione borghese dei moti di classe e delle associazioni operaie spingeva anche organizzazioni puramente economiche sul terreno della lotta politica e dell’azione violenta, legittimando lo sforzo di Marx ed Engels di inquadrarle sulla base di una piattaforma teorica e program­matica che esse erano tanto incapaci di darsi quanto pronte ad assimi­lare, e di indirizzarle verso obiettivi non immediatamente racchiusi nel loro orizzonte grazie a un'energica e centralizzata direzione. Il movimento reale tendeva, come allora, a coincidere col programma del comunismo; e di fronte ad esso i bolscevichi, per bocca di Trotsky, reagivano con un senso di fastidio alla «arroganza marxista» di un Levi secondo il quale, per l'enorme maggioranza dei proletari europei, la questione del partito era già bell’e risolta e il discuterne ancora non poteva servire a far luce e chiarezza in seno all’Internazionale (anche uno Scheidemann e un Kautsky - gli verrà risposto - sanno che è necessario il partito: lo sanno tanto bene che l'hanno creato per la classe operaia, poi l'hanno messo al servizio della società borghese e della sua classe dominante!), o di un Serrati che, mentre dichiarava di sottoscrivere le Tesi in omag­gio alla vigorosa proclamazione dei princìpi del centralismo e della di­sciplina contro lo spirito piccolo borghese da cui sono animati «il sin­dacalismo, l'industrialismo, l'anarchismo, il relativismo», si ostinava a non «far pulizia in casa propria» cacciandone i riformisti contro i quali, non meno che contro gli immediatisti di cui sopra, erano dirette le Tesi - salvo posare a defensor fidei di fronte al pericolo di un nuovo «possibilismo» annidantesi, a suo dire, nella politica di sia pur limitate concessioni ai contadini medi in Russia, o a quello di sporcarsi le mani lavorando all’interno di organizzazioni apartitiche!

La breve schermaglia, che anticipò successive, energiche strigliate ai «partiti fratelli» dell’Europa occidentale, permise di sottolineare almeno due punti di princìpio. Il primo è ben chiarito da Zinoviev nella sua replica, e lo giriamo ai moderni «teorici» del policentrismo e della non-ingerenza negli affari altrui:

 

«Dobbiamo essere un partito comunista unico, con sezioni nei diversi paesi. Questo deve essere d significato dell’Internazionale Comunista. Quando i comunisti russi, spintisi innanzi per primi, si chiamarono non più socialdemocratici ma comu­nisti, da noi venne fatta la proposta di non chiamarci Partito Comunista di Russia, ma semplicemente Partito Comunista. Dobbiamo essere un unico partito che abbia le sue sezioni in Russia, Germania, Francia, ecc., un unico partito che batta siste­maticamente e in piena coscienza la sua via. Solo così giungeremo alla concentrazione completa delle nostre forze; a questa sola condizione ogni gruppo della classe operaia internazionale potrà sempre ricevere, in un dato momento, il massimo aiuto possibile dagli altri».

 

Il secondo fu svolto da Lenin a proposito della sua tesi sulla op­portunità per il nascente partito inglese di aderire al Labour Party; e lo giriamo ai portavoce dell’antidogmatismo e dell’elasticità, anzi della completa libertà, tattica. Quando Tanner e Ramsay, per gli shop ste­wards, chiesero che la soluzione del problema fosse demandata ai co­munisti britannici esprimendo il timore che la III Internazionale ca­desse nell’errore opposto della II «diventando troppo dogmatica», Lenin rispose con forza (e noi non potevamo non essere con lui anche se facevamo le nostre riserve sulla sua specifica proposta in rapporto all’Inghilterra):

 

«Che cosa sarebbe l’Internazionale, se ogni piccola frazione si presentasse qui e dicesse: "Alcuni di noi sono favorevoli, altri contrari; lasciate che siamo noi a decidere "? A che cosa servirebbe allora l'internazionale, il congresso e tutta questa discussione? .. Non possiamo accettare che la questione riguardi soltanto i comunisti inglesi. Dobbiamo precisare, in linea generale, qual è la tattica giusta»; se non lo facessimo, imiteremmo «le peggiori tradizioni della lI Internazionale».

 

E ancora: se è vero che la maggioranza dei comunisti inglesi ci sarà contro, «dobbiamo forse accordarci immancabilmente con la mag­gioranza? Niente affatto... Perfino l'esistenza parallela di due partiti per un certo periodo di tempo sarebbe migliore della rinuncia a stabilire quale sia la tattica giusta».

Così ragionava il presunto teorico dell’antidottrinarismo: la tattica dev'essere fissata, ed esserlo internazionalmente, fuori da ogni scrupolo banalmente democratico da un lato, contingentista dall’altro! I teorici dell’«unità nella diversità» cerchino i loro antenati non fra i bolsce­vichi, ma fra gli immediatisti dell’operaismo inglese - com'é giusto, dal momento che si richiamano all’ideologia (cui non andava neppure il merito, riconosciuto da Lenin agli shop stewards, di poggiare su un movimento operaio di massa) dell’«Ordine Nuovo»!

 

(1) II e III seduta del 23 e 24 luglio. Protokoll, cit., pagg. 57-136. Le Tesi sono già state riprodotte nel paragrafo precedente.

 

b) Condizioni di ammissione all’internazionale comunista.

 

L'acceso dibattito occupò le sedute VI, VII e VIII del Congresso (1), e si ricollega ai precedente anche se l'ordine di successione dei lavori volle che prima fosse trattata la questione nazionale e coloniale. In mancanza di una dichiarazione teorica e programmatica preliminare, era qui, in effetti, la necessaria pietra di paragone dei partiti che vole­vano aderire all’IC: se occorre, la loro pietra d'inciampo. É qui che le loro esitazioni, i loro pregiudizi, le loro idiosincrasie, le loro carenze apparvero maggiormente in luce; è qui, inversamente, che bolscevichi e «astensionisti» italiani lavorarono perfettamente all’unisono.

17 in origine, le «condizioni» redatte da Lenin, via via com­pletate, rese più esplicite mediante un diverso ordinamento dei te­mi, ed inasprite, erano diventate 19 quando si cominciò a discuterne (20 se si tiene conto del penultimo paragrafo del testo finale suggerito dallo stesso Lenin, che però la delegazione russa era disposta a riti­rare presentandolo non più come condizione o direttiva, ma come desiderio, e salirono a 21 nel testo definitivo, le due ultime essendo sta­te introdotte reintegrando - come noi avevamo proposto - il para­grafo di cui sopra (appunto il 20°), e facendogliene seguire un altro - il 21° - del tutto conforme a una nostra precisa richiesta.

Sia l'estensore del testo originario, sia i militanti che collaborarono alla sua definitiva stesura non si nascondevano di dover costituire le sezioni nazionali del «partito mondiale unico» - per forza di cose, non perché quello fosse il metodo ideale - o amputando partiti for­malmente già ammessi ma esitanti a liberarsi di robuste ali riformi­ste, o tagliando nel corpo di partiti di centro; sapevano che pericolose titubanze sussistevano se non nelle dichiarazioni programmatiche, certo nell’azione pratica, di partiti nati già da una scissione, e non dell’ultima ora. Era un duro prezzo da pagare: o subirlo, o abbandonare a se stesso il movimento operaio mondiale. Quello che in tale dilemma si poteva e si doveva impedire era che, per un verso, all’accettazione formale dei princìpi costitutivi dell’IC si accompagnasse un'azione pra­tica da essi discordante e ricalcata sui moduli del passato secondinterna­zionalista, per l'altro che fossero tollerati o accolti nelle file dei nuovi partiti quei riformisti in vena di pentimenti o quei centristi attratti dalla moda del giorno, la cui presenza o come semplice remora o come fattore di corrosione e sabotaggio avrebbe vietato al partito comunista di rispondere ai suoi compiti storici di «organizzazione di combatti­mento decisa non solo a propagandare il comunismo ma a tradurlo in atto», di «arma di lotta durante la pace, durante l'insurrezione e dopo l'insurrezione, punto di raccolta di quella parte della classe operaia che è cosciente del fine e vuol combattere per esso» (Zinoviev). La tragica esperienza della rivoluzione ungherese che, «se si offre un mi­gnolo al riformismo, quello ti prende tutta la mano, poi tutta la testa, e infine ti cola a picco», non doveva andare smarrita: l'adesione alla III Internazionale o significava rottura aperta con ogni residuo di riformismo, pacifismo, gradualismo, o non significava nulla; e Zinoviev, nel suo discorso introduttivo, non esitò a dichiarare a nome della de­legazione russa, consapevole di quanto ancora separava il movimento operaio dei paesi capitalistici avanzati dalla visione teorica e program­matica integrale del comunismo: «Se dovesse accadere che i nostri compagni italiani od altri chiedano di rimanere collegati, o di collegar­si, ad elementi di destra [come quelli citati al par. 7 delle condizioni], il nostro Partito è pronto a restare completamente solo piuttosto di con­trarre legami con elementi che giudichiamo borghesi».

É perciò sciocco considerare quelli che finirono per passare sotto il nome di «21 punti» come una specie di stralcio di codice penale o di «regolamento» amministrativo: come abbiamo già osservato nel capitolo precedente (2), essi fissano altrettante norme di azione stretta­mente legate ai princìpi e ritenute inscindibili dall’essenza stessa del partito, e in funzione di questi e di quelle tracciano le linee di una struttura organizzativa la cui rigorosa e serrata centralizzazione è assi­curata dai pieni poteri d'intervento dell’Esecutivo del Comintern assai più che da una omogeneità di piattaforma reale nella costituzione delle singole sezioni - omogeneità che si presupponeva imperfetta nella stessa misura in cui il processo di decantazione di nuclei solidamente comunisti era incompleto o tardivo. Resta il fatto di enorme rilievo che, qui per la prima volta, l'Internazionale tracciò a se stessa «quel piano sistematico di azione, illuminato da princìpi fermi e rigorosamente applicato, che è l'unico che meriti il nome di tattica» (secondo l'antica formula dell’Iskra già da noi ricordata) poggiandolo tendenzialmente sulla base di quella «salda organizzazione preparata alla lotta in ogni momento e in tutte le situazioni», senza la quale - aveva premesso Lenin - non si può nemmeno parlare di tattica comunista. Se si confron­tano le condizioni 2-10 con gli accapi della parte III delle Tesi della Fra­zione astensionista, è facile constatare come essi combacino quasi punto per punto, con la differenza che i secondi sono inquadrati in una for­mulazione generale della dottrina, delle finalità, dei princìpi e del pro­gramma posti a fondamento di un partito integralmente comunista con tutti i riflessi anche organizzativi che la sua esistenza comporta: diffe­renza di grado o, se si preferisce, storica; ma convergenza di sostanza.

Si tratti della rottura coi riformisti, della denunzia del socialpatriot­tismo e del socialpacifismo, del lavoro nelle organizzazioni economiche, nell’esercito, nelle campagne, dell’appoggio ai moti insurrezionali nelle colonie, o della stretta subordinazione della stampa e del gruppo parla­mentare alla direzione del partito, delle sezioni nazionali all’Internazionale; tutte le direttive fissate ai partiti aderenti sono qui poste come questioni di princìpio, come obblighi inquadrati in un insieme di esplicazioni tat­tiche vincolanti ed inscindibili, che delimitano il partito da qualunque altro e lo definiscono come organo di guerra a morte contro la borghesia e i suoi lacché; senza tali caratteri, chiaramente riconoscibili per ogni operaio, anche la centralizzazione e la disciplina sarebbero un guscio vuoto, mentre così fanno tutt'uno con il contenuto dell’azione di classe.

É certo che il procedimento più corretto per giungere ad una redazione completa e definitiva del testo sarebbe stato di lavorare sui princìpi che sottendevano ognuno dei suoi paragrafi per trarne conclu­sioni destinate ad essere insieme rigide e indiscutibili (e in questo senso noi ci battemmo): ci si arrivò fino a un certo punto per via sperimentale, attraverso lo scontro con le posizioni incarnate e difese proprio lì nel congresso dai socialisti francesi (ed anche, in una certa misura, italiani) e dagli indipendenti tedeschi, più che attraverso una considerazione approfondita delle norme tattiche e organizzative in quanto espressioni di una teoria generale del percorso storico della rivoluzione proletaria e comunista: indiscutibili come norme di azione pratica, le «condizioni» ne risultarono solo parzialmente rigide come norme di costituzione e strutturazione dei partiti, il che ovviamente finì, in prosieguo di tempo, per riflettersi sul grado di osservanza degli impegni tattici. In questa luce, che è nello stesso tempo un doppio limite, vanno visti sia il dibattito, sia il nostro intervento in esso.

Una prima avvisaglia della tempesta che doveva scatenarsi nelle tre sedute plenarie si era avuta, prima della rassegna fortemente criti­ca di Zinoviev sugli sviluppi in seno ai maggiori partiti aderenti o aspiranti all’adesione, allorché delegati francesi e olandesi avevano pro­testato contro la presenza al Congresso e soprattutto alla commissione per le condizioni di ammissione dei «pellegrini» del PSF e dell’USPD. Lo stesso Radek, riferendosi in particolare ai secondi, aveva completato il rapporto del presidente dell’Internazionale con le parole: «Dopo la seduta della commissione che si occupava delle condizioni di ammis­sione alla IC, dopo che i compagni tedeschi e francesi avevano di­chiarato di aderirvi, noi che ne facevamo parte ci siamo ricordati quasi all’unisono delle parole di Bela Kun dopo la fusione con i socialdemo­cratici: Ho l'impressione che le cose siano andate troppo lisce! Ebbene, lo stesso sentimento proviamo noi in questo istante». E aveva chiesto che si facesse pulizia nei vecchi partiti «non con la scopa ma col ferro rovente» liquidandone il passato senza rimpianti né riserve prima di convalidare adesioni soltanto verbali e, nella sostanza, menzognere. Il risultato fu un ulteriore indurimento delle clausole; ma, fra la let­tera dei «21 punti» e lo spirito in cui vennero interpretati nella solu­zione dei diversi problemi posti dall’accettazione o meno di singoli partiti, rimase uno scarto di cui abbiamo già indicato le cause, ma che non per questo giustificò meno le nostre riserve. Le condizioni erano severe ma non a sufficienza, e neppure formulate in modo tale da escludere i clas­sici due passi indietro dopo uno avanti: come osservò il rappresentante della Sinistra al suo ritorno in Italia, «il senso della discussione fu che in massima "i ricostruttori" potranno entrare sotto certe garanzie nella Internazionale». Il guanto di ferro usato nella polemica senza alcuna attenuazione lo fu assai meno nelle deduzioni pratiche: e se ne pagò il prezzo quando l'onda montante del '20 rifluì e non si ebbe più la forza di riconoscere che i presupposti della relativa «morbidezza» erano venuti meno e bisognava tornare all’antico rigore, sapendo «rimanere soli» e accettando di aspettare fiduciosi ma non passivi che «gli operai presto o tardi capiscano e vengano a noi» come nella tradizione bolscevica riecheggiata dal discorso Zinoviev.

«Ci sono cose, nella storia del movimento operaio, che non si dimenticano», aveva esclamato Radek riferendosi all’opera di salvataggio del regime borghese tedesco svolta dagli indipendenti. E l'eco di queste «cose» risuonava in modo preoccupante non solo nella «cautela» con cui si esprimeva la dichiarazione rilasciata da Cachin in seduta plenaria, ma e soprattutto «nel riserbo, nelle reticenze e, vorrei dire, nelle restri­zioni mentali che vi appaiono in luce», come osservò il più vigoroso critico del documento francese, C. Rakovsky. É una dichiarazione che tace completamente sul passato, egli disse, e «la cosa più inquietante non è il silenzio in sé e per sé, non è il pudore di riconoscere i propri errori di fronte a compagni, ma è l'atteggiamento riservato di fronte all’avvenire, di cui è imbevuta tutta la dichiarazione». Dire, come Cachin nell’impegnarsi a difendere le condizioni d'ammissione al suo ritorno in patria: «Nelle condizioni storiche presenti, chi, nel momento della lotta sociale decisiva dovunque divampata, cerca ancora di collaborare con la società borghese, non trova posto nelle file della classe operaia», è sottintendere (3): «Ci sono periodi e congiunture storiche in cui la collaborazione di classe è consentita, e se questa collabo­razione c’e stata, ciò è avvenuto perché la congiuntura storica lo imponeva. Poiché oggi le condizioni storiche sono favorevoli alla ri­voluzione, noi rinunciamo alla collaborazione; se però domani la borghesia dovesse riprendere forza, se le riuscisse di superare alcune difficoltà, per il socialismo francese da poco fattosi rivoluzionario la congiuntura storica potrebbe modificarsi» e non v'è ragione che il PSF non ricada nell’antico errore.

Quando Cachin prosegue: «Se un giorno la guerra mondiale dovesse ridivampare, la colpa principale ne ricadrà sull’attuale, criminosa politica della borghesia francese», i riformisti saluteranno con gioia le sue parole: «In passato - diranno -, le cose stavano diversamente. La responsabilità della guerra non era soltanto della nostra borghesia ma anche dell’imperialismo tedesco; dunque, la nostra politica di difesa nazionale trova, per quanto riguarda il passato, giustificazione piena». E quando si completa il ragionamento in questi termini: «Noi ci rifiu­teremo di aver nulla a che fare con questa politica, sia che si tratti della approvazione di crediti sia che si tratti della collaborazione al governo: sapremo ricordarci che in tali condizioni, in cui gli interessi nazionali coincidono con quelli della plutocrazia, il massimo dovere del proletariato è verso la propria classe», quando si ragiona così si ammette la possibilità che «esistano momenti nella società borghese in cui gli interessi della borghesia non coincidono con gli interessi nazionali: altra giustificazione della tattica passata, altra porta aperta per reinfilarla di soppiatto, altro mezzo per giustificare ogni tradimento avvenire». La conclusione, per Rakovsky, poteva essere soltanto una:

 

«Non sono le condizioni di ammissione a offrirci garanzie: noi dobbiamo con­siderarle un minimo e, se necessario, inasprirle. Ma l'Internazionale Comunista dovrà assicurarsi un'altra garanzia. Solo creando un vero e proprio centro del movimento internazionale, un vero e proprio stato maggiore della rivoluzione, munito di pieni poteri per dirigere il movimento in tutto il mondo, solo così ci si potrà convincere dell’adempimento delle condizioni di ammissione».

 

Sarà questo il cardine della soluzione bolscevica: pugno di ferro al centro a salvaguardia contro una sia pur limitata libertà di manovra concessa alla «base». L'avvenire confermerà la nostra prognosi che non solo non basta un centro del più puro diamante per far marciare diritto una periferia malsicura perché eterogenea, o riottosa perché non saldamente ancorata alle fondamenta teoriche e programmatiche su cui poggia «l'istanza suprema», ma che in questa condizione anormale si annida il pericolo, destinato in date fasi a trasformarsi in certezza, che dalla periferia i vizi d'origine si ripercuotano sul centro impedendogli e di funzionare come centro e di rimanere fedele al programma del quale dovrebbe essere - o cesserebbe di assolvere la sua funzione - il de­positario (4).

Questa stessa preoccupazione, benché teoricamente meno chiara, traspare dalle dichiarazioni dei delegati francesi di gruppi già aderenti al Comintern, nonché da quelle dello stesso Rakovsky e, successiva­mente, di Losovsky, entrambi bene al corrente delle tradizioni e consue­tudini del PSF ora sulla via di Damasco almeno in larghi settori di base.

Il giovane Lefebvre, poi tragicamente perito con i compagni Lepetit e Vergeat nel ritorno da Mosca via Murmansk, rievocando i trascorsi ingua­ribilmente riformisti della maggioranza del PSF: «La conversione dei compagni Cachin e Frossard è solo un fatto individuale. Essi torneranno in Francia ed esporranno le loro dichiarazioni ad una folla attenta: è da temere che, sotto l'influsso di un lungo passato opportunista e del loro particolare modo di pensare [...], spingendo il partito verso l'Interna­zionale comunista essi gli appioppino un programma minimo che avrebbe per noi francesi lo svantaggio di rendere puramente platonica l'adesione all’IC, e per voi, compagni, lo svantaggio ancor più grave di far pene­trare nelle vostre file lo spirito di tradimento della II Internazionale. Io affermo che l'atmosfera in Francia è insopportabile. Bisogna mettervi fine. Il cambiamento di opinione di due individui non deve poter eserci­tare alcuna influenza. Dobbiamo rimanere inflessibili, e io vi assicuro che, sé terrete duro, le masse in Francia vi seguiranno senza esitazioni». Guilbeaux: «Non trovo che ci sia molto da rallegrarsi se a Mosca, sotto l'influsso dell’atmosfera rivoluzionaria in cui sono piombati dalla sera alla mattina, i rappresentanti di alcuni partiti di centro si dichiarano per il comunismo. Non metto in dubbio la loro sincerità, ma mi chiedo se, tornati a Parigi nell’atmosfera pestifera del PS o della Camera dei deputati, non ricadranno nei loro errori [...]. Dobbiamo prima creare il ceppo di un solido Partito comunista e attrarre in questa formazione le masse; non aggregarle a noi in modo artificiale [...]. Se, dopo un periodo di prova di 6 o 12 mesi, si volessero ammettere partiti che per anni e anni hanno errato o tradito, temo che alla fine essi saranno in maggio­ranza nell’IC, e sostituiranno alla sua rossa bandiera un'altra, simile come una goccia d'acqua a quella della II Internazionale». Goldenberg, per la gioventù socialista francese (ma sulla stessa linea si batté lo svizzero Herzog ): «Protesto contro il modo artificiale di ammettere nelle file dell’IC elementi che non le sono nemmeno favorevoli [.,.]. Il proletariato francese ha un solo mezzo per condurre la lotta contro la II Internazionale: formare un partito comunista ben organizzato, contenente unica­mente militanti comunisti». Parole sante; ma, perché non restassero soltanto parole, bisognava appoggiare lo sforzo da noi vigorosamente intrapreso per completare ed inasprire le clausole del testo, invece di tacere (come Rosmer) o votare contro (come Goldenberg); bisognava essere poi disposti a battersi a Parigi o a Berlino perché la loro applica­zione avvenisse col massimo rigore possibile come facemmo noi in Italia, e, per far ciò, guardare oltre il meschino perimetro nazionale. Non si fece né l'una né l'altra cosa: si strillò a Mosca, si cedettero le armi in Francia.

É qui che, superando gli angusti confini di questioni locali e con­tingenti, anzi ignorandoli, si inserì l'unico contributo di impostazione teorica generale recato dai comunisti dell’Occidente europeo alla solu­zione del problema: il discorso del rappresentante della Frazione comu­nista astensionista del PSI, integralmente riprodotto al termine di questo capitolo (5). Esso si riallaccia al colpo di barra delle leniniste Tesi di Aprile che, imponendo una definitiva rottura sia con i socialpatrioti, sia con gli opportunisti negatori della necessità dell’insurrezione armata e dell’instaurazione della dittatura come sola via all’emancipazione pro­letaria, avevano poggiato su basi imperiture i princìpi della costituenda Internazionale comunista. La fondazione di questa ci aveva ricondotti al marxismo nella sua integrità originaria, mentre l'onda di una situa­zione potenzialmente rivoluzionaria metteva in moto il proletariato di tutti i paesi e operava nei vecchi partiti socialisti una selezione naturale, una selezione organica. A distanza di quasi tre anni, la rivoluzione bat­teva il passo o era stata sconfitta, la guerra era finita svuotando della sua attualità il problema della difesa nazionale; in tali circostanze, non era difficile neppure per il più incallito riformista accettare a parole le tesi sulla conquista rivoluzionaria del potere, sulla dittatura proletaria, sul terrore rosso. Il pericolo di un'infiltrazione di elementi di destra e di centro era quindi più che mai grave, e l'IC, alla quale non si poteva chiedere, perché non era in suo potere, né di suscitare la rivoluzione dal nulla, né di precipitare il corso degli eventi, ma di preparare il proletariato alla loro soluzione rivoluzionaria, doveva assicurarsi che l'adesione di gruppi e partiti fosse completa e aliena da riserve, applicando con ancor maggiore fermezza e coerenza nei paesi capitalistici avanzati quella dottrina e quel metodo marxisti che Lenin aveva avuto la forza di ristabilire in tutte le loro implicazioni là dove, come in Russia, i rapporti di classe restavano avvolti nel magma di condizioni sociali preborghesi. In altri termini, in Occidente soprattutto, bisognava essere, nell’imposta­zione programmatica, tattica ed organizzativa, più bolscevichi degli stessi bolscevichi.

La barriera che si poteva e si doveva erigere contro l'opportunismo in tutti i paesi era costituita dall’unicità e univocità di un programma vincolante per tutti in ognuno dei suoi riflessi organizzativi e tattici: se era stato materialmente impossibile redigerlo, urgeva statuire non già, genericamente come al punto 16 (poi 15), che i partiti aspiranti alla adesione elaborassero un nuovo programma «nel senso [o peggio, come in certe traduzioni, nello spirito] dei deliberati dell’IC e in corrispon­denza alle particolari condizioni del paese» (comoda scappatoia, questa ultima, per contrabbandare dalla finestra la putrida merce espulsa dalla porta), ma che ne elaborassero uno «nel quale i princìpi dell’IC siano fissati in modo inequivocabile e pienamente conforme alle risoluzioni dei congressi mondiali» (e quelle del II Congresso contenevano, sia pure in forma non del tutto organica, formulazioni programmatiche e di princìpio basilari); un programma che non si discutesse né si votasse, perché preesistente a qualunque opinione, «scelta» o inclinazione di singoli, comune a tutti come impegno categorico, liberamente assunto, di milizia politica.

Non si trattava di cavilli giuridici, ma di due cardini della dottrina marxista: 1) le applicazioni tattiche delle basi programmatiche del partito devono essere vagliate e decise internazionalmente; 2) il programma non si accetta «per disciplina» come è lecito e doveroso accettare per disciplina una direttiva contingente; o lo «si accetta o lo si respinge, e in quest'ultimo caso si lascia il partito», perché non è materia di congetture, «scelte» od «opinioni». Sul piano organizzativo, ciò si­gnifica: «la minoranza che si dichiara contro il programma dev'essere espulsa» (ovvero, aggiungiamo perché così sarà a Livorno, la minoranza del vecchio partito che sola lo abbraccia si... autoespelle!).

Il seguito della discussione convinse gli estensori delle condizioni di ammissione della necessità di adottare il nostro punto di vista, sia ina­sprendo il tono della premessa introduttiva, sia dando valore di norma e direttiva vincolante al punto 20 già proposto da Lenin, sia infine aggiungendo il punto 21 in forza del quale «gli iscritti al partito che respingono per princìpio le condizioni e le direttive dell’internazionale Comunista devono essere espulsi». Fu una vittoria incompleta, non solo perché non venne approvata la proposta di modifica del punto 15 del testo definitivo che noi suggerivamo ben sapendo (e i fatti ne diedero ampia conferma) che le famose «particolari condizioni del paese» sarebbero state invocate, domani come mille volte ieri, per attenuare e infine rendere inoperante il programma comune in tutto il mondo, né l'ulteriore rivendicazione che gli organi direttivi delle sezioni dell’IC fossero composti integralmente da comunisti provati; lo fu anche perché non potemmo né modificare l'orientamento generale del dibattito, intonato alla prospettiva del «recupero» di larghe frazioni dei vecchi partiti socialisti, né impedire che la discussione si perdesse, fuori dalle questioni di princìpio, nei vicoli di accuse e contraccuse di sapore troppo spesso personale e contingente. Le modifiche intro­dotte - alle quali non si credette di aggiungere il punto suggerito da Serrati e appoggiato con calore da Graziadei sulla incompatibilità fra adesione all’IC e appartenenza alla massoneria (oggetto di memorabili battaglie nel movimento socialista italiano) -, resero senza dubbio più aspre le condizioni di ammissione, ma è chiaro che la loro efficacia nell’opporre una «barricata insuperabile» al riformismo risorgente dipen­deva dalla ferma decisione di applicarle in tutto il loro rigore, special­mente se, come noi ritenevamo a differenza dei bolscevichi, la battuta d'arresto nella marea rivoluzionaria si fosse dimostrata più lunga e tenace di quanto non potesse apparire nei giorni in cui l'Armata rossa minac­ciava Varsavia e il proletariato dava segni dovunque di impetuoso risveglio dopo le troppe sconfitte subite.

La lotta contro l'opportunismo doveva essere condotta su tutti i fronti e senza quartiere; ma sarebbe stata resa più difficile dall’adozione di mezze misure che o lasciavano socchiusa ai riformisti almeno la porta di servizio, o rischiavano di riammetterli nell’IC tramite questa o quella smagliatura dopo che erano stati messi fuori dal partito di origine - come appunto avvenne con legittimo compiacimento degli attuali paladini di una variante dell’opportunismo mille volte peggiore di quella massi­malista o indipendente di allora; e avvenne a prezzo della liquidazione non soltanto politica ma fisica del partito di Lenin. Il nostro monito doveva essere accolto, se non nel 1920, almeno quando, a partire dall’an­no successivo, si riconobbe che le prospettive rivoluzionarie a breve scadenza si andavano allontanando: era, quello, il momento di stringere i freni, non - come si fece - di allentarli! L'aver elevato lo stato di necessità 1920 a virtù paradigmatica dell’avvenire segnò il princìpio della débacle. La nostra impostazione, se fosse stata integralmente accolta, avrebbe favorito una selezione organica dei partiti, e quindi dell’Interna­zionale come partito mondiale unico, sulla base del programma; selezione politica di cui le misure organizzative e disciplinari sarebbero state il punto non di partenza, ma di arrivo. Accettata solo in parte, essa prese posto in quell’armamentario di mezzi di inquadramento di forze non del tutto omogenee, il cui successo nel produrre unitarietà di azione e movimento è sempre esposto all’alea sia di condizioni oggettive particolarmente favo­revoli, quindi non meccanicamente ripetibili, sia di fattori soggettivi la cui congiunzione in uno stato maggiore compatto ed efficiente, e il cui persistere malgrado vicissitudini alterne, rappresentano nella storia più l'eccezione che la regola. Ma chi, allora, era disposto, sul piano dei princìpi, ad andare fino in fondo? É tipico che, malgrado le accorate proteste levatesi da più settori per l'atteggiamento di almeno relativa tolleranza verso Cachin-Frossard o Crispien-Dittmann assunto dal con­gresso, un solo delegato si dichiarò apertamente a favore dell’integralità delle nostre proposte, e fu di quelli che in seguito si affrettarono a cambiar parere: lo svizzero Humbert-Droz. Così volevano i tempi...

La bufera scatenata dalla dichiarazione francese si rinnovò, in un clima ancor più acceso, quando presero la parola i delegati dell’USPD, le cui responsabilità nel sanguinoso epilogo dei moti proletari tedeschi, il cinismo della cui destra e il codismo della cui sinistra, la cui doppiezza in entrambe nell’accostarsi all’IC, erano già state vivacemente denunziate da molti oratori, tutti invocanti la necessità di «rivolgersi alle masse dicendo loro come si condanni l'USPD e non ci si attenda dalle sue istanze superiori ma dai proletari iscritti di manifestare il proposito di schierarsi con la Terza Internazionale, i comunisti russi, la Russia so­vietica». L'arringa defensionale della «destra», svolta da Crispien e Dittmann fra continue interruzioni, fu tanto sfrontata quanto avvocatesca (e noi la riassumiamo con una certa ampiezza sia per fornire una riprova di quanto si è già scritto in argomento, sia e soprattutto per mostrare come, nelle risposte, la polemica si elevi, impennandosi, al disopra delle schermaglie di minor rilievo per ricordare ai comunisti di sempre l'abc della loro dottrina, che mai dev'essere dimenticata o taciuta per motivi di... opportunità o convenienza). Noi ci siamo battuti contro la guerra - essi ebbero il coraggio di sostenere - non meno degli spartachisti, e se, al termine del conflitto, non abbiamo potuto risolvere la situazione come era nell’interesse della classe operaia, se non siamo stati in grado di instaurare quella dittatura del proletariato ch'era già implicita nel programma di... Erfurt, là dove si parla di conquista del potere politico come premessa alla realizzazione del socialismo, gli è che a tanto man­cavano i... punti di appoggio necessari ed era impossibile conferire alla azione degli operai e dei soldati, i cui consigli non erano composti in maggioranza di socialisti rivoluzionari, la forma di un'azione cosciente­mente rivoluzionaria e proletaria (colpa - si sa - delle masse!!!). Se d'altra parte accusate i capi indipendenti d'essere opportunisti, dimen­ticate che alle cariche direttive essi sono regolarmente eletti, e mai lo sarebbero se, come voi sostenete, fossero dei traditori (allo stesso modo, le loro decisioni tattiche esprimono la volontà democraticamente formu­lata dai congressi: «in alto», che diavolo, si fa ciò che si desidera «in basso»!). Se ci rinfacciate degli errori, ebbene, chi in questa assem­blea è senza peccato lanci la prima pietra! Se abbiamo tardato a pren­dere contatto con l'IC ritenendone prematura la fondazione, è che, prima di svolgere un ruolo internazionale, gli operai devono essere aiutati (i poverini!) a farsi delle idee chiare sulla dittatura del proleta­riato e sui mezzi per raggiungerla, e a questo fine occorrono tempo e pazienza, né vi si giunge a furia di scissioni che possono essere neces­sarie, ma sono in ogni caso deprecabili. Se abbiamo firmato il trattato di pace, è perché sulla Germania pesava l'incubo di una miseria crescente, e quelli che possono fare la rivoluzione non sono i proletari completa­mente impoveriti e «straccioni», ma solo «gli strati operai il cui livello di vita si è potuto relativamente elevare» (le riforme e la piena occu­pazione, possibilmente con alti salari, al servizio della rivoluzione!); per lo stesso motivo, pur apprezzando come gesto di solidarietà inter­nazionale l'offerta di grano russo, l'abbiamo respinta preferendo accettare il grano (e tutto il resto) promesso dall’America al doppio fine di salvare voi che ne avevate poco e i nostri operai che stavano crepando di fame. Siamo anche noi, e senza esitazioni, per l'uso della forza, ma non pos­siamo elevare a princìpio né la violenza né il terrore; ammettiamo che «in date situazioni» siano necessari, ma non dobbiamo farne profes­sione aperta, perché, se lo facessimo, allontaneremmo quei ceti che sono non solo importanti ma vitali per l'esercizio della dittatura proletaria in avvenire. Se, quando eravamo al governo con i maggioritari, abbiamo respinto la missione russa non lasciandole superare il confine, gli è che eravamo... tre contro tre, e che cosa diavolo si pretende che potessimo fare di più? (Bella scoperta, ribatterà Rakovsky: lo sapete ora, voi pretesi marxisti, che la via del ministerialismo è condannata a priori anche soltanto sul piano delle «conquiste» parziali?). D'altronde, quella missione veniva col proposito pubblicamente dichiarato di svolgere pro­paganda disfattista e rivoluzionaria nell’esercito; e che cosa avrebbero detto gli Alleati, che cosa i generali, che cosa gli alti funzionari statali? E, per concludere, la freccia del Parto: voi dite che siamo opportunisti; ma non lo siete altrettanto voi nel predicare concessioni ai piccoli contadini? Ci accusate di non aver voluto la fusione con gli spartachisti nel dicembre 1918 - gennaio 1919; ma non siete voi stessi a sconfessare il «putschismo» dei deliberati del congresso costitutivo del KPD? Lamentate che non ci dichiariamo apertamente per il terrore; ma che cos'altro sosteneva la Luxemburg nel suo «programma della Lega di Spartaco»? Conclusione retorica: «Formulate la vostra risposta come volete; noi abbiamo l'onesta aspirazione, l'onesto desiderio di costruire un fronte comune con l'Internazionale comunista. Non potete contestare le nostre convinzioni, i nostri sentimenti, la nostra attività rivoluzionaria. Rivoluzionari noi restiamo anche se ci sospettate d'essere opportunisti». Tutto insomma dipende non già da noi, ma da voi: «Se volete la stessa cosa che noi vogliamo, cioè stringere in unità compatta il proletariato di Russia e di Germania, sforzatevi allora, seriamente come noi ci sfor­ziamo [!!!], di trovare nelle ulteriori trattative una via che ci permetta di procedere rapidamente insieme nella comune battaglia contro il capi­talismo, per il bene del proletariato mondiale!».

La risposta di Lenin fu breve e tagliente, e noti il lettore come tocchi alcuni dei punti di princìpio sui quali «Il Soviet» aveva più di frequente insistito. Quando si pretende d'essere in regola col marxismo perché si è sempre stati per la conquista del potere politico (gli indipen­denti si appellavano al programma di Erfurt; i riformisti italiani a quello di Genova!) si «elude la sostanza della questione; si ammette la con­quista del potere politico, ma non si ammette la dittatura»: si è dei kautskiani! Lo si è una volta di più quando ci si presenta formalisticamente come espressione della volontà delle masse o degli iscritti al partito, sottacendo le tendenze contrastanti da cui sono percorsi gli uni e le altre. Lo si è quando si deplora la scissione, invece dì riconoscere che «la classe operaia internazionale si trova ancora sotto il giogo della aristocrazia operaia e degli opportunisti» e che troppo tardi ci si è divisi dai Noske e dagli Scheidemann. Lo si è a maggior ragione quando si afferma (in un linguaggio che «mi domando se sia lecito usare in un partito comunista, un linguaggio controrivoluzionario») che la rivoluzio­ne è possibile solo nel caso in cui la situazione degli operai non peggiori «troppo»:

 

«la vittoria dei proletari è impossibile senza sacrifici, senza un peggioramento temporaneo della loro situazione [...]. Sul piano storico mondiale è vero che, nei paesi arretrati, i coolies cinesi non sono in grado di fare la rivoluzione proletaria, ma in alcuni paesi più ricchi, dove mediante il brigantaggio imperialistico si vive meglio, è controrivoluzionario dire agli operai che devono temere un peggioramento "troppo grande". Bisogna dire il contrario. Un'aristocrazia operaia che ha paura dei sacrifici, che teme di impoverirsi "troppo" durante la lotta rivoluzionaria, non può aderire al partito. Altrimenti la dittatura è impossibile, soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale»!

 

Si è infine dei kautskiani all’ennesima potenza, quando fra violenza e terrore si fa una distinzione «forse possibile in un manuale di socio­logia ma non nella pratica politica, soprattutto nelle condizioni tedesche... Non soltanto Kautsky, ma anche Ledebour e Crispien parlano del ter­rore e della violenza in uno spirito controrivoluzionario. E un partito che si adatti a queste concezioni non può dare il suo contributo alla instaurazione della dittatura».

Ed è vano il tentativo di prendersi la rivincita accusando i bolscevichi di parlare a favore del piccolo contadino e della sua azienda invece di proporre l'immediata socializzazione di tutta la proprietà terriera e di tutte le forme di gestione di essa: è una «concezione pedantesca» che ignora il persistere in regime borghese, accanto alla grande azienda capi­talistica a lavoro associato, di un'enorme varietà di forme semifeudali o comunque precapitalistiche, non passibili d'essere immediatamente eliminate; e che ci preclude la possibilità di avere con noi nella rivolu­zione i contadini poveri. Pretendete dunque che le vostre «convinzioni rivoluzionarie» siano riconosciute? «Lo contesto nel modo più energi­co; non nel senso che non vogliate agire in modo rivoluzionario, ma nel senso che non riuscite a pensare da rivoluzionari... Siete imbe­vuti da cima a fondo di spirito borghese!».

Non si creda che a Mosca la cosiddetta sinistra indipendente abbia avuto da dire molto di più o di meglio della «destra». Se Däumig se la cavò con l'argomento che il suo partito andava giudicato in base non a un equivoco ieri ma ad un limpido oggi in cui «tutto scorreva e fer­mentava» e quindi, «in una dura lotta contro le resistenze della ma­teria» (!!!), nulla vietava di radicare nelle sue file i princìpi della conquista violenta del potere e della dittatura, Stöcker deprecò l'idea della scissione; del terrore disse che «altro è averne chiara la necessità, altro farne propaganda aperta»; venne di rincalzo a Crispien notando che in periodo rivoluzionario non si potranno certo evitare gravi turba­menti del processo produttivo, ma «in un paese industriale come la Germania, bisognerà attribuire maggior valore al mantenimento della continuità della vita economica, che in un paese agricolo come la Rus­sia». E toccò a Zinoviev richiamare le esperienze non solo della vittoriosa rivoluzione bolscevica ma della purtroppo vinta rivoluzione tedesca («non c'è una strada, nei quartieri operai delle vostre grandi città, in cui sangue proletario non sia corso... Come potete esitare nella questione del terrore?») e concludere: «Abbiamo bisogno non che ci si genufletta davanti alla rivoluzione russa e all’Internazionale comunista: dobbiamo avere la certezza che in tutti i paesi si faccia il proprio dovere»: in base a questi princìpi e solo ad essi il Comi­tato esecutivo potrà decidere chi, come e quando, accogliere nelle proprie file.

Prima di Däumig e Stöcker, aveva preso la parola Serrati. Flebile nella parte introduttiva - col tedioso lamento sulla difficoltà di inten­dersi dopo un lungo isolamento reciproco, quasi che i marxisti non possedessero un loro linguaggio e si capissero solo in forza di... rap­porti umani, e sul complesso d'inferiorità dal quale i congressisti erano vinti al cospetto dei bolscevichi («Che cosa sono io in confronto al compagno Lenin?»), il suo discorso era stato tutto un'apologia della tolleranza, un inno al vogliamoci-bene: «Si aprano le porte dell’Inter­nazionale a tutti i partiti in grado di fare con noi la rivoluzione [formula larga quanto le braccia della provvidenza], poi si discuta» inve­ce di posare a «maestri che amministrano voti buoni o cattivi ai loro alunni»! Il suo ragionamento era stato degno del materialismo mec­canicistico della II Internazionale decadente: Non si tratta di giu­dicare uomini e correnti (datemi, se ci riuscite, un «sincerometro»!), ma di stabilire se la situazione nel tal paese è o no rivoluzionaria, perché «è la situazione generale che crea gli uomini, non viceversa». In Francia, per esempio, rivoluzionaria essa non è; quindi, suscita «atteg­giamenti equivoci e confusi, un cenno del capo a destra e uno a sini­stra, senza mai sapere che cosa si vuole». In Germania, per contro, la situazione è rivoluzionaria; quindi l'USPD è meglio del PSF benché peggio del PSI, che da parte sua opera in una situazione di vigilia rivoluzionaria - e, in tali circostanze, che conta un Turati il quale, dopo tutto, «osserva la disciplina», esercita un'influenza trascurabile (ma guai se dovesse andarsene trascinandosi dietro qualcuno: la reazione, dalla quale egli è deciso a difendere gli operai, ci spazzerebbe via!), ha alle sue spalle un opposizione alla guerra condotta «non solo da pacifista, ma da nemico dell’opportunismo borghese» e, nei discorsi tanto deplorati da Lenin e Zinoviev, ha il coraggio e la scaltrezza di dire alla borghesia: «Vedi? Non sei più in grado di mantenere il potere, di dominare sul popolo: fatti da parte»? Le condizioni 15 e 16 par­lano di tener conto delle particolari circostanze di ciascun paese (solo per questo, convinto che l'Esecutivo «le interpreterà in senso lato», io Serrati voterò i 21 punti!): lasciate dunque a noi «la scelta del momento dell’epurazione del partito; tutti vi assicuriamo  e nessuno, credo, vorrà accusarci di aver mai rotto la nostra parola - che essa sarà compiuta; ma dateci la possibilità di compierla noi stessi in modo vantaggioso per le masse lavoratrici, per il partito, per la rivo­luzione che stiamo preparando!» (con quanta chiarezza di idee e coe­renza di azione, si è visto).

La risposta di Lenin, com'é facile immagine, non era stata meno dura che per gli indipendenti tedeschi: il discorso di Serrati «è di quelli che abbiamo già sentito pronunciare nella II Internazionale - era scattato – [...] Egli non fa che ripetere ciò che ha detto Crispien» (finalmente! da mesi andavamo ripetendo che il massimalismo era pa­rente prossimo del centrismo indipendente!). Che razza di partito è mai, quello il cui rivoluzionarismo dipende dagli alti e bassi della situazione? «Anche in una situazione controrivoluzionaria si può e si deve condurre una propaganda rivoluzionaria... In ciò appunto ri­siede la differenza fra comunisti e socialisti». E che c'entra la volontà dei riformisti di difendere il proletariato dalla reazione? «Anche Cernov, anche i menscevichi e molti altri ancora in Russia "difendono" il proletariato; ma non è una buona ragione per accoglierli nelle no­stre file»!

Più avanti, Zinoviev dichiarò inaccettabile lo stato di cose che in Italia permetteva ai riformisti di manovrare a piacer loro i sindacati: «Se i capi del PSI lo tollerassero ancora a lungo, noi ci rivolgerem­mo, al disopra delle loro teste, agli operai italiani». Due memorabili strigliate; ma è giocoforza riconoscere che, tradotte in pratica, sia in Lenin che in Zinoviev esse non andavano oltre la rivendicazione del «rin­novamento del partito», così come, per l'USPD e il PSF, non andavano oltre la vigile attesa delle decisioni dei loro congressi e il rinvio fino ad allora di un giudizio sulla possibilità di ammetterne o no l'ala seces­sionista: verdetto, almeno per quest'ultima, sospeso...

La discussione, di cui tralasciamo gli aspetti minori, volgeva alla fine. Contro due soli voti (6) le 21 condizioni vennero approvate: fer­missime nelle direttive d'azione, esse risultarono relativamente blande nei criteri posti a base della costituzione dei partiti aderenti. Non è difficile notare le profonde convergenze ma anche i punti di distacco fra il testo definitivo e le richieste contenute nel discorso Bordiga (7). Pur nelle loro lacune e indeterminatezze, le «condizioni» formavano tuttavia una solida base di appoggio su cui lavorare nei mesi venturi; non l'optimum, ma la premessa del suo conseguimento. La nostra Fra­zione era decisa a considerarle tali: perciò in Italia vi fu Livorno, non Tours, e nemmeno Halle! La tragedia è che tanto non bastò, né poteva bastare, per le sorti dell’Internazionale di Lenin...

(1) Mattina e pomeriggio del 29, e 30 luglio. Protokoll, cit., pagg. 234-401. Le Condizioni sono riprodotte più oltre, pagg. 685-690.

(2) Cfr. pagg. 451432.

(3) Le repliche a Cachin sono, nel seguito, sempre di Rakovsky.

(4) Si notino d'altra parte le «eccezioni» che limitano i poteri discrezionali d'inter­vento dell’Esecutivo, e che purtroppo saranno poste al servizio di frettolose ammissioni di interi gruppi di «convertiti».

(5) Pagg. 690-692.

(6) Alle tesi avevano espresso adesione completa Bombacci e Polano, quest'ultimo con la riserva che era difficile «da un lato epurare il PSI, mentre dall’altro si accet­tano gruppi opportunistici in provenienza dall’USPD e dal PSF»; il primo - volu­bile come sempre - con l'aggiunta che bisognava smembrare tutto il partito, non fermarsi ai Turati o ai Treves!

(7) Entrambi in appendice, pag. 685 segg. e 690-692.

 

c) I Partiti comunisti e il parlamentarismo.

 

Gli illustri storiografi del superopportunismo vorrebbero dare a bere al colto pubblico e all’inclita guarnigione che il vero nodo del II Congresso sia stata la questione del parlamentarismo rivoluzionario e che, d'altra parte, la partecipazione alle elezioni e all’attività parla­mentare costituisse per Lenin e per i bolscevichi la vera pietra di para­gone dei partiti comunisti. Il primo assunto è smentito dal gigantesco corpo di tesi per il II Congresso, che pone al centro di quest'ultimo le questioni di princìpio della rivoluzione, della dittatura, del terrore rosso e della preparazione necessariamente antiparlamentare del proletariato ad essi; il secondo trova la sua smentita nel preambolo e in tutti i paragrafi delle tesi sul parlamentarismo (1), che collocano l'attività elettorale e parlamentare, svolta in funzione (e solo in fun­zione) rivoluzionaria, fra le armi e gli strumenti sussidiari e neppur sempre validi della lotta comunista. Nella misura in cui, esigendo che la prassi del parlamentarismo rivoluzionario (cioè con finalità antiparla­mentari) fosse dichiarata vincolante con tutte le sue deduzioni pratiche, i bolscevichi ne fecero uno dei banchi di prova dell’efficienza rivolu­zionaria dei nascenti partiti comunisti, essi avevano di mira, da un lato, la demolizione dei pregiudizi parlamentari e democratici sopravvi­venti nel movimento operaio e battuti fieramente in breccia in ogni accapo delle Tesi (il che, per gli illustri storici, non è uno schiaffo ma un sonoro ceffone!), dall’altro lo smantellamento dei pregiudizi inversi, a sfondo anarchico, sindacalista, operaista, in forza dei quali l'asten­sionismo era poggiato o su considerazioni morali (ripudio del «potere», della «autorità», dei «capi», scrupolo di «purezza», condanna del compromesso in sé e per sé ecc.), o sulla identificazione fra lotta parla­mentare e lotta politica in genere, o infine sul rifiuto della stessa lotta politica a favore di quella puramente economica, e del partito a favore dei sindacati (o, contro questi ultimi, dei consigli di fabbrica od altro), oppure facevano un solo fascio di parlamenti e sindacati reazionari propugnandone allo stesso titolo il sabotaggio; più in generale, avevano di mira la critica di quelle correnti alle quali si erano aperte le porte dell’Internazionale nella fiducia di poterle solidamente inquadrare sotto una direzione centralizzata e servirsene come efficace contrappeso - in quanto schiettamente proletarie - alle ali «comuniste» di partiti nati dal ceppo infido della II Internazionale e non ancora sbarazzatisi del suo pesante retaggio; correnti che riproducevano in sé per altri versi l'identica malattia democratica, il culto delle masse sovrane o perfino dell’individuo sovrano. In entrambi i casi, i bolscevichi si muovevano sullo stesso terreno nostro, e il dissenso fra noi e loro verteva su que­stioni che presupponevano l'accettazione senza riserve dei princìpi anti­democratici del comunismo.

Si confrontino le tesi Lenin-Bukharin (e la loro premessa, scritta da Trotsky) con quelle presentate dalla nostra Frazione, come le ripro­duciamo in appendice (2). Identica è la diagnosi della funzione antirivo­luzionaria dell’istituto parlamentare come strumento di governo della borghesia; identica la negazione del parlamentarismo e come «forma del futuro ordine sociale» e «come forma della dittatura di classe del proletariato», e della possibilità di «conquistarlo» per metterlo al servizio della lotta di emancipazione del proletariato; identica la procla­mazione che compito del comunismo è la distruzione degli istituti parla­mentari e democratici (si vedano in particolare i punti 1-6, par. I, delle tesi dell’IC); identica la condanna dell’«antiparlamentarismo per princìpio» (punto 16, par. III) come di ogni illusione di «via parlamentare al socialismo»; identico il rifiuto di considerare motivo di scissione nel movimento comunista la questione del parlamentarismo in funzione anti­parlamentare ed eversiva o, viceversa, dell’astensionismo come mezzo all’identico scopo, trattandosi in ogni caso di questione sussidiaria ri­spetto a quelle che definiscono e, nello stesso tempo, reggono il partito di classe (punto 19). Identica infine la condanna dell’«indifferenza» anarchica per quella manifestazione tipica della democrazia borghese che sono le elezioni e il parlamento, giacché il nostro astensionismo po­stula l'intervento nei comizi elettorali in funzione di attacco politico all’impalcatura democratica del dominio di classe capitalistico e la co­stante denuncia delle illusioni e mistificazioni parlamentari.

Le tesi Lenin-Bukharin escludono d'altra parte che la partecipa­zione alle elezioni e al parlamento possa essere elevata a direttiva permanente; e non solo non negano, ma proclamano la necessità, in date circostanze chiaramente specificate, del boicottaggio delle une e dell’altro (punto 17), il che, sia detto per inciso, mette un'altra pietra tombale sulla pretesa dei cosiddetti «leninisti» d'oggi di parlare in no­me di... Lenin; essi, se mai ammettono il boicottaggio di Montecitorio e di Palazzo Madama, lo fanno nell’unica prospettiva, esplicitamente esclusa dalle Tesi 1920 che... democrazia e parlamentarismo abbiano bisogno d'essere salvati!

Dove, dunque, si colloca la divergenza? Le nostre Tesi lo spiegano anzitutto (diciamo anzitutto, perché qui è la questione di fondo) nei pun­ti 6-7: la partecipazione alle elezioni e all’attività parlamentare era utile e perfino necessaria, a scopi di propaganda, agitazione e critica, quando il problema della preparazione alla conquista del potere non si poneva come prospettiva unica e diretta; lo è ancora nei paesi in cui la rivoluzione borghese è tuttavia in corso e il parlamento conserva il suo originario carattere di istituto storicamente rivoluzionario in senso anti­feudale (Russia 1917, paesi coloniali e «arretrati» 1920 e, in parte, ancor oggi). Nei paesi ad antica tradizione democratica, invece, dove la rivoluzione borghese è da tempo conclusa, non solo tutte le energie del partito e della classe devono essere consacrate alla preparazione dello sbocco rivoluzionario, ma a questo fine devono essere spietatamente sradicate le tradizioni, le abitudini, i pregiudizi, le illusioni con­nesse alla pratica corrente del parlamentarismo; ivi e in questa fase - che non si misura né a mesi né ad anni, perché copre l'intero ciclo storico destinato a concludersi con la vittoria mondiale del proletariato rivoluzionario - il boicottaggio del parlamento (ma l'utilizzo dei comizi a fini di denuncia del lurido mito della «sovranità popolare») si impone perché chiarezza sia fatta nella selva oscura della gigantesca mistificazione tessuta intorno alle dée gemelle «scheda ed urna» come «armi» della conquista del potere.

Le considerazioni d'ordine pratico avevano, rispetto a questa con­siderazione di princìpio, valore secondario; quello che né allora né poi si capì è che neppur esse non avevano nulla a che vedere con la «paura di sporcarsi le mani» o di «perdere tempo» o di «correre inutili rischi» o di «compromettersi» anche non volendo; non si capì che rispondevano alla diagnosi essenziale secondo cui, perché i giovani partiti aderenti alla III Internazionale, soprattutto nei paesi di capitalismo stramaturo e quindi di tabe parlamentare incancrenita, rispondessero nei fatti alla propria qualifica di comunisti, tutta l'impostazione tradi­zionale della loro attività e della loro organizzazione andava non solo «raddrizzata» (come si preoccupano di raddrizzarla le Tesi dell’IC, al par. IV, con tutta una serie di clausole cautelative) ma CAPOVOLTA poggiandola su basi antitetiche a quelle del passato e impegnando tutte le forze su un terreno di lotta non solo antilegalitario ma illegale; cosa impossibile in un Occidente dove la partecipazione elettorale e parla­mentare postula l'assorbimento della maggior parte delle energie in un meccanismo che tutto stritola e toglie il respiro. Orizzonti completamente nuovi dovevano essere aperti sia ai militanti comunisti, sia ai proletari in generale; orizzonti ben chiari e, per così dire, ovvi nella Russia zarista, dove due rivoluzioni si accavallavano e ogni attività politica di vera opposizione assumeva subito e di per sé natura, forma e ca­rattere rivoluzionari - anche nella Duma, per modesto e secondario che fosse quel «teatro di guerra» -, e che ovvi e chiari sarebbero divenuti anche in Occidente se le ultime bende democratiche fossero state strappate dagli occhi agli operai.

I bolscevichi si preoccupavano - a ragione - di riorientare gli «antiparlamentaristi per princìpio»; non videro - nella loro ottica di poderosi militanti di una rivoluzione duplice - che sarebbe stato prima necessario rieducare da cima a fondo i «parlamentaristi per abito mentale e consuetudine», per oneste che fossero le loro aspirazioni anti-democratiche. «La questione cardinale è quella del partito - dirà Bukharin, relatore per le Tesi dell’IC. Se avete un partito vera­mente comunista, non temerete mai di mandare uno dei vostri uomini nel parlamento borghese, perché egli saprà come un rivoluzionario ha il dovere di agire». Ma il problema andava rovesciato: non avremo mai un partito «veramente comunista» se non sposteremo di 180° l'asse della sua attività; e non potremo spostarlo se non facendo piazza pulita delle tradizioni, tenaci come la più terribile forza di inerzia, entro le quali essi sono cresciuti e vivono tuttora. Bukharin cercava la ga­ranzia «che il vecchio parlamentarismo ha cessato di esistere» nel fatto che la selezione dai riformisti e dagli opportunisti fosse «già avvenuta»; per noi, conditio sine qua non di tale selezione (nostra tesi 11) era la rottura completa dei legami col parlamento e coi suoi meccanismi, che inoltre rappresentava un'arma di lotta contro i pregiu­dizi anarcosindacalisti, nati spesso come reazione istintiva alla degene­razione parlamentare del socialismo (tesi 9). I bolscevichi avevano alle spalle una tradizione unicamente rivoluzionaria che potevano trasportare indenne nel settore ultrasussidiario della Duma, organo giovane e, per le condizioni storiche del paese, ancora teatro di non vane battaglie: da noi, non esisteva che una tradizione al 100% parlamentare esercitantesi in istituzioni ormai svuotate di ogni contenuto non diciamo rivoluzio­nario ma nemmeno politico (come riconosce proprio e specifico dell’epo­ca imperialistica e tendenzialmente fascista del dominio borghese la premessa di Trotsky alle Tesi dell’IC).

Questi erano i punti nodali della nostra visione del problema: né le Tesi di Lenin-Bukharin, né le argomentazioni dei loro discorsi, poterono convincerci che non eravamo nel giusto; in realtà, esse non risposero neppure ai quesiti che sollevavamo. Il bilancio l'ha tirato la storia: non solo non sono nati partiti comunisti, ma quelli che si di­cono tali sono precipitati nel fango di un parlamentarismo nudo e crudo, che non ha nemmeno il pudore di giustificarsi come, sia pur flebilmente, sentivano di dover fare i Turati, i Treves, i Modigliani!

La commissione per la questione parlamentare, presieduta da Trot­sky, aveva apportato alcune varianti al progetto di tesi Lenin-Bukharin, completandole con il preambolo già ricordato che è soprattutto una vi­gorosa denunzia del carattere e della funzione controrivoluzionari de­gli istituti rappresentativi della borghesia nell’epoca imperialistica ed una critica dell’opportunismo parlamentare dei partiti della II Internazionale e delle sue sopravvivenze in quelli che intendevano aderire alla III. Purtroppo, la discussione (3) aperta dalla sua lettura e dal di­scorso Bukharin fu in gran parte viziata dall’intrecciarsi alle nostre argo­mentazioni - che, come riconobbe il relatore, partivano da premesse teoriche marxiste - di quelle ingenue, sentimentali o dottrinalmente eterodosse degli «antiparlamentaristi per princìpio», e, a causa della loro eccessiva insistenza su situazioni locali o su aspetti contingenti del tema, finì per ruotare intorno a questioni di dettaglio pratico, invece di prendere di petto il problema di fondo. Gli stessi bolscevichi, nell’an­sia di evitare che «da premesse giuste si deducessero conclusioni sba­gliate», o che si affrontassero le gravi e difficili questioni della tattica comunista da un angolo morale, sentimentale e perfino... estetico ca­dendo nell’idealismo da un lato e nel nullismo dall’altro, persero di vista i punti che avrebbero dovuto costituire il centro di gravità del dibattito: 1) la demolizione di quelle «sopravvivenze di mentalità parla­mentare» nei partiti aderenti o ansiosi di aderire alI'IC, di cui il discorso Bukharin (4) aveva pur fornito una documentazione schiaccian­te, 2) l'analisi critica delle loro cause - premessa per l'adozione di rime­di efficaci a un male riconosciuto cronico o semicronico.

Bukharin credette di vedere «un ponte», sul piano tattico, tra il nostro astensionismo e quello degli «infantilisti di sinistra»; ma ri­torsioni polemiche come quella che noi - a giusta ragione da un punto di vista sentimentale, a torto da un punto di vista politico - avrem­mo aborrito dal «contatto fisico» con i borghesi nelle elezioni e al parlamento (il «contatto» da noi denunziato era tuttavia di ben altra natura; si identificava con l'interclassismo a base di tutta la concezione de­mocratica e della sua traduzione in termini di prassi elettorale e parla­mentare!), o come l'altra che ci sfidava a provare l'impossibilità logica dell’utilizzo della tribuna di Montecitorio o del Reichstag a fini di propaganda e agitazione antiparlamentare (ma il problema non era «logico»; era storico e dialettico!), queste ritorsioni polemiche da un lato sbagliavano mira, dall’altro giravano intorno alla questione centrale senza sfiorarla, mentre era teoricamente improprio e agli ef­fetti pratici pericoloso, anche se polemicamente suggestivo, equiparare come «istituzioni» l'esercito, in cui tuttavia chiediamo ai comunisti di entrare per minarlo dall’interno, e il parlamento in cui da parte asten­sionista si pretende che non si debba entrare al fine di distruggerlo (ma l'istituto parlamentare non è soltanto - ed è già molto - un or­gano del dominio di classe borghese; è anche il terreno di coltura di una mistificazione alla quale i proletari si sono rivelati, tramite l'opportuni­smo, particolarmente vulnerabili!). Il solo argomento a favore del «par­lamentarismo rivoluzionario» che potesse addurre Bukharin e infatti addusse, era l'esperienza bolscevica alla Duma zarista (ma il punto era se tale esperienza fosse meccanicamente applicabile all’Occidente marcio di democrazia da più di un secolo!); e la sua esortazione a liberarsi dalle scorie socialdemocratiche per divenire partiti «veramente comunisti» ed essere quindi in grado di uscire illesi dalla prassi elettorale, eludeva il grosso quesito: come ottenere che partiti i quali si trasci­navano dietro fino a Mosca la zavorra di «sopravvivenze» parlamentari dure a morire e al cui ingresso in forze nell’IC le condizioni di ammis­sione, anche nella loro forma definitiva, non opponevano un argine sufficiente (o almeno non lo avrebbero opposto se applicate con ecces­siva latitudine), rispondessero infine ai requisiti di organizzazioni «vera­mente comuniste»?

É su questi temi di fondo che ritornò nel suo rapporto (5) il dele­gato della Frazione comunista astensionista del PSI: riaffermazione che il nostro antiparlamentarismo derivava, diversamente da quello anarchico o sindacalista, dalla critica marxista della democrazia borghese; impossi­bilità di mettere sullo stesso piano le condizioni storiche in cui si era svolta l'azione anche, e solo sussidiariamente, parlamentare dei bolsce­vichi in Russia (condizioni analoghe a quelle del 1848-49 in Germania, quando Marx ed Engels delinearono la prospettiva della doppia rivo­luzione) e le condizioni storiche in cui, nell’Occidente a capitalismo avan­zato, urgeva indirizzare la classe operaia verso l'obiettivo unico della presa rivoluzionaria del potere e dell’abbattimento dello stato borghese e dei suoi ingranaggi (prima assai di poter iniziare l'opera di soppres­sione dei rapporti di produzione e quindi anche di proprietà capitalistici) demolendo ogni illusione gradualista e parlamentare e togliendo il ter­reno sotto i piedi alla reazione istintiva, ma di tipo sindacalista, dell’«antiparlamentarismo per princìpio» o per orrore dei «capi» o per disdegno dell’«azione legale»; impossibilità di considerare la nostra tattica antiparlamentare alla stessa stregua di chi preconizzava l'uscita dai sindacati; urgenza di selezionare partiti e militanti al vaglio di una posizione non equivoca di fronte alle elezioni e al parlamento, che negli stati capitalistici più evoluti assorbono per forza di cose il massimo delle energie dei partiti trasformandoli in grandi macchine di fabbricazione di voti e mandati; necessità di adottare in questi paesi «una tattica molto più diretta di quella che fu necessaria nella rivoluzione russa»; infine, riaffermazione che la questione non poteva e non doveva portare a scissioni nel movimento comunista mondiale, e assicurazione che, qua­lunque fosse la decisione del congresso, noi l'avremmo applicata col massimo impegno augurandoci che il consuntivo del «parlamentarismo comunista» risultasse in futuro meno squallido di quello presentato da Bukharin nella sua relazione per riguardo al passato.

Gli interventi che seguirono meritano appena un cenno perché o si limitarono a riferire su esperienze locali positive di azione parlamentare comunista (per esempio in Bulgaria e, secondo i «partecipazionisti», in Inghilterra) o negative (in Inghilterra secondo l'«astensionista per princìpio» Gallacher, o in Svizzera secondo Herzog), e a sollevare questioni d'ordine pratico per risolvere le quali si potevano proporre risorse tattiche opposte a quelle propugnate (vedi il discorso Murphy), o si rifecero a premesse antimarxiste (come quello del sindacalista tedesco Suchy, per il quale il parlamentarismo era il logico prodotto del... dottrinarismo e settarismo marxista in generale!). Solo nel discorso dello svizzero Herzog le questioni di fondo vennero riprese e collegate alla prospettiva inquietante dell’afflusso nell’IC di intere ali di partiti socialisti frettolo­samente orientatesi verso il comunismo ma sostanzialmente legate a tra­dizioni ultralegalitarie ed ultraparlamentari (PSF, USPD!); anche qui, però, solo di sfuggita. Si può capire che la confusione così venutasi a creare abbia forzato la mano nelle loro repliche a Lenin e Bukharin, ma ciò non toglie che la loro polemica, al solito rovente quanto spregiu­dicata, eluse il vero nocciolo della questione e scivolò in affermazioni la cui audacia poteva non preoccupare in chi aveva dato mille prove di non perdere mai la bussola dei princìpi, ma aveva il grave difetto di fornire argomenti a eventuali «conclusioni sbagliate» in senso opportu­nista.

Dire, come fece Lenin riprendendo un accenno polemico di Bukharin, che i Soviet non esistono ancora fuorché in Russia, né si possono creare ad arte, mentre i parlamenti sono li a portata di mano come prodotti di uno sviluppo storico che non si può eliminare dalla faccia della terra solo perché non si è ancora capaci di scioglierlo con la forza - e noi abbiamo il dovere di utilizzarli come uno dei tanti mezzi, sia pure sussidiari, per favorire lo snodamento delle situazioni politiche che necessariamente vi si riflettono -, significa, contro ogni migliore intenzione (il delegato astensionista non esitò a dirlo nella sua replica finale), fornire un'arma provvidenziale a quanti propugnano addi­rittura la partecipazione comunista a governi borghesi - mezzo anche questo, senza dubbio, per influire sugli eventi, ma in direzione opposta a quella del comunismo! Dire che anche i sindacati sono opportunisti e come tali rappresentano un pericolo, quindi - stando alla logica dell’astensionismo - dovrebbero essere disertati, significa dimenticare sia pure per un momento che, reazionari o no, i sindacati restano organizza­zioni di soli proletari; non sono istituti interclassisti nella forma e classisti (borghesi) nella sostanza. Riconoscere la necessità di sollevare gli strati arretrati della classe operaia alla comprensione di ciò che ancora sfugge ai loro occhi, cioè la funzione controrivoluzionaria del parlamento, fornendo loro nei fatti e non soltanto nelle parole la dimostrazione della impossibilità di utilizzarlo come mezzo di emancipazione delle classi sfruttate, è servirsi di una spada a doppio taglio e, peggio, metterla nelle dubbie mani di teorici dell’impiego di ogni mezzo per raggiungere (sedi­centemente) il fine: è smentire la nostra tesi fondamentale che il partito ha il compito di precedere le masse, non di seguirle. Rinfacciarci l'inge­nuità di credere che gli intellettuali, le classi medie, la piccola borghesia diverranno comunisti non appena il proletariato abbia conseguito la sua vittoria nella rivoluzione, è sfondare una porta aperta per noi e aprirne una a coloro ai quali l'abbiamo sbattuta in faccia; i paladini del corteg­giamento delle mezze classi col pretesto che, dopo tutto, esse hanno un peso di cui non possiamo concederci il lusso d'ignorare l'esistenza. Richia­marsi alla situazione «rivoluzionaria» mondiale come sicura garanzia contro la corruzione dei comunisti in parlamento (Bukharin!), signifi­cava affidarsi al potere misteriosamente salutifero di contingenze che pure non avevano ancora avuto la virtù di impedire a interi partiti operai di non lasciarsi... corrompere fino al midollo. «Abbasso il parla­mentarismo!» gridò Bukharin a chiusura del dibattito anche per fugare le apprensioni di sindacalisti rivoluzionari, sbop stewards, IWW: noi sapevamo bene che tale era il suo grido del cuore, ma non bastava il grido più sincero e appassionato per far marciare sulla via diritta coloro che, ne avevamo l'assoluta certezza, comunisti erano soltanto di nome e magari volevano esserlo anche di fatto, ma dovevano percorrere ancora una lunghissima strada e distruggere più di un «vecchio Adamo» in fondo a se stessi prima di diventare tali. Allo stesso modo, sapevamo che l'audacia di alcune battute polemiche non significava nei bolscevichi rinuncia ai princìpi e avallo di tesi come quelle che temevamo sarebbero state appioppate loro; ma il punto è che le parole, come i libelli, habent sua fata, sono anch'esse fatti materiali le cui conseguenze possono sfug­gire al controllo di chi le pronuncia ed essere poste al servizio della deformazione completa o parziale del suo pensiero, soprattutto da parte di uomini e gruppi non abbastanza solidi, neppure nell’ipotesi migliore, per concedersi il lusso dell’ardimento polemico senza infrangere la teoria, rinnegare i princìpi, e agire contro l'una e contro gli altri.

Di qui la riaffermazione del nostro dissenso nella replica che pure riproduciamo (6) e che fu accompagnata dalla richiesta che le nostre tesi fossero votate soltanto «dai compagni di orientamento astensionista che le accettano in blocco e nel loro spirito perché condividono le affermazioni marxiste che ne formano l'essenza», non avendo esse «nulla in comune con gli argomenti antiparlamentari degli anarchici e dei sindacalisti». Fu un bell’esempio di «selezione organica» operata in forza e sulla base dei princìpi: mentre le tesi dell’IC vennero appro­vate con un'ottantina di voti contro undici, per le nostre non votarono che tre delegati: belga, svizzero, danese. Polano, per la gioventù socia­lista italiana, aveva già dato la sua adesione alle tesi «partecipazioni­stiche» pur dichiarando di interpretare il pensiero solo di una parte, e non la maggiore, dei suoi compagni; Serrati aveva fatto altrettanto riconoscendovi le tesi sostenute dalla maggioranza del congresso di Bolo­gna ma non perdendo l'occasione per tessere l'ennesima apologia del gruppo parlamentare socialista e della sua leale applicazione del «parla­mentarismo rivoluzionario» (7)!

E la questione fu chiusa. Aggiungiamo che il solo partito ad appli­care nella lettera e nello spirito il «parlamentarismo alla bolscevica» fu, nel 1921, il PCd'I diretto dalla Sinistra - non a caso, perché la selezione praticata a Livorno era stata abbastanza drastica per mettere in fuga ogni... «parlamentarista per princìpio»!

 (1) Riprodotte più oltre, pag. 692 segg.

(2) Pagg. 699-702.

(3) Sedute antimeridiana e pomeridiana del 2 agosto. Protokoll, pagg. 404-442.

­(4) Integralmente riprodotto nel citato O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, pagg. 36-41.

(5) Riprodotto più oltre, pagg. 702-706.

(6) Pag. 707.

(7) Da parte sua Goldenberg propose un emendamento sulla necessità del boi­cottaggio degli istituti parlamentari in periodo rivoluzionario, del tutto pleonastico dato che le tesi Lenin-Bukharin lo proponevano giù in modo esplicito.

 

d) Il movimento sindacale, i consigli di fabbrica e di azienda e l'internazionale comunista.

 

Il corpo di tesi definitivo su questo importantissimo tema fu il risultato di lunghi dibattiti in sede di commissione, sia perché - rispetto alla prima e «più ristretta» stesura - si dovette tener conto dell’evo­luzione subita dalle tradizionali forme dell’associazionismo economico operaio in alcuni paesi capitalistici avanzati (e prevedibile altrove in un futuro non lontano in relazione alla fase imperialistica del capitalismo, se la rivoluzione proletaria non fosse intervenuta a troncarne irreversibilmente il ciclo), sia perché la presenza al congresso di organizzazioni economiche (ma non prive di una loro più o meno chiara ideologia a sfondo «neo-sindacalista») invitate a aderire all’IC, non poteva non riflettersi in divergenze di princìpio su punti vitali della questione, come ben si legge nel rapporto introduttivo di Radek. Di questo stato di fatto le Tesi risentono nello svolgersi non sempre lineare delle argomentazioni e nel loro carattere «aperto», cioè, per alcuni aspetti, volontariamente inconclusivo, mentre l'assenza di una preliminare dichiarazione di princìpi e di una dettagliata critica teorica delle deviazioni e degli errori contro i quali esse sono (ma in forma non sufficientemente esplicita) dirette, non giova né ad eliminare equivoci, né a definire una linea di azione tradotta in direttive nitide e sicure.

Delle controversie e divergenze esplose in sede di commissione, il dibattito in sede congressuale non conserva che l'eco; ma è caratte­ristico che, mentre nelle sedute del 3 e del 4 agosto l'accordo sulle tesi sembrava raggiunto, in quella del 5 i contrasti conobbero un vivace ritorno di fiamma, costringendo Radek e Zinoviev a ribattere più volte i chiodi che credevano ormai solidamente piantati e infine troncare una discussione che minacciava di divenire interminabile da un lato e impro­duttiva dall’altro. Le Tesi sono, per gli stessi motivi, costrette a vibrare alternativamente duri colpi a deviazioni contrarie e tuttavia parallele.

Da un lato bisognava riaffermare, contro un «infantilismo» di falsa sinistra secondo il quale la lotta economica dovrebbe considerarsi «supe­rata» a favore della lotta puramente politica, l'inscindibilità della prospet­tiva rivoluzionaria marxista dalle determinazioni materiali e dai conflitti di classe che ne scaturiscono - lotte il cui fecondo risultato non sta nel contenuto delle «conquiste» ottenute, sempre precarie sotto la domi­nazione capitalista, ma nei riflessi positivi dello scontro sulla disposizione della classe operaia a battersi contro il regime del suo sfruttamento, sul senso di solidarietà tra gli sfruttati al disopra delle barriere della divi­sione del lavoro e dei confini di stato, sulla loro organizzazione su scala sempre più vasta, sulla loro prontezza a superare i limiti della contesa per il salario e per il tempo di lavoro e a mobilitarsi sul fronte dell’at­tacco politico al capitale ed al suo stato. Bisognava quindi ribadire l'ob­bligo per i rivoluzionari comunisti di prendervi parte non solo attiva ma trainante, al duplice scopo di rinvigorirle ed estenderle e - questo l'altro polo della questione - di propagandare il princìpio che la lotta economica è di per sé insufficiente e deve trasferirsi sul piano più alto della lotta politica di classe.

Bisognava riaffermare i compiti storici dell’organizzazione economica come problema non di forma ma di sostanza, e porre in risalto sia il suo valore permanente in quanto primo modo di associazione degli operai salariati in base a questa caratteristica generale, e in quanto leva della azione del partito di classe, sia il fatto che, in una situazione di aspre lotte sociali mobilitanti enormi strati proletari, anche il sindacato diretto dai più corrotti riformisti non solo rappresenta per la propaganda e la agitazione un campo fertilissimo e un insostituibile anello di congiunzione fra avanguardia politica e giovani retroguardie politicamente immature, ma può essere conquistato alla direzione del partito rivoluzionario sullo slancio di un movimento reale troppo impetuoso per non travolgere le strutture anchilosate di un'éra di «pace sociale» e i loro vertici passati più o meno direttamente al nemico. Andava correlativamente proclamato che scopo ultimo dei comunisti in tale attività è la trasformazione del sindacato, organo aperto a soli operai, in arma e strumento della rivolu­zione e in cinghia di trasmissione delle direttive, oltre che dei princìpi, del partito (Tesi 1-3), giacché solo grazie alla presenza attiva del partito politico di classe esso può diventare, a sua volta, rivoluzionario (1).

Respingendo in linea di princìpio la scissione sindacale e la pretesa di costruire artificiosamente sindacati in sé rivoluzionari (o tali per la loro forma) in antitesi a quelli dominati dai riformisti (Tesi 4), non si poteva tuttavia ignorare né che, in molti paesi, questi ultimi vietano e reprimono ogni propaganda e agitazione comunista assumendo funzioni di vera e propria polizia ausiliaria borghese, o «si chiudono ermetica­mente» alle masse inorganizzate dei manovali semplici, migranti e di colore, ospitando solo l'«aristocrazia operaia» e agendo come fattore non di unificazione ma di divisione della classe; né il fatto che, per reazione a tale stato di cose, si erano costituiti o si andavano costituendo organismi scissionistici, aperti a tutti i salariati, nei quali affluivano i proletari più combattivi e devoti alla causa della rivoluzione (gli IWW contro l'AFL ecc.). Bisognava d'altra parte reagire alla tendenza, diffusa anche in movimenti vicini o affiliati all’IC, a fare della scissione sinda­cale un dogma, per giunta sbandierato con estrema leggerezza e nella prospettiva erronea di possedere il rimedio ad ogni male in «nuove» forme d'associazione - per industria anziché per mestiere ecc. - elevate a feticci come forme per decreto della storia «incorruttibili»; e riaffer­mare che la scissione può rendersi necessaria e dover essere propagandata dai comunisti, non esitando questi ad assumersene la responsabilità, solo nelle condizioni di cui sopra, e quando, da un lato, sia chiaro alla gran massa degli organizzati che la si promuove non per finalità remote e ad essi per ora incomprensibili, ma per le esigenze della loro stessa lotta economica, dall’altro si abbia la certezza di non isolarsi dal grosso dell’esercito proletario che si tratta non di confinare nel limbo di un'eterna sudditanza alle leggi del capitalismo - una delle quali è che lo sfruttato debba combattere solo per migliorare la propria condizione, non per infrangerla (si veda il punto 5) - bensì di elevare all’altezza della battaglia politica contro il modo di produzione capitalistico.

Anche in tal caso, affermano però le Tesi, i comunisti non possono e non devono rinunciare a svolgere un lavoro - forzatamente illegale - nelle organizzazioni disertate, e a puntare su di esso, come sulla pressione esterna di organismi nuovi tipo IWW (che hanno il dovere di appoggiare aiutandoli a vincere i pregiudizi sindacalisti in cui perlopiù sono irretiti), per rivoluzionarne le strutture sulla scia di una marea sociale in rapida e travolgente avanzata.

É facile vedere come la convergenza su tutti questi punti con i princìpi sostenuti dalla Sinistra e più volte illustrati in queste pagine fosse totale, anche se nelle Tesi della Frazione (2) essi apparivano inquadrati in una visione teorica più chiara e fissati in formulazioni più esplicite. Di ritorno in Italia, A. Bordiga osserverà nel numero citato de «Il Soviet» che sarebbe stato opportuno legare la critica dello «scissionismo per princìpio» alla condanna dell’«erronea concezione generale secondo cui l'azione proletaria poggerebbe, anziché sulla lotta politica del partito per la dittatura proletaria, su un'azione economica di organismi sindacali "rivoluzionari“ che, espropriati i capitalisti, assumerebbero direttamente la gestione della produzione». L'argomento è appena sfiorato nelle Tesi (II/6-7), mentre ne parlò brevemente, ma con molta decisione, Radek nella sua replica del 5 agosto (Protokoll, pag. 621) in piena consonanza con la posizione dal marxismo sempre proclamata che l'opera di trasformazione economica successiva alla presa del potere, dovendo compiersi in funzione degli interessi generali e delle finalità storiche della classe, può solo essere diretta dal Partito, con l'aiuto, è certo, delle associazioni sindacali, mai in subordine ad esse.

L'Internazionale non poteva non prendere atto del vigoroso slancio del moto in parte spontaneo dei consigli di fabbrica, e delle prospettive ch'esso apriva sia all’organizzazione di proletari non ancora sindacati, sia all’estensione capillare della battaglia contro l'opportunismo e per la «subordinazione delle organizzazioni sindacali alla direzione del Partito come avanguardia della rivoluzione proletaria» tramite i gruppi comuni­sti nelle officine e nelle associazioni di categoria; doveva nello stesso tempo ribadire che i consigli di fabbrica non possono mai sostituire quegli organi centralizzati e a base non locale che sono i sindacati, né prima della presa del potere né, meno che mai, in regime di dittatura proletaria e nella organizzazione economica del comunismo. Doveva far leva sulla lotta da essi ingaggiata per il «controllo della produzione» non però coltivando l'illusione che in regime capitalista i salariati possano effetti­vamente controllare il meccanismo produttivo, anzi per rendere chiara ai proletari l'esigenza, a questo fine, della preventiva conquista del potere politico - questione sviluppata nel paragrafo II delle Tesi con minore chiarezza e coerenza che negli articoli del «Soviet» dedi­cati ad essa, ma in modo che non tollera dubbi (3). I comunisti, inoltre, sono chiamati a partecipare ai consigli di fabbrica e a difenderli con­tro le dirigenze sindacali che cercano di esautorarli; ma, qualora riescano a conquistare l'organizzazione sindacale, o la dirigano in partenza, ad integrarli e subordinarli ad essa come reparti di un unico fronte di com­battimento. Anche qui, ogni feticismo di forme particolari è bandito, pur riconoscendosi il dovere di seguire con vigile attenzione gli sviluppi di qualunque organismo e tipo particolare di associazione sorto dalla dina­mica stessa della lotta di classe per valorizzarlo ai fini della battaglia politica finale.

Nell’ultimo paragrafo, le Tesi ribadiscono l'urgenza della direzione centralizzata su scala internazionale delle organizzazioni economiche dichiaratesi per i princìpi della rivoluzione e della dittatura proletaria nel senso del neocostituito Consiglio provvisorio, benché lascino non perfettamente chiarito il princìpio che la rottura con la centrale di Am­sterdam, strumento della Lega delle Nazioni e palladio dell’opportunismo, non smentisce né invalida il criterio di massima dell’esclusione (salvo i casi già detti) della scissione sindacale sul piano nazionale.

Il dibattito, aggrovigliato e piuttosto confuso, mise in rilievo il persistere di divergenze teoriche là dove ci si illudeva di averle superate. Benché solo in brevi interventi, riemersero le storture di cui abbiamo già fatto conoscenza in altri capitoli e che, alla lunga, opporranno insu­perabile ostacolo all’adesione all’IC, o alla permanenza in essa, di organismi di tipo sindacalista: negazione che i sindacati in quanto tali possano mai essere rivoluzionari (nei discorsi di Gallacher ed anche di Bombacci, che si meritò un ennesima strigliata; ma non sarebbe stato meglio trarne sin d'allora un giudizio definitivo sul confusionismo massimalista e sulla babele del suo linguaggio... unitario?); affermazione della necessità di distruggerli allo stesso titolo dello Stato borghese (discorso Gallacher) (4); rifiuto di svolgere qualunque lavoro, anche illegale, in sindacati reazio­nari come l'AFL (discorsi dei delegati americani in genere) o rivendica­zione di un'attività intesa ad animarli (chissà come) di «un nuovo spirito» che poi risultava essere lo spirito della... scissione ad ogni costo e in qualunque circostanza; ritrosia ad accettare la costituenda Interna­zionale sindacale rossa o per avere un concetto non marxista della dittatura del proletariato (discorsi dei delegati degli IWW e shop stewards) (5) o per rivendicarle un'autonomia dall’Internazionale politica pur nell’«amichevole camminare fianco a fianco» (discorso Serrati). I delicati problemi tattici di coordinamento delle diverse forme di lavoro comunista nei sindacati, tradizionali o no, nei consigli di fabbrica od altri, vennero in parte rimessi ad ulteriore esame nell’unica sede in cui avrebbero dovuto, fin dall’inizio, trovare naturalmente il loro posto le orga­nizzazioni economiche genericamente orientate verso l'accettazione dei princìpi della conquista rivoluzionaria del potere e della dittatura del proletariato, cioè l'Internazionale sindacale rossa: per la sua composi­zione non del tutto omogenea, il congresso non poteva dare di più, e il dibattito svoltosi, le perplessità e le esitazioni persistenti, in qualche caso il rinvio di decisioni finali, sono un'altra prova della complessità dei problemi di fronte ai quali si trovò posta fin dal suo atto di nascita l'Internazionale comunista (6).

(1) Il termine, preso a sé, è improprio: il sindacato deve non tanto «diventare rivo­luzionario», quanto essere «trasformato in arma di lotta per la rivoluzione dal partito politico di classe».

(2) Cfr. pagg. 394-403.

(3) Le Tesi, lucide nel proclamare che rivoluzionario non è il controllo ma la lotta per conseguirlo sotto la direzione del Partito, mancano sia di una critica delle ideologie consiliari che appunto del controllo sulla produzione - realizzato in regime borghese - facevano una «conquista rivoluzionaria», sia di un chiaro accenno alla prospettiva, già verificatasi in Germania e prossima a verificarsi in Italia auspice Giolitti, che la borghesia accetti una forma di «controllo sindacale» sull’industria come risorsa conservativa e come manovra di diversione riformistica (cfr. «Il Soviet» dell’11.XI.1920): danno cioè per acquisito che la lotta per il controllo non possa non svolgersi in lotta politica per il potere. É qui il loro punto debole: una lacuna, non un errore di princìpio. Cfr. anche il par. 11 a pag. 398.

(4) Cfr. Protokoll, pag. 629.

(5) Questi protestarono inoltre perché nella dichiarazione istitutiva del Consiglio provvisorio internazionale dei Sindacati rossi si escludeva ed anzi si condannava ogni possibile scissione sindacale: i due documenti - dichiarazione e tesi - in realtà non combaciano completamente, e diversità di tono e di accento apparvero, nel corso del dibattito congressuale, anche nei discorsi di Radek e Losovsky, a ulteriore riprova che la questione non era stata approfondita in tutti i suoi complessi aspetti.

(6) Le Tesi, che riproduciamo dalla loro versione in lingua tedesca in appendice, valgono fra l'altro a smentire la leggenda oggi diffusa che vi si predichi un'«ubbi­dienza cadaverica» alle direzioni sindacali opportuniste e vi si escluda ogni scissione, anche quella imposta dal conseguimento di un'organizzazione il più possibile estesa ed unitaria dei salariati, cioè da quello stesso motivo per cui, in linea di princìpio, la «scissione» in campo sindacale è deprecata.

 

e) Condizioni di costituzione dei soviet.

 

Il documento da noi riprodotto in appendice al cap. V, che respinge la «moda» di costituire artificialmente (o progettare sulla carta) i con­sigli operai - forma specifica della dittatura del proletariato - in situazioni non rivoluzionarie, attribuendo loro virtù taumaturgiche ed ignorando il Partito, la cui influenza dominante può sola impedire che degenerino in organi opportunistici e perfino controrivoluzionari come non riuscivano a capire operaisti, consiglisti, ordinovisti ecc. venne approvato senza discussione dopo un breve discorso di Zinoviev.

 

f) Le questioni nazionale e coloniale.

 

L'impostazione data al suggestivo problema, posto in vivida luce dall’esplodere di poderosi moti insurrezionali nei paesi soggiogati dall’imperialismo soprattutto nell’Oriente asiatico, rappresenta uno dei vertici più alti del II Congresso.

Partendo dalla solida base dei dati oggettivi dell’evoluzione del ca­pitalismo alla scala del pianeta, essa affida al movimento comunista e alla sua organizzazione mondiale centralizzata il gigantesco compito storico di integrare i movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale soprattutto nelle colonie - i cui obiettivi non possono non essere democratico-borghesi, ma che vedono alla loro avanguardia le masse contadine affa­mate di terra e in molti casi un esile ma battagliero proletariato locale - nella strategia mondiale della rivoluzione proletaria indirizzata al cuore delle metropoli imperialistiche; la fusione e integrazione, in altre parole, delle incipienti rivoluzioni doppie, come nella grandiosa prospet­tiva marxista del 1848 e del 1850 (Manifesto e Indirizzo della Lega dei Comunisti), con la divampante rivoluzione unica a finalità puramente proletarie. Era un compito a sua volta duplice in riferimento a due fasi diverse - ma non separate da mitiche barriere - dell’attacco interna­zionale alla dominazione delle grandi centrali imperialistiche, massima allora fra tutte l'Inghilterra: non platonica solidarietà «morale» ma appoggio attivo del proletariato metropolitano ai movimenti rivoluzionari armati delle colonie e semicolonie nello scrollare il giogo dei colonizza­tori e sfruttatori imperialistici; appoggio del proletariato vittorioso nelle grandi metropoli imperialistiche ai paesi emancipatisi dalla loro sogge­zione per consentire alle masse contadine e proletarie in quelle aree immense di scavalcare d'un balzo lo stadio economico capitalistico, o di abbreviarne la durata, malgrado l'inesistenza o il basso grado di sviluppo delle condizioni materiali del passaggio al socialismo, grazie alla loro inserzione in un piano economico mondiale unitario diretto dal proletariato di tutte le nazioni (Tesi 1/8).

Era una visione grandiosa che, mentre non pretendeva innovare nulla rispetto alla dottrina marxista delle rivoluzioni doppie - borghesi «trascrescenti» in proletarie, secondo la formula leniniana -, ne am­pliava gli orizzonti estendendone il raggio oltre i tradizionali confini dell’Europa (come il movimento reale tendeva irresistibilmente a superarli prima ancora che la teoria ne codificasse la necessità storica) e trasfe­rendo sull’immensa arena del pianeta quella lotta per la «rivoluzione in permanenza», annunziata da Marx ed Engels nel 1850, la cui direzione politica centrale la storia affida e può soltanto affidare al proletariato e al suo partito, anche se, nelle aree a capitalismo appena nascente nel quadro di rapporti economici in prevalenza precapitalistici, questo si muove alla testa di forze non proletarie quali la piccola borghesia urbana e soprattutto rurale, ed ha come prospettiva immediata una «rivoluzione borghese spinta fino in fondo» (radicale, dunque, nella sua faccia rivolta al passato precapitalistico e alla sua distruzione, ma pur sempre borghese); e diciamo «anche se» perché il proletariato è visto come classe inter­nazionale, non locale né nazionale, e la sua guida politica non può non risiedere, deterministicamente, nelle aree che costituiscono l'epicentro del dominio del capitale e quindi delle risolutive lotte di classe fra proletariato e borghesia.

Era una visione eminentemente dialettica (indigesta quindi per i socialisti legati alle tradizioni della II Internazionale, come lo è per i falsi partiti comunisti di oggi nati sul tronco dello stalinismo), che se da un lato assicurava alla classe operaia delle cittadelle metropolitane del capitalismo più evoluto l'apporto delle masse popolari delle colonie e dei paesi dipendenti, le addossava dall’altro l'onere pesante ma glorioso della loro guida politica e (dopo la vittoria) di un sostegno anche econo­mico, pagato a prezzo dei maggiori sacrifici in nome di un internaziona­lismo non proclamato a parole ma praticato nei fatti, alle loro eroiche ma disperate battaglie, così come conferiva a queste ultime una dimen­sione mondiale, non più angustamente nazionale, e un contenuto bensì democratico ma molto più eversivo - specie in riferimento ai rapporti di proprietà - di quanto le giovani borghesie dei paesi «arretrati» non prevedessero e, meno che mai, gradissero; non solo perché l'aboli­zione dell’oppressione nazionale - nel suo senso reale, non aridamente giuridico - è possibile soltanto con la vittoria sul capitalismo (Tesi I/4), ma perché, nel quadro di una prospettiva come quella delineata nel breve ma densissimo discorso di Lenin a illustrazione dei princìpi infor­matori della questione, la forma «nazionale» delle lotte di emancipa­zione dei popoli oppressi passa in secondo piano rispetto al loro contenuto di grandiose jacqueries spinte al limite estremo dell’autosuperamento grazie all’intervento attivo del proletariato non tanto locale (giacché in molte di queste aree esso era, come è tuttora, quasi inesistente e comunque gracilissimo) quanto internazionale.

La vuota ideologia della «uguaglianza in generale e dell’uguaglianza delle nazioni in particolare», l'illusione piccolo-borghese di una coesi­stenza pacifica delle nazioni sotto il capitalismo, il nudo e formale riconoscimento,  «cui si limitano i democratici borghesi, si chiamino pure “socialisti”» - della parità di diritti e dell’indipendenza e auto­determinazione dei popoli in regime borghese, dovevano, in questa visione, essere definitivamente estirpati in primo luogo nel movimento proletario delle roccaforti imperialistiche, troppo spesso adagiatosi in una stolida «indifferenza» e perfino ostilità verso i conati di ribellione dei popoli colonizzati e in genere dipendenti dalla borghesia del proprio paese (magari dietro lo schermo pretestuoso della loro natura borghese, in realtà a salvaguardia di una condizione cui erano legati l'esistenza e i privilegi dell’aristocrazia operaia) (1), e in secondo luogo negli stessi movimenti di liberazione nazionale dei popoli soggiogati, troppo spesso irretiti in «pregiudizi e diffidenze nazionali» storicamente comprensibili ma - come il movimento comunista non deve mai cessare di mettere in risalto e denunziare - subdolamente alimentati nelle grandi masse in rivolta dalla nascente borghesia indigena e dalle forze reazionarie ad essa alleate nell’intento di chiuderne le aspirazioni e gli slanci rivoltosi nell’angusto orizzonte della nazione, del popolo, della razza o, peggio, di un credo religioso (Tesi I/11). Facendo leva non su generici blocchi popolari e nazionali, ma sulle masse contadine, povere e semiproletarie delle colonie e dei paesi dipendenti, e prendendone la testa, l'Interna­zionale comunista ne indirizzava le rivolte armate non solo contro l'im­perialismo; ma contro la stessa borghesia locale, i grandi proprietari terrieri, l'aristocrazia tradizionale, pronti tutti insieme a servirsene per strappare alla potenza dominante una libertà per quanto limitata e volgersi subito dopo contro gli «alleati di ieri» a salvaguardia della perpetuazione del proprio dominio di classe non esitando a tal fine ad allearsi con l'imperialismo colonialista nella disperata difesa del comune privilegio economico e sociale. E dettava ai proletari e ai comu­nisti prima di tutto delle metropoli capitalistiche e, in secondo luogo, dei paesi coloniali e semicoloniali il compito - da realizzare nella più rigorosa autonomia politica ed organizzativa del partito, autonomia che non avrebbe senso se non si traducesse nella delimitazione programmatica dai partiti nazionali borghesi, soprattutto se vestono panni demagogica­mente «socialisti» -, di appoggiare i moti popolari di liberazione, non rifuggendo in dati casi neppure da alleanze temporanee con essi, per orientarli verso soluzioni analoghe a quella della «dittatura democratica operaia e contadina» agitata dai bolscevichi per la Russia zarista ed ora ulteriormente sostanziata dalla nascita del tipico strumento rivoluzionario dei soviet, per spezzare così i fittizi e controrivoluzionari «fronti di tutto il popolo» e  questo l'obiettivo vero - aprire la via, nelle condizioni più favorevoli, al divampare delle lotte di classe e quindi allo sviluppo del movimento proletario.

Delle repubbliche sovietiche eventualmente sorte in questa grandio­sa prospettiva, la Russia dei Soviet sarebbe stata il polo di attrazione, e il vincolo federativo istituito con esse, e destinato a trasformarsi in strettissima unione, sarebbe divenuto il palladio di un fronte di lotta ben diverso - un «fronte» mondiale anticapitalistico -, di cui la dittatura rossa vincitrice a Mosca e Pietrogrado si sarebbe assunta una volta di più il principale fardello, in nome di quel vero internazionali­smo che esige

«primo, la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta su scala mondiale; secondo, da parte della nazione che ha vinto la propria borghesia, la capacità e la volontà di compiere i più grandi sacrifici nazionali per abbattere il capitalismo internazionale» (Tesi I/10).

Che cos'ha di lontanamente comune, questa visione immensa, che non eleva a princìpio la lotta per l'indipendenza nazionale in sé e per sé, ma la inserisce in quella lotta insurrezionale mondiale proletaria alla cui vittoria è legata la piena risoluzione dei problemi di nazionalità e di razza, e al cui centro stanno quindi i presupposti «della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione e dello sviluppo indipendente del partito comunista locale» (2); che cos'ha, questa visione immensa di lontanamente comune con la squallida prospettiva offerta dal sedicente comunismo odierno di marca moscovita o pechinese, immerso fino al collo nei pregiudizi allora irrevocabilmente condannati dell’indipendenza e sovranità nazionale, della coesistenza pacifica, della democrazia cosid­detta progressiva, dei fronti nazionali interclassisti, della non ingerenza negli affari altrui e, supremo bene, del «commercio a reciproco vantag­gio», e pronto a distribuire brevetti di... socialismo agli esponenti non solo di borghesie nazionali avide e strozzine, ma di strutture feudali, semifeudali e addirittura tribali (sceicchi, emiri, capitribù) purché genericamente «antimperialiste» in quanto anti... americane (e neppure questo, se a capo degli Stati Uniti c'è un Roosevelt al posto di un Hoover, o un Kennedy al posto di un Nixon!) o perfino soltanto «neutraliste»? La «guerra santa» la cui spada Zinoviev brandì un mese dopo al I Congresso dei popoli d'Oriente a Bakù era una guerra di classe nata sul terreno nazional-rivoluzionario e borghese-radicale e travalicante i suoi confini angusti e miserabili per trasportarsi sul terreno rivoluzionario proletario e comunista, per definizione internazionale: era, in accenti nuovi solo per la novità delle sue dimensioni, la «rivoluzione in perma­nenza» di Marx, mai e poi mai la lotta in difesa dell’eternità del mer­cato, del commercio, della nazione, delle mille «sovranità» di individui e stati in reciproca gara di «competizione» contrabbandata per pacifica! E che cosa, questa visione gigantesca che strappa il proletariato delle metropoli imperialistiche al veleno della solidarietà con la propria bor­ghesia sfruttatrice di colonie e semicolonie e, richiamandolo alla sua missione di classe liberatrice di tutta l'umanità, gli impone anche per questa via di rompere ogni legame con l'opportunismo, sovrastruttura ideologica di un'aristocrazia operaia prosperante sulle briciole cadute dal banchetto colonialista; che cos'ha essa di comune con l'abietta iden­tificazione dell’internazionalismo proletario con la difesa degli... interessi nazionali nella versione moscovita o pechinese del «comunismo»? E sarebbe mai conciliabile la grandiosa prospettiva del «piano mondiale unico» quando ognuno dei paesi in cui oggi si pretende che sia avvenuta una rivoluzione socialista bada a se stesso e guai se ci si mette il naso, ognuno avendo la sua sovranità e il suo «piano» particolare da eseguire, e appunto per tale possesso fregiandosi del titolo di «edificatore del socialismo»?

Nella loro stesura definitiva, le tesi sono anzi più nettamente scolpite di quelle originarie di Lenin, almeno per quanto riguarda il problema della posizione dei partiti comunisti di fronte ai movimenti di emancipa­zione nelle colonie e alle loro organizzazioni politiche. Gli emendamenti e le varianti furono il risultato di vivaci dibattiti, in sede di commissione, coi delegati dei giovani partiti dell’Oriente, in particolare dell’India, e offrono un'altra dimostrazione di quanto i bolscevichi fossero pronti a rendere più nitide e dure le posizioni assunte in un primo tempo con relativa cautela (nel legittimo dubbio che il movimento comunista inter­nazionale non potesse, allo stato dei fatti, accogliere e dare di più) quando si trovavano di fronte «interlocutori» decisi a spingersi non di­ciamo oltre ma nella stessa direzione che del partito russo era stata la grandissima forza e la solida costante nei periodi anche più difficili e soprattutto in questi. Come disse Lenin nel suo rapporto, fu in sede di commissione che si decise di parlare non più, genericamente, di movi­menti democratico-borghesi, ma di movimenti «nazional-rivoluzionari», per chiarire (altra botta ai «comunisti» di oggi!) che

 

«noi, in quanto comunisti, dovremo sostenere e sosterremo i movimenti bor­ghesi di liberazione nei paesi coloniali solo quando tali movimenti siano effettiva­mente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati (3): in assenza di tali condizioni, anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica alla quale appartengono anche gli eredi della II Internazionale [e, aggiungiamo, i discendenti dei seppellitori della III - in Cina, in India, in Indocina, in Egitto, in Cile ecc.!]».

 

Ciò non toglie che i movimenti nazional-rivoluzionari siano demo­cratico-borghesi nelle loro prospettive e nel loro contenuto, «perché la massa fondamentale della popolazione dei paesi arretrati è costituita dai contadini, cioè dai rappresentanti dei rapporti borghesi capitalistici»; sono però forze rivoluzionarie conseguenti appunto come lo erano state nella Russia prerivoluzionaria (e «sarebbe utopistico pensare che i partiti proletari [] possano applicare una tattica e una linea comunista in questi paesi senza stabilire determinati rapporti con il movimento contadino e senza fornirgli un appoggio effettivo») e la loro entrata nell’agone delle lotte insurrezionali non solo crea le condizioni più propizie allo sviluppo delle guerre di classe proletarie, ma provoca un profondo dislocamento delle basi su cui poggia l'incontrastato dominio dell’imperialismo.

Analogamente, le tesi vennero emendate per mettere in risalto la necessità di svolgere un'attiva propaganda a favore della creazione di soviet rurali, espressione di un moto deciso ad intaccare il potere della grossa proprietà fondiaria e delle molteplici piovre di origine precapitalistica prosperanti in dolce simbiosi con i nascenti o già nati rapporti di produzione borghesi e le corrispondenti forme di proprietà, e per «fissare e motivare - come ripeté Lenin - la tesi che i paesi arretrati, con l'aiuto del proletariato dei paesi progrediti, possono passare al siste­ma sovietico e, attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comu­nismo, scavalcando la fase del capitalismo».

Le «tesi supplementari» redatte dal delegato indiano Roy e, dopo essere state a loro volta profondamente rivedute, approvate all’unanimità dalla commissione, vennero infine aggiunte a quelle di Lenin soprattutto al fine di chiarire i problemi legati alla delimitazione fra gli schieramenti politici in seno ai movimenti di liberazione nazionale delle colonie, all’appoggio delle loro ali rivoluzionarie popolari e soprattutto contadine, e alla gelosa salvaguardia dell’autonomia politica, programmatica ed organizzativa dei partiti comunisti - "anche se soltanto embrionali” - nelle rispettive aree, giacché la posizione rigorosamente marxista espressa dal testo esclude, al pari dell’«indifferentismo», ogni caduta nel «frontismo»: appoggiare «il movimento rivoluzionario democratico bor­ghese - nella formula di Lenin - senza mai confondersi con esso».

Un punto vivacemente discusso in sede dì commissione fu la pre­tesa, in particolare di Roy ma anche dei delegati turkestani nel loro entusiasmo di esponenti di alcuni fra i più giovani e battaglieri partiti comunisti asiatici, di spostare l'epicentro della lotta per il comunismo dalle metropoli imperialistiche alle aree arretrate del pianeta, facendo «dipendere dalla vittoria della rivoluzione sociale in Oriente il destino del comunismo in tutto il mondo». A quanto risulta da un breve cenno sul quotidiano (4) pubblicato durante il congresso (il Vestnik vtorogo Kon­gressa K. I., nr. 1, 27.VII.1920), il delegato indiano, subito rimbeccato da Lenin, era partito da una doppia affermazione: 1) «le sorti del movi­mento operaio in Europa dipendono interamente dal corso della rivoluzio­ne in Oriente: senza il trionfo della rivoluzione nei paesi orientali, si può ritenere che il movimento comunista in Occidente non conti nulla», perché «è dalle colonie, soprattutto in Asia, che il capitalismo mondiale trae le sue principali risorse e, al limite, i capitalisti europei possono dare agli operai la totalità del plusvalore e attirarli quindi al loro fianco, avendo ucciso in essi ogni aspirazione rivoluzionaria»; «la classe operaia europea non riuscirà ad abbattere l'ordine capitalista finché la sorgente di sovrapprofitti rappresentata dalle colonie non sarà stata definitivamente chiusa»; 2) il proletariato nelle colonie ha già ora il potere di trascinare dietro di sé le grandi masse popolari facendo leva sui loro interessi di classe - nel primo caso cadendo in eccessi «economistici» e involontariamente rinviando la rivoluzione alle calende greche, nel se­condo esagerando il peso della classe operaia in paesi economicamen­te spesso non ancora neppure alle soglie del modo di produzione capitalistico e implicitamente negando ogni valore ai movimenti de­mocratico-borghesi (la... delusione porterà in seguito Roy ad aderire al partito di Gandhi e Nehru!). Una simile concezione, anticipatrice delle molteplici deviazioni oggi in voga nei gruppuscoli di falsa sinistra e ben definita col termine di «messianismo asiatico», infrangeva in realtà le basi dell’intera visione marxista, giacché, se è vero che la lotta per il comunismo trae vigoroso alimento ed impulso dai moti sociali delle plebi oppresse nelle colonie, ex colonie e semicolonie, qui le pre­messe materiali del comunismo difettano, né possono essere create dal nulla qualora manchi la vittoria proletaria nei paesi a capitalismo avan­zato, i quali restano perciò la chiave di volta, il fattore risolutivo, della strategia mondiale comunista. Sarà proprio un delegato dell’Oriente in risveglio, il persiano Sultan Sade, a confutare in parte (5) dalla tribuna del congresso questa deviazione:

 

«Supponiamo che in India sia iniziata la rivoluzione comunista. Potranno i lavo­ratori di questi paesi resistere all’assalto della borghesia del mondo intero, senza l'aiuto di un grande movimento rivoluzionario in Inghilterra e in Europa? Natural­mente no. La repressione della rivoluzione in Persia e in Cina ne è un esempio palmare. Se oggi i rivoluzionari persiani e turchi lanciano all’onnipotente Inghilterra il loro guanto di sfida, non è perché siano più forti, ma perché i banditi imperialisti sono divenuti impotenti. La rivoluzione, cominciata in Occidente, ha reso scottante il suolo anche in Turchia e in Persia, e infuso nuove energie nei rivoluzionari. L'epoca della rivoluzione mondiale è cominciata».

 

Quello che i teorici e gli storici borghesi, tanto presuntuosi quanto ignoranti, chiamano «l'eurocentrismo marxista», è infatti l'individua­zione dei punti nodali nell’evoluzione mondiale dei rapporti fra le classi in quanto riflessi del grado materiale di sviluppo raggiunto dalle forze produttive: la rivoluzione comunista può certo scoppiare dovunque, ed è ben possibile o addirittura probabile che scoppi prima nelle aree arre­trate del globo - l'«anello più debole» della dominazione capitalistica -, ma può vincere internazionalmente alla sola condizione che il proleta­riato abbatta lo Stato borghese là dove esistono le condizioni sufficienti (e, oggi, più che sufficienti!) del passaggio diretto, sul terreno econo­mico, al comunismo inferiore e di qui al superiore, e perciò i presupposti della realizzazione del «piano mondiale» delineato da Lenin come via al superamento dello stadio economico e sociale capitalistico in quello che oggi si chiama «il terzo mondo» - forza attiva, mai avanguardia, del comunismo (non per destino... razziale, ma per determinazione oggettiva), a scorno di tutti i Marcuse di oggi e di ieri.

Il dibattito aperto dal discorso introduttivo di Lenin e dall’illustra­zione ad opera di Roy delle tesi supplementari, vide alternarsi alla tri­buna delegati dell’India, della Persia, della Corea, della Cina, della Turchia, delle Indie Olandesi, ma anche dell’Irlanda allora in piena lotta armata contro la colonizzatrice e sfruttatrice Inghilterra, e delegati degli Stati Uniti come interpreti «bianchi» del movimento delle popo­lazioni di colore, tutti intesi non solo ad illustrare i progressi del mo­vimento comunista nelle zone «arretrate» del globo, ma a sottolineare (come fece pure Radek in un breve intervento) l'enorme apporto dei moti insurrezionali delle nazionalità oppresse al processo di corrosione delle basi mondiali dell’imperialismo, e quindi anche alle prospettive di successo della rivoluzione proletaria nei punti-chiave della sua domina­zione, nonché la necessità di rompere irrevocabilmente con le tradizioni secondinternazionalistiche di cattedratica «indifferenza» o addirittura di avversione del movimento operaio a questo «nuovo orizzonte».

Appunto quelle tradizioni trovarono eco - guarda... caso! - nei discorsi pronunziati dai massimalisti italiani fra i roventi clamori del congresso. La posizione assunta da Graziadei, maestro nell’arte di dire e non dire, è certo la più sottile: egli non respinge l'impostazione generale del problema, che anzi dichiara di condividere (non senza aggiungere il fronzolo, caro al suo revisionismo teorico, della gongolante «constatazione» che Lenin mostra così di sapersi servire con maestria «dell’unica parte [!!!] del marxismo che non sia lecito toccare: il metodo» e, appunto perciò, di cogliere con estrema lucidità gli aspetti «concreti» della situazione mondiale post-bellica) benché metta in guar­dia (e fin qui non a torto) contro l'applicazione meccanica e indifferenziata dello stesso metro di valutazione storica dei problemi di nazionalità ai paesi ad alto sviluppo capitalistico e a quelli arretrati; ma, provocando una sacrosanta bordata di proteste, pretende che non ci si sbilanci nelle direttive da impartire ai comunisti nelle colonie e semicolonie, invitan­doli a prestare ai movimenti rivoluzionari di liberazione non un «appoggio», ma un «interessamento attivo» («è una frase wilsoniana», scattò in risposta l'irlandese Mac Alpine, «che non significa nulla come tutte le frasi di questo signore; è un metodo mascherato per espungere completamente questa idea, e ricorda i metodi usati dalla II Internazionale!»), a contrarre con essi non già «temporanei legami» nel senso di un «cammino comune», ma solo (oh, l'azzeccagarbugli!) «rapporti temporanei». É nel discorso Serrati, tuttavia, che affiora in particolare la sordità secondinternazionalistica per un problema posto in modo e con accenti così drammatici dalla stessa storia. Se egli non ha torto (anche gli opportunisti dicono a volte cose giuste!) nel chiedere che certe formulazioni vengano meglio precisate per dissipare il rischio di interpretazioni estensive ed evitare che prestino il fianco in Europa a sviamenti in senso sciovinista e nazionalista o, nel proporre alleanze con forze e partiti non proletari, «indeboliscano la coscienza di classe del proletariato», assume invece una posizione apertamente antidialettica e antimarxista proclamando che «l'azione di liberazione nazionale intrapresa da gruppi borghesi-democratici, anche quando ricorre al mezzo dell’azione armata, non è mai un'azione rivoluzionaria; essa viene intrapresa a favore di un imperialismo nazionale in formazione [!!!] o nel contesto della lotta dell’imperialismo capitalistico di un altro Stato contro quello precedentemente dominante», e negandole ogni funzione rivoluzionaria anche in senso borghese, sia pure «inconseguente», se non vi interviene il proletariato; cade poi nell’arroganza e nello «sciovinismo da grande poten­za» tipici del socialismo tradizionale (6) quando aggiunge che il pericolo di smarrire il giusto orientamento di classe nel seguire una politica non ben definita di alleanze ed accordi è molto maggiore «nei paesi arretrati che in quelli più progrediti, perché nei primi il proletariato non possiede ancora una salda coscienza di classe e spesso segue ciecamente i suoi capi», come se sul banco d'accusa del congresso non si trovassero proprio quei partiti occidentali che riflettevano nel loro opportunismo o addirittura sciovinismo l'estrema vulnerabilità di larghi strati della classe operaia dei paesi capitalisticamente più evoluti all’influenza di ideologie non-proletarie ed anti-proletarie, e come se non si trattasse appunto di risvegliarne la coscienza di classe assopita od offuscata spingendoli a solidarizzare con le plebi oppresse dal loro Stato! La sua proposta (si noti che, come rilevava Zinoviev, il direttore dell’«Avanti!», pur avendo più volte manifestato il suo dissenso, si era rifiutato di partecipare ai lavori della commissione e di esporvi il suo punto di vista: anzi, inviperito per l'intransigenza dell’Esecutivo nel chiedere la radicale amputazione della destra del partito italiano, era rimasto assente da ogni commissione), la sua proposta che ci si limitasse ad esprimere ai «popoli gementi sotto il giogo degli stati imperialistici, nella loro lotta contro gli sfruttatori, la nostra piena ed operante simpatia», dichiarando poi che «il proletariato, nella sua lotta contro l'oppressione del capitale, ha il diritto [!] di av­valersi di insurrezioni nazionali per trasformarle finalmente in ri­voluzione sociale», suscitò un'altra e più sonora tempesta di indi­gnazione: «chi crede che sia reazionario aiutare i popoli arretrati nella loro lotta nazionale» dimenticando che tali popolazioni, «il cui sviluppo economico-politico non ha potuto spingersi molto innanzi, devono percorrere fasi rivoluzionarie storicamente diverse da quelle dei popoli europei», chi questo crede «è egli stesso reazionario e parla un linguag­gio imperialistico», gli gridò Roy; e il rappresentante di un paese per eccellenza imperialistico e sfruttatore di colonie come l'Olanda non esitò a bollare come «inaudito» il suo discorso. Sia detto a onore della coe­renza di Serrati, egli si astenne dal voto sulle Tesi: è invece difficile stabilire quanti le approvarono per poi mettersele sotto i piedi o per deformarle in senso volgarmente democratico e pacifista.

Nel ragionamento serratiano non parlava, beninteso, un «fatto per­sonale»: in Italia come in Germania, il centrismo rotto ad ogni compro­messo in patria assumeva pose «ortodosse» ed... estremiste a carico dei «lontani» moti d'indipendenza nelle colonie e nei paesi avvolti nelle nebbie della «barbarie»; transigente al 1000/1000 con la propria destra parlamentare e sindacale, esso sventolava la bandiera dell’intransigenza nei confronti di forze certo non proletarie ma, come la piccola borghesia radicale urbana e rurale nell’Europa del '48-'50, pur sempre eversive almeno in funzione antifeudale. Serrati si appellava alle vigorose campagne anti-irredentiste del socialismo italiano ne! primo quindicennio del secolo: ma, nel '48, chi se non Marx ed Engels avevano indicato, per esempio, nel distacco di Trieste dall’Impero asburgico una rivendicazione specifica del movimento radicale e, con esso, del movimento operaio, e avevano coperto di ignominia i falsi democratici-rivoluzionari che se n'erano lavate le mani? E chi se non Marx ed Engels si erano battuti contro «l'indiffe­renza» verso i moti di liberazione delle colonizzate Polonia e Irlanda, assunta col pretesto che si trattava di moti dichiaratamente borghesi e democratici, anche se violenti e perfino terroristici? La verità è che nella visione massimalista-indipendente tutto l'edificio marxista era capovolto: niente «compromessi» là dove il proletariato si scontra in dati della realtà oggettiva non meccanicamente superabili mediante una rivoluzione pura; mille «compromessi» là dove la storia ha divorato ogni fase rivoluzionaria-borghese! In poche parole: Niente rivoluzione di nessun genere.

Il delegato della Sinistra non intervenne nel dibattito, e gli illustri storici fanno gran caso della sua successiva dichiarazione al «Soviet» di condividere alcune delle riserve di Serrati. Ma basta leggere quel brano, dove si precisa che l'attitudine assegnata «al movimento comu­nista rivoluzionario, espressione delle masse dei proletari salariati, di fronte agli interessi dei popoli delle colonie e dei paesi arretrati - come di fronte agli interessi dei vari strati della popolazione rurale -, rappre­senta innegabilmente una rettifica di tiro nel metodo dell’intransigenza classista come è stata finora accettata dalla sinistra marxista», e ai succes­sivi contributi teorici della Sinistra astensionista su questo tema (per esempio, e soprattutto, Il comunismo e la questione nazionale (7) e il par. 10 della II Parte delle Tesi di Lione (8)), per convincersi che, se pre­tendono di scoprire una divergenza di princìpio nella questione nazionale (e agraria) fra noi e i bolscevichi, i dotti signori una volta di più barano spudoratamente. Le nostre riserve riguardavano i difficili problemi di una tattica che, qui più che altrove, corre sul filo di un rasoio e rischia ad ogni passo di smarrire la bussola dell’interpretazione marxista dei fatti storici e del comportamento dei rivoluzionari comunisti di fronte ad essi. L'inde­terminatezza delle formule tattiche è fonte (l'abbiamo sempre sostenuto) di possibili, gravi sbandamenti, non solo nell’azione ma anche nei princìpi. Noi condividevamo e condividiamo senza riserve l'impostazione generale del problema; sappiamo e abbiamo sempre proclamato che il marxismo vede e distingue con mirabile chiarezza le fasi successive (e diverse) del processo storico capitalistico, quindi anche del suo superamento, e che, in particolare, esso riconosce e non nasconde mai che in date fasi (appunto quelle delle rivoluzioni doppie) il proletariato deve assumersi internazio­nalmente compiti non suoi ma, rispetto al modo di produzione difeso dai «nemici dei suoi nemici», pur sempre rivoluzionari, o, nell’ipotesi meno ottimistica, aiutare a condurli a buon fine; sappiamo e abbiamo sempre sostenuto che non solo non è marxista ma è antimarxista ridurre tutti i contrasti interni del regime attuale, sempre e dovunque, al solo antagonismo proletariato/borghesia. La difficoltà sorge per noi nell’arduo campo delle applicazioni tattiche, e basta leggere attentamente le Tesi 1920 per riconoscere che in esse il problema non ha ancora raggiunto una siste­mazione compiuta, tale da segnare una traccia il più possibile sicura in un campo le cui asperità non devono essere mai dimenticate così come non devono mai essere eluse: quale il limite fra il «camminare insie­me» e «l'allearsi» sia pure «temporaneamente»? quale il limite fra entrambi e il geloso mantenimento dell’autonomia del partito comunista, presupposto essenziale dell’appoggio ai movimenti nazional-rivoluzionari? fino a che punto un movimento di indipendenza nazionale conserva il suo carattere «nazional-rivoluzionario» e invece lo perde a favore di un semplice «democratismo borghese»? quali legami devono intercorrere fra movimento nazional-rivoluzionario nelle colonie e movimento prole­tario comunista nelle metropoli, e si potrà mai attenuare il ruolo primario di quest'ultimo senza che il ruolo rivoluzionario del primo ne soffra? Porre questi interrogativi non è un lusso teorico: cinque e sei anni dopo il II Congresso, lo stalinismo mostrerà in Cina come sia esile (e facile da spezzare) il diaframma fra le convergenze e perfino le alleanze esperite nella più rigorosa autonomia, e la capitolazione di fronte a partiti dichia­ratamente borghesi come il Kuomintang di Sun Yat-sen e, peggio, di Ciang Kai-scek, ossia la subordinazione degli obiettivi rivoluzionari del potente moto contadino e operaio cinese a interessi volgarmente nazionali e democratici, capitolazione e subordinazione che troveranno il loro lut­tuoso epilogo in uno dei più atroci bagni di sangue proletario e contadino a favore della conservazione dello status quo non solo capitalistico-cinese, ma imperialistico-mondiale. Analogamente, le Tesi non chiariscono i problemi estremamente ardui posti alla tattica comunista dalle diverse condizioni materiali e dal diverso rapporto tra le forze di classe in aree gia invase dal capitalismo o invece solo alla vigilia di esserlo e, ancor più, in aree già pienamente borghesi: per fare un solo, tipico esempio, nella stessa Europa grande-capitalistica restavano e in parte restano tragi­camente insoluti problemi di oppressione nazionale, classico fra tutti quello dell’Irlanda - per il marxismo, e da un secolo, palla di piombo ai piedi del movimento operaio inglese -; il pericolo era ed è (come noi avvertimmo nell’articolo citato più sopra) di estrapolare questi casi-limite applicandoli, come nel 1923, alla Germania ultracapitalistica, e trarne pretesto per «appoggiare» come potenzialmente rivoluzionaria la agitazione nazionalista e perfino nazista contro l'occupazione francese della Ruhr e contro le clausole jugulatorie della pace di Versailles.

Per gli opportunisti, il problema di questi trabocchetti non si pone - ci sono caduti dentro, e ci sguazzano -; non così per i marxisti, e noi, pienamente concordi nel riconoscere rivoluzionarie le insurrezioni nazionali-conseguenti, cioè «borghesi fino in fondo», avevamo non solo il                diritto ma il dovere di mettere in guardia contro le prevedibili sbandate di partiti dalle basi teoriche oscillanti e dalla dubbia composizione orga­nizzativa nell’applicare alla «lettera» (e quindi male) tesi fondamentalmente ineccepibili (9). Non dice nulla agli «storici» il fatto che sia stata la nostra corrente, nel 1924-26, a rivendicare per prima l'organica integrità dell’impostazione strategico-tattica del problema nelle tesi di Lenin contro ogni tendenza (Cina!) ad alterarne i cardini - cioè il ruolo preminente del partito mondiale comunista nella direzione dei moti nazionali e coloniali e la rigorosa salvaguardia della sua autonomia sul piano locale non meno che internazionale? che sia stata essa a gettare per prima l'allarme sulla falsa trasposizione della grandiosa prospettiva 1920 al caso di paesi ultracapitalisti, in cui «la questione nazionale e l'ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato» (Germania 1923)?

(1) Nel suo discorso Lenin, richiamandosi allo spirito «jingoistico» da cui era dominata l'aristocrazia operaia inglese e che spingeva il comune lavoratore a rav­visare un tradimento nell’aiuto ai popoli asserviti nelle loro insurrezioni contro la dominazione britannica», aggiunse che la tradizione di indifferenza della II Internazionale, maschera di una effettiva ostilità verso i moti coloniali, sopravviveva («e noi dobbiamo affermarlo ad alta voce»} perfino nella «maggioranza dei partiti che inten­dono aderire alla III Internazionale»!

(2) Dalle nostre Tesi di Lione, 1926: cfr. il giù citato volume In difesa delta conti­nuità del programma comunista, pag. 111.

(3) In altri termini, come spiegano le stesse Tesi, quando esiste un partito comunista locale indipendente in grado di operare in quanto tale!

(4) Se ne vedano degli stralci in Le marxisme et l'Asie, 1853-1964, a cura di H. Car­rère, Parigi 1965. La posizione originaria di Roy sarà spinta all’estremo dell’assurdo da Sultan Galiev con la sua teoria che il solo vero proletariato si trova nei paesi sottosviluppati ed è quindi necessaria una «dittatura delle colonie e semicolonie» sulle metropoli industriali...

(5) Diciamo in parte, perché il problema non è solo quello della sopravvivenza di rivoluzioni vittoriose in aree arretrate, ma è soprattutto quello delle condizioni del loro «passaggio al comunismo».

(6) Come si vede anche dal senso di fastidio con cui Serrati, presiedendo la seduta, invita un delegato che parla delle lotte dei proletari di colore in America a tagliar corto...

(7) In «Prometeo», anno I, nr. 4 del 15.IV.1924.

(8) Vedi In difesa della continuità del programma marxista, pag. 111.

(9) «La tesi dell’Internazionale comunista per la guida, da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare [...] come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista [...] Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire, sempre e dovunque, in senso opposto alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione "meta­fisica" del criterio borghese. Il metodo marxista si contrappone a questo dialettica­mente, ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L'appoggio ai movimenti coloniali, per esempio, ha tanto poco sapore di collabora­zione di classe [come pretendeva... Serrati] che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con una opera indipendente di formazione ideologica e organiz­zativa, si chiede l'appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti della metropoli» (Comunismo e questione nazionale, cit.). Troppo presto si perderà questa solida bussola!

 

g) La questione agraria.

 

 Analoghe considerazioni valgono per le tesi redatte da Lenin e va­riamente emendate dalla commissione Marchlevsky sulla questione agraria.

Il problema che qui si affronta va ben oltre i termini un po' me­schini ai quali lo ridusse Graziadei nel suo breve discorso (applicare il metodo marxista del «minimo sforzo» valutando bene gli avversari e facendo loro concessioni atte a facilitare la presa del potere e, a rivo­luzione avvenuta, il suo mantenimento!), ma investe sia le condizioni obiettive in cui, in regime capitalista, si svolge la produzione agricola, e che determinano a loro volta la struttura complessa della popolazione con­tadina, sia le condizioni obiettive in cui, appunto perciò, la dittatura proletaria vittoriosa procederà nelle campagne all’impianto di una gestione sociale collettiva non tanto nella «proprietà» del suolo (che è il problema minore) quanto nel suo modo di sfruttamento. Come è antimarxista igno­rare il fatto che, sotto il capitalismo, il passaggio alla grande azienda a lavoro associato è nell’agricoltura infinitamente più lento, meno esteso e radicale, che nell’industria, per cui la piccola e media gestione familiare ed artigiana nelle sue molteplici forme sussiste ed è destinata a sussistere a lungo malgrado il suo carattere intrinsecamente antieconomico, ed è assurdo pensare che la rivoluzione proletaria debba, per realizzarsi, atten­dere la sua scomparsa; come, per lo stesso motivo anche se da un angolo dialetticamente capovolto, è antimarxista ipotizzare il passaggio immediato alla gestione sociale collettiva della piccola e media azienda contadina e dello stesso latifondo, passaggio che sarà invece immediato nel caso della grande azienda agricola capitalistica, ed è per contro perfettamente marxi­sta proclamare che, immediatamente espropriate le grandi aziende agricole capitalistiche, si darà in esercizio la terra a chi la lavora in un vasto settore anche tecnicamente impervio ad una immediata gestione sociale collettiva; così è fuori del marxismo ridurre lassallianamente a un blocco unico, e uniformemente controrivoluzionario, tutto il policromo ventaglio di strati sociali divisi da interessi contrastanti (anche se collimanti nel comune attaccamento a un passato pre-capitalistico quanto a modo di conduzione e quindi anche a modo di ragionare - o sragionare) che corre sotto il nome di «classe contadina».

Fulcro del comunismo rivoluzionario nelle campagne è e rimane il vasto ceto dei salariati agricoli, dei gloriosi braccianti, sia perché i loro interessi e le loro battaglie stanno sullo stessissimo piano di quelle dei salariati di industria, sia perché su di essi poggerà appunto perciò in re­gime dittatoriale proletario la gestione collettiva dell’agricoltura negli spazi - più o meno estesi a seconda del grado di sviluppo economico, ma in Occidente immensi - in cui lo stesso capitalismo ci fa involontaria­mente dono dei presupposti materiali di un così grandioso trapasso; ma ciò non significa che il marxismo non abbia nulla da dire ai coltivatori parcellari, ai piccoli e piccolissimi affittuari e coloni, perfino ai piccoli contadini, non per basse ragioni di... cucina elettorale ma per motivi anch'essi materiali nel duplice senso che la scopa della dittatura non può oggettivamente spazzarli via d'un colpo con la loro piccola schiappa sudata e taglieggiata eppur sempre viva e vitale, e che il proletariato urbano e rurale può trarne appoggio nella sua battaglia di classe contro un nemico che troppo spesso sfugge al loro occhio velato da pregiudizi ancestrali, ma di cui sentono duramente il peso nelle manifestazioni esterne del suo spietato dominio (rendita fondiaria, usura, imposte e via discorrendo). Né d'altra parte il proletariato può chiudere gli occhi sull’importanza e sulla possibilità se non di guadagnarli tutti e stabilmente alla sua causa, di neutralizzarne le resistenze, prevenzioni e ubbie incancrenite anche in frange sfumanti nella vasta e mal definita area di quello che le Tesi 1920 chia­mano il contadiname medio, o ignorare per converso il feroce potenziale controrivoluzionario annidantesi negli strati abbienti di contadini che pur lavorano in parte con le loro braccia, e che si tratterà prima o poi di combattere a mano armata.

Proprio il volumetto edito nel 1921 dal PC d'Italia allora diretto dalla Sinistra (1) è una brillantissima confutazione dei tradizionali pregiu­dizi del socialismo tipo II Internazionale denunciati a Mosca, e un clas­sico esempio di corretta impostazione marxista del problema, che anzi riconduce ai suoi veri termini con tanta maggior chiarezza in quanto fa perno sull’elemento cruciale dell’azienda più che su quello della proprietà, distinzione che le tesi dell’IC non mettono in luce, col risultato di far sembrare esclusa quella nazionalizzazione immediata del suolo, che pure appartiene in teoria, come mille volte ricordato da Lenin sulle orme di Marx, alle rivendicazioni radicali borghesi, non ancora socialiste, e che può attuarsi senza pregiudizio del modo di gestione non-associato della piccola e piccolissima azienda, persistente per qualche tempo e in date aree - sotto il controllo centrale e la razionale direzione, beninteso, della dittatura proletaria.

Le nostre «riserve» si collocavano dunque su un piano totalmente diverso sia da quello di Graziadei, secondo il quale da un lato le Tesi smen­tivano (e ciò, a suo parere, recava acqua al mulino del revisionismo teorico a lui tanto caro) «la tendenza alla eliminazione totale dell’azienda conta­dina di tipo familiare in regime capitalista» sedicentemente postulata come legge meccanica da Marx, dall’altro, in nome dell’abile opportuni­smo tattico di cui si sarebbero fatte portavoce, avrebbero dovuto spingersi più innanzi nelle concessioni non solo ai contadini medi ma addirittura ai grandi proprietari terrieri, promettendo loro... una rendita vitalizia in cambio della messa a disposizione della dittatura proletaria vittoriosa dei loro esperti e delle loro capacità tecniche superiori (!!!); sia da quello di Serrati, che aveva ragione, in linea di princìpio, di chiedere che non si usasse un’eccessiva condiscendenza verso i piccoli contadini presi in blocco (2), di­menticando o sottovalutando il peso che hanno nelle campagne i partiti e le associazioni a sfondo clericale reclutanti il proprio seguito appunto nelle loro file, e anticipando con eccessivo ottimismo lo schierarsi del contadiname minuto a fianco dei salariati agricoli in sciopero, ma dava prova della solita mentalità antidialettica (e quindi mostrava di aver torto in pratica) nel respingere qualunque apporto dei contadini poveri e pove­rissimi alla rivoluzione proletaria e negandone l'accessibilità, prima di questa, ad una propaganda che, senza nulla mutare o nascondere dei suoi obiettivi, mettesse in risalto gli enormi vantaggi che al tormentatissimo ceto dei piccoli coltivatori non potrà non offrire la soppressione - pos­sibile solo grazie alla presa del potere da parte del proletariato - dei mille gravami connessi alla persistenza dei diritti di proprietà borghesi e di tutte le altre forme di parassitismo sociale.

Il problema era un altro, e lo stesso volumetto del 1921 lo chiarisce. Le Tesi 1920, in quanto (malgrado le varianti introdotte in sede di commissione soprattutto per insistenza dei delegati tedeschi - i quali d'altra parte non avevano da proporre nulla di molto più radicale, giacché lo stesso programma agrario 1919 dello Spartakusbund restava al disotto delle esigenze del movimento operaio nel mondo occidentale a capitalismo avanzato) riflettevano prevalentemente lo schema della situazione agricola e dei rapporti di classe nelle campagne in Russia, davano di questi ultimi una rappresentazione non diciamo statica ma insufficientemente dinamica; vedevano cioè in una prospettiva non breve - come era naturale in am­biente di «rivoluzione doppia» - la rottura, anticipata con estrema lucidità e fermezza da Lenin, della provvisoria «saldatura» e perfino alleanza fra proletariato urbano e rurale da una parte e coltivatori «in proprio» (l'«idra piccolo-borghese» della NEP!) dall’altra; rottura i cui tempi e la cui profondità dipendono non da banali calcoli di convenienza, ma dallo stato reale dei rapporti di forza, e avverrà a distanza più o meno ravvicinata a seconda del grado di sviluppo economico generale delle diverse aree del pianeta, e in ogni caso, nell’Occidente pienamente capi­talistico (e in alcuni dei suoi paesi soprattutto), assai più vicina che altro­ve, e in forma molto più violenta.

Questa constatazione non toglie nulla alla perfetta «ortodossia» dei princìpi informatori delle tesi, e non giustifica minimamente il falso «sinistrismo» di cui si ammantano gli opportunisti o, viceversa, la loro corsa all’arruffianamento del piccolo e medio contadiname nello stile d'oggi, ma esige nel partito proletario, ferma restando la necessità di una specifica propaganda in seno a quei ceti vuoi per attirarne la parte più misera o meno impregnata di pregiudizi piccolo-borghesi, vuoi per neutralizzarne temporaneamente l'altra, la chiara consapevolezza di do­versi muovere su un terreno minato, pieno di contraddizioni e tanto fertile in date fasi del percorso rivoluzionario, quanto irto di difficoltà e resistenze in altre, e quindi la prontezza a passare da una tattica di paziente convinzione, «educazione» e direzione ad una di attacco, repressione e perfino estirpazione violenta (3).

Come si legge nell’opuscolo citato, le Tesi 1920, «dettate dalla esperienza russa, appaiono come tesi internazionali troppo moderate, nel senso che nei paesi industriali la lotta contro il ricco e il medio contadino potrà cominciare più presto»; ma, se qualcuno può giudicarle «troppo prudenziali [...], ciò non autorizza che i peggiori ignoranti dell’opportu­nismo a immaginarle compilate dando di frego alla dottrina marxista per far parlare la reale convenienza politica».

La rotta verrà il giorno in cui l'Internazionale comunista decaden­te baratterà quello che noi chiamammo «l'aiuto prezioso della rivolta del contadino povero» alla rivoluzione proletaria per un rapporto di parità o quasi-parità fra le due classi, dimenticando che del rivoluzio­namento dei rapporti economici, sociali e prima ancora giuridici nelle campagne il proletariato resta il vero protagonista, per il fatto «di non essere soltanto, come il contadino, una vittima del sistema dei rapporti di produzione borghesi, ma il prodotto storico della loro maturità a cedere il passo ad un sistema di rapporti nuovi e diversi» (Tesi di Lione, parte II, par. 10), e che le conclusioni tattiche di Lenin nella complessa materia poggiavano appunto perciò su due presupposti cru­ciali e inseparabili: da un lato, l'intangibilità della «preminenza ed egemonia della classe operaia nella condotta della rivoluzione», dall’altro la «differenza fondamentale tra i rapporti fra proletariato e classe contadina e i rapporti fra proletariato e ceti medi reazionari dell’economia cittadina espressi soprattutto dai partiti socialdemocratici». E chi erano questi ultimi ceti, se non gli «elementi grigi» a recupe­rare i quali, nell’atto di scandalizzarsi del cosiddetto «possibilismo bol­scevico» verso il contadiname povero, tanto si indaffaravano i Serrati e C., difendendone o addirittura salvandone l'espressione politica, cioè il riformismo parlamentare e confederale dei Turati e D'Aragona? (4)

Ancora una volta, toccherà alla Sinistra difendere l'essenziale del II Congresso contro i cinici profittatori postumi dei punti formalmente de­boli del suo apparato accessorio. E questo, ancora una volta, non dice nulla agli «storici»?

(1) A. Bordiga, La questione agraria, Libreria Editrice del PCd'I, Roma 1921, riprodotto in Reprint/Feltrinelli.

(2) Nella sua foga di... ortodosso, Serrati mise l’intero ceto dei piccoli con­tadini nel novero dei profittatori di guerra arricchitisi sul sangue versato al fronte dai proletari (il che, se poteva esser vero per alcuni, ignorava l'enorme sacri­ficio di vite imposto alla grande maggioranza della popolazione agricola dalla carne­ficina 1914-18, e l'estesa proletarizzazione ad essa seguita) suscitando le proteste del giovane e ardente Lefebvre. É strano però (ma conforme agli umori diffusi del congresso) che quest'ultimo non abbia accennato neppure di scorcio al gretto e tenace conservatorismo dei contadini piccoli-proprietari soprattutto del suo paese - non mo­tivo, beninteso, per eliderli dalla visuale di lotta dei comunisti, ma ragione sufficiente per non prendere sottogamba la durezza e le «ambivalenze» del lavoro rivoluzionario nelle campagne. La debita strigliata a Graziadei venne impartita da Sokolnikov, sebbene, anche qui, dall’angolo di una prognosi troppo... idilliaca dei rapporti fra prole­tariato vittorioso e popolazione agricola.

(3) L'esposizione classica degli aspetti solo apparentemente contraddittori della tattica comunista nei confronti della policroma «classe contadina» è, notoriamente, La questione contadina in Germania e in Francia di Engels, ma si veda pure la poderosa sintesi della questione negli Estratti e commenti critici a «Stato e Anarchia» di Bakunin, di Marx, ora tradotti in italiano nel volume K. Marx e F. Engels, Critica dell’anarchismo, Torino 1972, pagg. 334-356, dove il problema è lucidamente collegato a quello della «successione delle forme economiche» condizionanti ogni «rivoluzione sociale radicale» e non sostituibili con la «volontà».

(4) Quanto alla «comprensione» dei problemi specifici della dittatura proletaria in Russia da parte dei massimalisti, si noti che, nella seduta del 23 luglio, in perfetta sintonia con gli indipendenti tedeschi, Serrati aveva... sinistreggiato criticando le concessioni ai contadini medi in Russia, quasi che in un paese a rivoluzione doppia, per giunta arretratissimo nelle campagne, la dittatura proletaria, come gli rispose Trotsky, potesse - in mancanza di quella rivoluzione nei paesi capitalistici evoluti che massimalisti e indipendenti si guardavano bene dal preparare - non far concessioni alla «barbarie delle condizioni materiali» ereditate dal passato!

 

h) Compiti dell’Internazionale comunista e Statuti

 

Purtroppo, anche il dibattito sulle Tesi relative ai compiti dell’IC eluse le questioni di princìpio poste da Lenin nei due paragrafi iniziali dando per acquisito ciò che in realtà per la maggioranza dei delegati resta­va quanto meno confuso. L'attenzione si concentrò invece sul paragrafo III, in cui erano indicate le linee direttive di una «correzione della linea e in parte della composizione  dei partiti che aderiscono o vogliono aderire all’IC» (1).

Era in realtà il punto più controverso delle Tesi e, nello stesso tempo, quello in cui era inevitabile che le incertezze dei partiti attratti verso la III Internazionale non soltanto riaffiorassero, ma influissero sulle decisioni finali del congresso. L'impostazione generale era quella ormai nota: aperto riconoscimento che alcuni dei partiti staccatisi dalla II Internazionale e disposti ad aderire, condizionatamente o incondizionatamente, alla III erano ancora ben lontani dall’accettare e tradurre in pratica i princìpi fondamentali di quest'ultima; rifiuto quindi di am­metterli immediatamente nelle sue file, e rinvio di ogni decisione sulla possibilità di accoglierne le ali dissenzienti a dopo che i deliberati del II Congresso e del Comitato esecutivo dell’IC fossero stati resi pubblici e ampiamente discussi, gli elementi i quali «continuavano ad agire nello spirito della II Internazionale» fossero stati espulsi e tutti gli organi periodici del partito risultassero affidati a redazioni esclusiva­mente comuniste; mandato imperativo all’EKKI di ammettere i detti partiti, o loro frazioni, solo dopo essersi assicurato che i 21 punti fossero effettivamente adempiuti; opportunità per i comunisti in minoranza negli organismi dirigenti di tali partiti, o di partiti analoghi, di rimanervi se e fin quando fosse loro consentito di propagandarvi i princìpi della dittatura proletaria e del potere sovietico e di criticarne gli elementi opportunisti e centristi; appello a gruppi e partiti come il KAPD da un lato, gli IWW e gli Shop stewards committees dall’altro, perché aderissero alla III Internazionale in considerazione del fatto che «le loro idee sbagliate sono dovute meno all’influenza di elementi provenienti dalla borghesia [...] che all’inesperienza politica di proletari pienamente rivoluzionari e legati alle masse»; necessità infine di svolgere un'intensa propaganda fra i proletari anarchici avviati a una graduale comprensione della necessità della dittatura e del terrore.

Nel quadro di tale impostazione, fu oggetto di dibattito particolar­mente acceso il problema delle modalità di costituzione del Partito comunista in Inghilterra. Come per la situazione interna del PSI (argo­mento cui accenneremo poi), non solo la decisione presa, per le ragioni che abbiamo cercato lungamente di chiarire, non ottenne, né poteva ottenere, il nostro consenso, ma la nostra Frazione la giudicò particolar­mente infelice. Ne accenniamo sia per ribadire i motivi del nostro disac­cordo, sia per ristabilire i giusti termini - troppo facilmente ignorati dagli storici dell’opportunismo - nei quali la questione venne posta da Lenin.

La situazione di fatto in Inghilterra, come la presentano sia l'Estremismo sia il discorso di Lenin del 6 agosto, era schematicamente la seguente: da un lato, gruppi come gli Shop stewards committees e la Workers Socialist Federation, che per lunga tradizione si muovevano nell’ambito di concezioni fondamentalmente inarco-sindacaliste e comunque antipartito, non potendosi quindi  per l'Internazionale come per noi considerare marxisti, ma nella cui fiera lotta contro l'opportunismo laburista e nella cui avversione alla prassi parlamentare si esprimeva quel «nobile odio proletario» in cui «è il fondamento di ogni movimento socialista e comunista» (2); dall’altro, un piccolo nucleo di partito come il British Socialist Party che professava, almeno a parole, i princìpi-cardine marxisti del partito di classe, della dittatura e del terrore, ma che aveva assunto in varie occasioni atteggiamenti a dir poco equivoci e, nello stesso congresso, si era attirato i fulmini di Lenin per un certo penchant democratico.

In tali circostanze, il primo problema che i bolscevichi si posero, in coerenza con tutta l'impostazione seguita prima e durante il congresso, fu di inquadrare forze così gracili e malsicure in un unico partito politico nel quale la presenza di proletari estremamente battaglieri e animati da quel forte istinto di classe di cui è un aspetto inseparabile il disgusto del parlamentarismo, controbilanciasse l'eccessiva condiscendenza verso il Labour Party e i suoi rappresentanti parlamentari e sindacali da parte dell’unico gruppo che mostrasse di condividere i princìpi generali della III Internazionale e, soprattutto, di riconoscere il ruolo centrale del partito nella rivoluzione proletaria. Come in tutto il congresso, la tendenza dei bolscevichi fu anzi di far leva molto più sui primi che sui secondi, nella convinzione che, col favore di una situazione sociale internazionale montante e grazie a una energica direzione centrale a Mosca, le vecchie remore persistenti nell’una e nell’altra ala dell’avanguardia proletaria inglese sarebbero state vinte e superate. L'appello agli shop stewards e alla Pankhurst affinché si unissero al British Socialist Party (BSP), di cui si negava che meritasse la qualifica di «irrimediabilmente rifor­mista» datagli da Gallacher nel suo breve intervento, ma dal quale si esigeva un radicale cambiamento di tattica nel senso «di un'agitazione più efficace e di un'azione più rivoluzionaria», toccò anzi proprio nel discorso di Lenin accenti che non è irriverente chiamare «patetici»; e come stupirsene, ricordando la testimonianza (indubbiamente sicura perché collimante con l'episodio già ricordato della polemica Trotsky-Levi) secondo cui, a MacLame il quale si vantava di concordare senza riserve sui compiti del partito e sull’azione da svolgere in parlamento e all’interno dei sindacati riformisti, Lenin aveva risposto in sede di commissione: «No, non è così facile, e se credete così è perché siete ancora impregnato del verbalismo socialista che era in voga nella II Internazionale e che s’arrestava sempre di fronte all’azione rivoluzionaria» (3)? Ancora una volta, occorreva attingere al potenziale rivoluzionario di gruppi «che non sono ancora un partito», per rinnovare le strutture di un gruppo costi­tuitosi in partito ma «troppo debole e ignaro di come si deve condurre l'agitazione fra le masse»: non v'erano, nell’immediato, alternative. Ed è un fatto che il Partito comunista britannico nacque, non discutiamo ora se bene o male, intorno a uomini come Gallacher o Tanner piuttosto che MacLame o Quelch.

Molto più difficile, e risolto in modo assai discutibile, era il problema di aiutare i gruppi (giacché più di gruppi che di partiti si poteva parlare, anche nel caso del BSP) a superare lo stadio di minuscole sette, prive o quasi prive di stabili legami con le grandi masse, con l'enorme esercito di lavoratori inquadrato nelle Trade Unions e per loro tramite, almeno in larghissima parte, nel partito laburista, e impotenti sia a far sentire loro la propria voce, sia a muoversi su un piano politico anziché puramente agitatorio da un lato e accademicamente «intellettuale» dall’altro. É noto che a questo fine Lenin propugnò l'adesione al Labour Party del Partito comunista che si sperava nascesse dalla fusione dei 5 o 7 gruppi già ricordati, e ciò con l'argomento che il partito laburista non era «un partito nel senso corrente del termine», ma un raggruppamento non rigido di organizzazioni sindacali abbracciante qualcosa come 4 milioni di iscritti, e tale da consentire, appunto in forza della sua struttura elastica, una certa libertà di propaganda, agitazione e perfino critica rivoluzionaria.

Ovviamente, una tale proposta non poteva essere approvata da noi per ragioni sia di metodo che di fatto: ragioni di metodo, perché - come osservava «Il Soviet» nel nr. 28 dell’11 novembre 1920, facendo proprie le critiche dello svizzero «Le Phare» - la richiesta di aderire a un organismo completamente screditato agli occhi dei proletari di avanguardia per la sua costante politica di conciliazione in tempo di pace e di unione sacra in tempo di guerra, quand'anche fosse stata accolta avrebbe avuto effetti disorientanti proprio là dove la massima chiarezza era imposta dalla tenacia di tradizioni antipartitiche ed apolitiche (oltre che per il motivo di fondo che il noyautage, perfettamente normale e persino imperativo in organismi sindacali e di massa, è invece distruttivo della ragion d'essere del partito di classe se praticato in seno a partiti politici); ragioni di fatto, perché l'interpretazione del Labour Party come puro aggregato di Trade Unions era smentita dalla reale natura di un'orga­nizzazione che riuniva bensì vaste federazioni di mestiere, ma per inqua­drarle sotto la direzione politica di «un sinedrio di piccoli borghesi controrivoluzionari» (come dirà «Il Soviet» del 3 ottobre 1920) deciso ad aggiogarle alla classe dominante ed al suo Stato, mai, in ogni caso, a tollerare l'attività di critica e propaganda rivoluzionaria indicata da Lenin come pregiudiziale.

La storia dei mesi successivi scioglierà il nodo mostrando che il Labour Party non intendeva per nulla al mondo aprire le porte a elementi sovversivi; ma ciò non toglie che la decisione del II Congresso - ispirata ad una tattica audace di cui, in Russia, la situazione sociale e politica da una parte e la solidità delle basi teoriche del partito bolscevico dall’altra avevano permesso di evitare i terribili rischi - ebbe sul processo di formazione di un nucleo comunista in Inghilterra, già malsicuro alle origini e condannato a muoversi in un ambiente di aristocrazia operaia saturo di molteplici suggestioni democratiche, effetti decisamente negativi e lasciò cicatrici non facili da rimarginare. Indubbiamente, qui più che altrove Lenin e l'Internazionale si trovavano di fronte al dilemma o di abbandonare a se stesso un movimento operaio battagliero anche se confuso, o indicargli le possibili vie al superamento di pesanti inerzie storiche e tradizioni fortemente radicate: era, in forma più acuta, lo stesso dilemma di fronte al quale si trovavano in altri paesi, ma che appariva tanto più grave in quello che costituiva il cuore stesso della dominazione mondiale dell’imperialismo: la Gran Bretagna. Non tacem­mo allora, e abbiamo mille ragioni in più per non tacere oggi, che la direttiva tracciata apparteneva al novero delle risorse tattiche più sottili e nello stesso tempo più pericolose suggerite da Lenin, e il cui tallone d'Achille risiedeva nell’impossibilità di applicarle senza correre il rischio di perdere il filo dei princìpi passando con rapidità fulminea - la stessa rapidità con cui la scena politica russa, nella prospettiva storica di una doppia rivoluzione, mutava volto quasi di giorno in giorno da audaci accostamenti a raggruppamenti ai quali ben si attagliava il nome, almeno per breve ora, di «compagni di strada» a violente rot­ture, come avevano fatto magistralmente - ma in tutt'altre condizioni i bolscevichi; l'impossibilità soprattutto di applicarle evitandone le con­seguenze fatali in un ambiente di capitalismo avanzato e di democrazia più che centenaria e senza la solida base di una forte preparazione e tradizione marxista.

Non gongolino però gli opportunisti, quasi che l'«agilità tattica» allora suggerita fosse l'antenata e la pronuba della loro «assenza di princìpi». Il discorso col quale Lenin giustificò la sua tesi è un esempio di come, anche nelle rotte più ardite, egli non perda mai la bussola della dottrina, non cancelli mai la linea di divisione fra sé e il nemico, non baratti mai come ideale quella che è soltanto una dura realtà da guardare in faccia per poterla superare avendone tratto vantaggio, mai avendo capitolato di fronte ad essa. Quando MacLame credette di appoggiare la sua tesi con l'argomento che il Labour Party era l'«espressione politica degli operai sindacalmente organizzati», Lenin insorse con una frase che mai dovrebbe essere dimenticata dai marxisti:

 

«É un'opinione sbagliata contro la quale reagiscono, fino ad un certo punto, in modo pienamente legittimo, gli operai rivoluzionari inglesi [...]. Beninteso, il Partito laburista è composto per la maggior parte di operai. Ma che un partito sia o non sia realmente un partito operaio non dipende soltanto dall’essere composto di operai, ma anche dalle caratteristiche dei suoi dirigenti, dal contenuto della sua attività e dalla sua tattica politica. Soltanto quest'ultimo elemento permette di stabilire se ci troviamo di fronte a un partito politico del proletariato. Sotto questo profilo, che è l'unico giusto, il Partito laburista è un partito interamente borghese, perché, sebbene composto di operai, è diretto da reazionari - anzi dai peggiori reazionari - nel senso e nello spirito della borghesia».

 

Se dunque Lenin proponeva al partito comunista inglese, quando si fosse costituito, di aderirvi, era in base agli stessi criteri in forza dei quali i comunisti hanno il dovere di lavorare nei sindacati anche «i più reazionari» al fine di collegarsi alle grandi masse proletarie ed elevarle con una vigorosa propaganda e agitazione all’altezza della lotta politica; dunque, perché considerava il Labour Party alla stregua di un aggregato di organizzazioni economiche a larghissima base. Era un errore; ma, in quel breve squarcio di discorso, sono contenute tesi di princìpio che vanno ben oltre la contingenza, e che toccherà alla Sinistra di difendere entro e contro l'Internazionale decadente allorché, sfidando gli strepiti della destra e riallacciandosi al solido filo rosso del 1920, ribadirà che: 1) il partito di classe non è definito dalla sua composizione statisticamente e sociologicamente «operaia», come sciaguratamente si pretese ai tempi della cosiddetta bolscevizzazione cadendo in quella che noi chiamammo - anticipatamente suffragati dal verdetto marxista di Lenin - una con­cezione «laburista» del partito, bensì dalla direzione in cui si muove, dal suo programma e dalla sua tattica; 2) la socialdemocrazia non è l'ala destra del movimento operaio ma l'ala sinistra della borghesia, come fu detto al congresso di Roma del PCd'I discutendosi dell’equivoca parola d'ordine del «governo operaio», e come ad una Internazionale che quel solido filo andava smarrendo parve fosse «infantile» sostenere.

Quando d'altra parte la Pankhurst, rifacendosi qui come altrove ad argomenti secondari invece di prendere di petto la questione centrale, obiettò: «Se saremo dei veri rivoluzionari e aderiremo al Partito labu­rista, quei signori ci espelleranno», Lenin reagì nuovamente: «Ma non sarebbe affatto un male!», come già nell’Estremismo aveva scritto che la prospettiva di perdere qualche seggio in parlamento qualora gli Snowden e Henderson avessero respinto la nostra mano fuggevolmente tesa per poi ritirarla subito e combatterli, non solo non ci doveva spaven­tare ma doveva al contrario essere salutata come una vittoria, lo scopo della tattica suggerita essendo di dimostrare coi fatti agli operai che fra noi e gli opportunisti nessun ponte può mai essere costruito e che mai in nessun caso Westminster sarà il nostro campo di battaglia!

Provino gli esperti in tattica «elastica» delle Botteghe Oscure a dimostrare che anche un ultimo esile ponticello li ricollega a Lenin: essi, i teorici dei fronti popolari e nazionali, dell’unità fra tutti i partiti «operai», della via democratica e parlamentare al socialismo! Anche nelle pieghe ambigue delle proposte di soluzioni tattiche più discutibili e perfino condannabili, Lenin ha lasciato al movimento comunista avvenire un tesoro di dottrina al quale attingere non solo per non ricadervi, ma per vedere con sempre maggior chiarezza in tutto il difficile percorso della propria esistenza di partito antidemocratico, antiparlamentare, antiop­portunista, e solo a questa condizione rivoluzionario: quel tesoro, essi l'hanno buttato a mare e mai si sognerebbero di ripescarlo! Sono questi fasci di luce nell’ombra incerta della contingenza a fare del II Congresso una parte inscindibile del patrimonio teorico e programmatico del comu­nismo rivoluzionario: il resto appartiene alla fragile «ora che volge» e ha lo stesso carattere «interlocutorio» del lungo e non conclusivo dibattito sulla consistenza del partito comunista unificato sorto proprio in quei giorni in America, e già diviso senza che si potesse giudicare quale delle due ali, unitaria o scissionista, fornisse un minimo di «carte in regola» con l'Internazionale rivoluzionaria. Nel mondo anglosassone, ancor più che in quello latino e centro-europeo, il partito comunista non aveva ancor superato lo stadio di pallida larva: l'interrogativo non era dove e come avrebbe fatto i primi passi, ma se possedesse la bussola senza la quale gambe e testa seguono immancabilmente la via sbagliata. E la bussola era il filo rosso mille volte dipanato da Lenin, e mille volte perduto, se mai l'avevano afferrato, dai pur combattivi e generosi proletari accorsi ad offrire il proprio contributo alla gigantesca battaglia su tutti i fronti e sotto tutti i cieli del pianeta, sostenuta a Mosca. Quando si riflette che nel dibattito sugli Statuti, al termine di quindici giorni di martellante riaffermazione dei princìpi del marxismo rivoluzionario, rife­cero capolino negli stessi partiti da un anno aderenti all’IC gli antichi dubbi sul centralismo, la struttura gerarchica, la disciplina delle sezioni verso gli organi dirigenti del Comintern come dei militanti verso le se­zioni, la necessità di una rete illegale di partito, l'aperta proclamazione dei princìpi della violenza di classe, della dittatura e del terrore, si può ben capire che i bolscevichi gridassero: Fatevi le ossa nel duro scontro con l'opportunismo e alla severa scuola della teoria, prima di chiamarvi comunisti; poi ne riparleremo!

(1) Lenin, Opere, XXXI, pagg. 190-194.

(2) L'«estremismo» malattia infantile del comunismo, cit., pag.  i 69.

(3) Rosmer, cit., pag. 67.

 

 

8. - LA QUESTIONE ITALIANA, UNA PIETRA DI PARAGONE

 

Della questione italiana si erano occupate, con severi giudizi sulla tolleranza verso la destra da parte della direzione del PSI, le Condizioni di ammissione; ne riparlerà il Manifesto lanciato al termine del congresso; ne avevano ripetutamente accennato Lenin in risposta a Serrati, Zinoviev nella rassegna introduttiva dei partiti aderenti o... postulanti, Bukharin nel discorso di presentazione delle Tesi sul parlamentarismo rivoluziona­rio; e il direttore dell’«Avanti!» non aveva battuto ciglio neppure di fronte alle più aspre rampogne al PSI. Le direttive dell’Internazionale erano rimaste quelle già dette: la scissione doveva essere effettuata senza indugi, amputando il partito della sua ala riformista; il partito stesso, così «rinnovato», doveva, conformemente alle Condizioni di ammissione e in genere ai deliberati del congresso, mostrarsi all’altezza dei compiti affidati ai partiti comunisti dal ciclo storico aperto dalla rivoluzione d'Ottobre e dalla fine della guerra, ciclo che i bolscevichi ritenevano prossimo a uno snodamento rivoluzionario soprattutto in Italia. Come abbiamo più volte ripetuto, era una soluzione minima, che concedeva al massimalismo una fiducia condizionata nel senso che l'Esecutivo dell’IC si riservava di giudicarne il «corso nuovo» non appena un congresso straordinario avesse sancito non già un'adesione formale al Comintern ma una piena aderenza ai suoi princìpi e al suo programma; soluzione sostanzialmente analoga a quella proposta dalla mozione sul «Rinnova­mento del Partito» emanante dalla sezione torinese del PSI, apparsa sull’«Ordine Nuovo» e letta da Terracini al consiglio nazionale di aprile, alla quale infatti, nel progetto di Tesi sui compiti dell’Internazionale comunista, al par. 17, Lenin faceva riferimento come base sulla quale il partito si dovesse muovere nel prossimo avvenire.

Nella seduta del 6 agosto, tuttavia, Serrati si impennò: tutto aveva digerito, sia pure con riserva; ma non era disposto a digerire quella che suonava critica, anzi condanna della direzione massimalista per la sua insistenza nel coprire e tollerare la destra. Avrebbe perciò votato contro (anche a causa del modo in cui si era impostata la questione inglese e americana, aggiunse per rivestire di una foglia di fico intransigente il nocciolo ultratransigente del dissidio). Si era alla vigilia della chiusura del congresso e a mezzo mese di distanza dal ritorno in patria: si fiutava l'aria non più di Mosca o Pietrogrado ma di Milano, covo del riformismo parlamentare e sindacale, ed egli cominciava a investirsi della parte che i giovani francesi avevano temuto sarebbe stata assunta dai Cachin-­Frossard nella mefitica atmosfera parigina; la parte che egli stesso reciterà poco dopo in Italia rinnegando i 21 punti e correndo al salvataggio del riformismo turatiano.

Non era l'unico. In sede di commissione, Graziadei, che fino a Livorno si adoprerà per costruire un'ultima «passerella» di recupero di almeno una parte del centro massimalista, aveva fatto le sue brave riserve sul tono della leniniana tesi 17 («mi sembrava - dirà al suo ritorno - che la direzione del PSI e il segretario Gennari non venissero, nella forma, trattati coi riguardi che merita la loro opera, tenendo anche conto delle gravissime difficoltà della situazione» (1)) e aveva chiesto che lo si ammorbidisse per favorire l'allineamento sulle posizioni dell’IC del nucleo più sostanzioso possibile del vecchio partito. E fu ancora lui a proporre una nuova dizione della tesi 17 sui compiti dell’Interna­zionale comunista che, mentre eliminava ogni equivoco circa una sanzione da parte di quest'ultima alla corrente dell’«Ordine Nuovo» (2), rendeva omaggio formale ai deliberati del congresso di Bologna e alla sua mag­gioranza:

 

«...Il II Congresso dell’IC, riconoscendo che la revisione del programma votata l'anno scorso dal Partito socialista italiano nel suo congresso di Bologna segna una tappa molto importante nella sua trasformazione verso il comunismo [frase in origine mancante] e che le proposte presentate dalla sezione di Torino al Consiglio nazio­nale del Partito e pubblicate nel giornale «L'Ordine Nuovo» dell’8 maggio 1920, corrispondono ai fondamentali princìpi del comunismo, prega il PSI di volere, nel prossimo congresso da tenersi in conformità ai suoi statuti e alle condizioni generali di ammissione all’Internazionale comunista, esaminare le suddette proposte e tutte le decisioni dei due congressi dell’IC, con speciale riguardo al gruppo parlamentare, ai sindacati e agli elementi non comunisti nel partito [dizione originaria: «...al fine di correggere la linea del partito e di epurare il partito stesso, e in particolare il suo gruppo parlamentare, dagli elementi non comunisti»]».

 

Tanto però non bastava a Serrati, il quale insistette che fra i due testi non esisteva alcuna differenza se non forse agli occhi di un azzecca­garbugli, entrambi significando aperta sconfessione dell’operato della direzione del partito e dell’«Avanti!»,  cosa che Zinoviev si affrettò a confermare, e la nuova dizione passò, contro il voto di Serrati, nella sua forma diluita ma nella sua sostanza non equivoca.

Da parte nostra - e lo dicemmo - la questione non era né di forma né di stile, e tutte le parole di Lenin, Zinoviev e Bukharin stavano ad indicare condanna non solo della destra ma del suo avvocato difensore, il centro massimalista. Che così fosse, risultò anche dalla lettera che l’Esecutivo dell’Internazionale sottopose il 10 agosto alla delegazione italiana e le consegnò poi, nella sua stesura definitiva e rafforzata, il 27. Qui le reticenze graziadeiane erano scomparse, e al partito, proprio perché ufficialmente aderente all’IC, si imponeva con durezza tanto maggiore di uscir dall’equivoco: ad esso, «entrato fra i primi nella III Interna­zionale, è tanto più indispensabile fissare con assoluta nettezza la linea della propria tattica e vincere al più presto la nefasta resistenza derivante dalle colpe volontarie o involontarie» del passato, dal fatto d'essere «contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi che, nel momento della guerra civile, sono destinati a trasformarsi in veri agenti della contro­rivoluzione, in nemici della classe proletaria», e alla cui influenza si deve se «non è il Partito che guida le masse, ma le masse che spingono il Partito»; il movimento comunista internazionale, che vede addensarsi sull’Italia le prime nubi annunziatrici della tempesta rivoluzionaria, non può tollerare che «il partito proletario si trasformi in un corpo di pom­pieri chiamato a spegnere la fiamma della rivoluzione, quando questa prorompe da tutti i pori della società capitalistica». Basta, dunque, con le esitazioni: «Il nemico è nelle vostre stesse case [...], liberate il Partito dall’elemento borghese, e allora, ma soltanto allora, la disciplina di ferro del proletariato e del suo partito condurrà la classe operaia all’assalto delle fortezze del capitale!».

La lettera, che pone «in modo ultimativo la questione dell’epura­zione del Partito, senza di che il Comitato esecutivo non potrebbe assu­mersi di fronte al proletariato internazionale la responsabilità della sua sezione italiana», prevede certo come prossima una situazione rivoluzionaria purtroppo ancora lontana (l'occupazione delle fabbriche, iniziatasi due giorni dopo, segnerà piuttosto il suo riflusso che la sua apertura), ma la critica del PSI, delle sue pesanti remore, della sua capitolazione di fronte all’opportunismo parlamentare e confederale, del suo nullismo in tutte le manifestazioni della lotta di classe, per quanto «infantili, spon­tanee, non organizzate» esse siano, come «l'importantissimo movimento dei consigli di fabbrica» (a chi se non al Partito spetta di «porre rimedio a tali deficienze?»), queste e altre critiche vanno ben oltre la contingenza e il giudizio sui suoi possibili sviluppi, per investire il problema generale e permanente della natura e dei compiti del partito di classe, ed è in fun­zione di questo problema - non, come nella ricostruzione fantastorio­grafica, della fiducia di avere con sé l'enorme maggioranza del PSI (la lettera del 27 agosto, firmata Zinoviev e Bukharin, proclama: «Noi non corriamo dietro al numero; non vogliamo avere delle catene ai piedi») - che l'Internazionale vorrà fermamente Livorno. Il fatto è che il partito italiano divenne, dopo il II Congresso, un banco di prova: lì - non in partiti che un giorno forse avrebbero aderito all’IC, ma in un partito che ne faceva parte da più di un anno - era la pietra di paragone della rottura col passato. La diagnosi della situazione politica e sociale italiana poteva, in Lenin e nei suoi compagni, essere, come indubbiamente era, troppo ottimistica (in sede di commissione, noi avevamo messo in guardia contro eccessive illusioni in merito, e lo scatto di Bukharin documentato da uno scarno riassunto di verbale in polemica con il delegato astensio­nista (3), alla cui lettura gli storici vanno in brodo di giuggiole, mostra soltanto come il «dovere dell’ottimismo» possa in date circostanze far velo alla chiarezza - ma non è una colpa!); il problema dell’organo ­partito restava integro, confermata o smentita che fosse la diagnosi. Mosca chiedeva a brevissima scadenza la scissione dalla destra: per noi la soluzione era insufficiente; per il massimalismo, era eccessivamente drastica. Se l'Internazionale, dopo aver patrocinato la via meno... chi­rurgica, riconobbe con noi che il taglio doveva finalmente essere spietato non risparmiando, insieme alla destra, il centro, non è solo perché si trovò di fronte una dura maggioranza unitaria fieramente decisa a non accettare imposizioni non diciamo dalle supreme istanze organizzative e disciplinari dell’IC, ma dai princìpi di cui esse erano - e dovevano essere - le esecutrici come ne erano le depositarie (è noto che nell’autunno Lenin iniziò una vigorosa campagna anti-Serrati); è soprattutto perché trovò nella nostra Frazione, divenuta il catalizzatore delle forze oscura­mente attratte verso il programma comunista, il punto d'appoggio per l'applicazione nella forma più conseguente - chiamiamola pure: più bolscevica - dei deliberati del congresso mondiale.

Il nodo (e ci si consenta di anticipare in sintesi quello che risul­terà da un successivo volume) è proprio qui: il resoconto dei dibattiti che abbiamo cercato di dare seguendo il filo rosso dell’essenziale per sfron­darne l'accessorio, mostra come lo «stato maggiore del comunismo» riu­nito intorno a Lenin, partito da una piattaforma minima nel redigere tesi destinate a guidare un movimento che sapeva mondialmente impreparato ad assimilarle nella formulazione più rigida e come tale più rigorosa, non solo non esitò un attimo a brandire lo scalpello per disegnarne con maggiore crudezza i tratti inconfondibili, ma lo fece con lo slancio e l'en­tusiasmo di chi si ritrova nel proprio elemento, non appena vide schierato sul fronte dell’intransigente fermezza di cui aveva dato esempi memorabili in un triennio di guerra civile un duro nocciolo - anche piccolo, purché duro - di militanti decisi a riprendere la sua bandiera. Era stato così per le condizioni di ammissione, per le tesi sulla questione nazionale e coloniale, per gli statuti, perfino per le tesi sul ruolo del partito nella rivoluzione proletaria, per quelle sindacali e agrarie, e per alcuni paragrafi di quelle sul parlamentarismo - tutte martellate a poco a poco dalle mani congiunte di militanti comunisti di avanguardia nello spirito della tradizione bolscevica, e quindi marxista, fino ad assumere la forma più netta compatibile con gli inevitabili condizionamenti della storia. Oscura­mente forse, l'avanguardia comunista occidentale e perfino asiatica aveva allora restituito all’avanguardia russa almeno una parte della linfa vitale che, in mesi densi come decenni, ne aveva ricevuta. Doveva essere così non solo a Mosca, ma dovunque, nell’opera che su quel piedestallo di granito si trattava di portare innanzi nel costruire l'organo della rivolu­zione e della dittatura, il partito. Avevamo scritto prima del congresso, ripetemmo durante e dopo le sue riunioni a Mosca come nel «Soviet» (4), che la questione parlamentare non rappresentava per noi che un aspetto del problema del partito, mai la nostra discriminante: lavorammo dunque in Italia perché - come ci eravamo solennemente impegnati a fare - il partito nascesse nella più stretta aderenza alle tesi e condizioni della Internazionale, senza attenuazioni né riserve. Non solo non chiedemmo investiture, ma dichiarammo che, se a qualcuno spettava di dirigere il partito alla cui costituzione avremmo dedicato tutte le nostre energie, non era a noi ma al gruppo che con Misiano, in aprile, aveva sostenuto le posizioni più vicine, nella questione italiana, a quelle del II Congresso, senza cedimenti all’ordinovismo come senza incertezze in materia di «pu­rificazione». Quando gli astensionisti torinesi proposero che ci si costituisse immediatamente in partito, il comitato centrale della Frazione reagì con fermezza: l'Internazionale aveva deciso che si rimanesse nel partito fino al congresso; la disciplina internazionale sulla base dei princìpi proclamati e ribaditi a Mosca era per noi una questione di princìpio anche se date soluzioni tattiche non ci convincevano appieno. E fummo noi, nel primo numero (14 novembre) de «Il Comunista», organo della neocostituita frazione comunista del PSI, la cosiddetta «Frazione di Imola», a scrivere, riaffermando i princìpi del centralismo e della disciplina internazionale:

«Occorre sopprimere la tendenza individualistica, personalistica che vive e si sviluppa fra noi. Occorre saper obbedire per essere obbediti [...]. I comunisti vogliono eseguire degli ordini». Ci eravamo impegnati ad accantonare la pregiudiziale astensionista: e l'accantonammo in nome della adesione incondizionata ai princìpi. In nome di essi, lottammo perché il Partito nascesse nelle condizioni migliori, cioè sulla base dell’applica­zione la più radicale possibile dei 21 punti e di tutto ciò che li sottendeva.

Il grande interrogativo che assilla le menti pensose degli storici come mai la vera iniziativa nel costituire e, subito dopo, nel dirigere il partito passò, consenziente l'Internazionale, all’ex Frazione comunista astensionista - non ha quindi bisogno di Pizie o Sibille per trovare risposta: l'onere di una scissione non interrotta a metà, ignara di «pas­serelle», fedele alla lettera e allo spirito delle tesi del II Congresso, così come del resto la esigevano i fatti - non tanto l'aperta ribellione della destra, che era scontata per tutti, quanto l'aperta connivenza con essa del centro dopo il rientro di Serrati, che solo per noi non era una sorpresa -, questa scissione sarebbe stata il frutto della nostra decisione di costruire su tutto il corpo di princìpi, finalità, programma e tattica del II Congresso; o - come risulterà chiaro da un successivo volume - non sa­rebbe avvenuta mai. I bolscevichi avevano trovato nel piccolo ma ag­guerrito nucleo della nostra Frazione l'arma per condurre fino in fondo quella lotta contro l’opportunismo che era stata splendidamente la loro: non ebbero esitazioni e ci appoggiarono, essi che, se le cose fossero andate come in Francia, avrebbero potuto (e dovuto) far leva, obtorto collo, sui Graziadei o sui Misiano. Nulla di simile essi trovarono né nel partito tedesco prima di Halle, né ai margini del partito francese prima di Tours: coloro che in anni seguenti strillarono, ed oggi strillano, perché in Germa­nia si erano aperte le porte a troppi indipendenti, e in Francia si era accettato che il partito nascesse da una scissione sciaguratamente «a de­stra», nell’un caso e nell’altro preparando il terreno alle peggiori delusioni nascoste dietro il velo di successi puramente numerici, non seppero e non sapranno mai rispondere alla nostra domanda: Dov'erano in Francia e in Germania le forze di un'altra Livorno? e se c'erano, perché cedettero le armi? chi levò la sua voce affinché la porta non si aprisse ai falsi convertiti, per accogliere invece solo i militanti in nome di un program­ma accettato senza arrière-pensées, da difendere e praticare in blocco? É facile ma assassino, oggi, gridare all’«opportunismo» di un'Interna­zionale il cui stato maggiore non chiedeva di meglio che di possedere un esercito pronto a seguirlo fino in fondo e invece trovava solo gracili pat­tuglie costituzionalmente timorose di andare più in là di metà strada! Non v'è, al II Congresso e nel periodo cruciale che lo seguì, un solo esempio di ritrosia in Lenin o Trotsky a scolpire in tratti più nitidi, più taglienti, più inesorabili i lineamenti teorici, programmatici, tattici, orga­nizzativi del partito mondiale unico del comunismo rivoluzionario, ogni volta che alla loro mano ferma, alla quale tuttavia non si poteva né si sarebbe dovuto chiedere il miracolo, si stringeva una mano altrettanto ferma, cosciente di doverla sostenere con tutte le forze nell’ora che sembrava quella del facile trionfo ed era invece la vigilia del «giorno più lungo» prima della sconfitta.

Conosciamo l'obiezione inversa: l'Internazionale sancì Livorno, poi se ne rammaricò. Ma è un'obiezione che non si accorge d'essere una conferma. É vero; quella Livorno che era stata salutata come il primo ed unico esempio di scissione «alla bolscevica», sarà poi deprecata come il frutto maledetto del «settarismo di sinistra» - lo sarà da un'Interna­zionale che dall’Occidente, tramite i partiti alla... Tours, aveva assorbito tutti i veleni della democrazia e appunto perciò si apprestava ad offrire inerme la testa al cappio del boia Josif Visarionovic Stalin. Ancora una volta, chi all’infuori di noi levò la sua voce nell’ora della tragedia? chi difese una Vecchia Guardia che era rimasta troppo spesso sorda ai nostri ammonimenti (quando non ci aveva addirittura combattuti), ma che nel 1926 come nel 1920 rappresentava nel presente, essa sola, il futuro del movimento comunista? Il filo rosso può smarrirsi; ma nei grandi svolti della storia, i suoi capi immancabilmente si ritrovano nelle stesse mani.

A noi il privilegio, dovuto non a meriti nostri ma ad un concorso di circostanze obiettive, di aver visto più lontano - e l'orgoglio, se non di aver potuto andare più innanzi sulla strada che i bolscevichi avevano tracciata riscoprendola nel patrimonio universale del marxismo, di non aver mai ceduto alla lusinga di tornare indietro. Non avete potuto impe­dire il disastro!, ghigna l'opportunista in panni accademici. É vero, ri­spondiamo; ma non abbiamo accettato, che è il primo passo per rinascere, di considerarlo una sconfitta del marxismo. E questa, malgrado tutto, è una battaglia vinta!

A chi ci chiedesse come avrebbe potuto essere l'Internazionale di allora se, per ipotesi assurda, il movimento operaio mondiale fosse riuscito a dare più di quel che diede, noi, che di Livorno conoscevamo tuttavia i limiti obiettivi, abbiamo il diritto di rispondere: Come se ne applicarono i princìpi, il programma, il metodo di organizzazione al Congresso di Livorno! A chi ci chiedesse come soltanto potrà essere l'Internazionale di domani, abbiamo il diritto di rispondere: Come doveva essere, e non fu, perché non venne ai bolscevichi l'appoggio fraterno di una avanguardia comunista mondiale all’altezza del loro insegnamento, a Mo­sca nel luglio-agosto 1920 e nel gennaio 1921 a Livorno. Non è questione di... benemerenze personali o, peggio ancora, nazionali, ma di esigenze di vita, le sole che valgano, del movimento proletario.

Perciò abbiamo eretto la questione italiana, piccola in sé come era modesto il teatro sul quale si snodò, a pietra di paragone ed epigrafe commemorativa del II Congresso. Avesse voluto la storia che fosse la questione tedesca, non saremmo qui a ritessere faticosamente la trama del passato per aprirci ancor più faticosamente la strada del futuro: l'avremmo forse già percorsa fino alla vittoria!

(1) Intervista all’«Avanti!» del 24.VIII.1920.

(2) La delegazione italiana osservò che il testo originario di Lenin poteva suonare investitura dell’«Ordine Nuovo» - cioè di un gruppo «ribelle», protestarono Serrati, Graziadei e Bombacci - o della sezione torinese, cioè, protestò Polano, di un nucleo astensionista. Anche in questi rilievi fa capolino la preoccupazione unitaria: solo il nostro delegato pose la questione sul terreno dei princìpi osservando che la peculiare ideologia dell’«Ordine Nuovo», sulla quale Lenin e Bukharin ammisero di non essere bene informati, contraddiceva alle fondamentali tesi del II Congresso. Il testo perciò fu rivisto come appare innanzi. Ciò non impedisce agli storici di parlare di «avallo della mozione ordinovista», e a Rosmer di «ricordare» come, avendo Lenin chiesto a Bordiga di esporre le posizioni dell’ordinovismo, egli lo fece così «onestamente che Lenin si convinse ancor più che l'«investitura» (questi filodemocratici guardano sempre con nostalgia alla feudale «accolade»!) doveva essere data a... Gramsci e compagni! Dai bolscevichi ci divideva una questione tattica; gli ordinovisti si muovevano fuori del solco della teoria, del programma e dei princìpi: una piccola differenza, per gli storici e furieri dell’opportunismo...

(3) Cfr. l'impagabile Spriano, cit., pagg. 76-77.

(4) Cfr. pagg. 728-730.

 

 

 

 

9. - EPILOGO

 

«I socialisti governativi e paragovernativi dei diversi paesi - concludeva il Manifesto scritto da Trotsky che, con il suo discorso del 6 agosto, coronò splendidamente il II Congresso - ricorrono a mille pretesti per accusare i comunisti di provocare con la loro tattica intransigente l'intervento della controrivoluzione e così contribuire a stringerne le file. Quest'accusa politica non è che una tardiva ripetizione dei piagnistei del liberalismo. Quest'ultimo, infatti, sosteneva che la lotta indipendente del proletariato spinge i privilegiati nel campo della reazione.

Verità incontestabile! Se la classe operaia non attaccasse mai le basi del suo dominio, la borghesia non avrebbe bisogno di rappresaglie. Lo stesso concetto di controrivoluzione non esisterebbe, se la storia non conoscesse la rivoluzione. Se l'insurrezione del proletariato porta inevitabilmente con sé l'affasciamento della borghesia per l'autodifesa e il contrattacco, ciò dimostra soltanto che la rivoluzione è la lotta fra due classi inconciliabili, che può terminare soltanto con la vittoria definitiva dell’una o dell’altra.

«Il comunismo respinge con disprezzo la politica consistente nel mantenere le masse in uno stato di passività spaventandole col knut della "controrivoluzione". Al caos e allo sfacelo del mondo capitalistico, che nella tensione delle sue ultime energie minaccia di distruggere la civiltà umana, l'Internazionale comunista oppone la lotta unita del proletariato internazionale, l'abolizione di qualunque proprietà privata dei mezzi di produzione, la trasformazione dell’economia nazionale e mon­diale in base a un piano economico unitario, stabilito e diretto dalla solidale comunità dei produttori.

«Sotto la bandiera: Dittatura del proletariato e sistema sovietico, che unisce i milioni e milioni di lavoratori di tutti i continenti, l'Internazionale comunista seleziona, estende, organizza le proprie file nel fuoco della lotta.

«L'Internazionale comunista è il Partito dell’insurrezione armata del prole­tariato internazionale. Essa esclude tutti i gruppi e le organizzazioni che aperta­mente o velatamente addormentano, demoralizzano o indeboliscono il proletariato; incita il proletariato a non inchinarsi di fronte agli idoli della legalità, della difesa nazionale, della democrazia, dietro i quali si nasconde la dittatura borghese.

«L'Internazionale comunista non può neppure accogliere nelle proprie file le organizzazioni che, mentre riconoscono nei loro programmi la dittatura del proletariato, conducono una politica basata sull’attesa di una soluzione pacifica della crisi storica. Il puro e semplice riconoscimento del sistema sovietico non risolve nulla. L'organizzazione del potere dei soviet non possiede nessuna virtù taumaturgica. La forza rivoluzionaria risiede nel proletariato stesso. É assoluta­mente necessario che esso si elevi fino all’insurrezione e alla conquista del potere; soltanto allora l'organizzazione sovietica mostrerà i suoi pregi come arma inso­stituibile in mano al proletariato.

«L'internazionale comunista esige l'espulsione dalle file del movimento operaio di tutti quei dirigenti che sono legati alla borghesia da una collaborazione diretta o indiretta, che l'hanno direttamente o indirettamente servita. Abbiamo bisogno di capi che non siano legati alla borghesia da nessun altro rapporto che quello di un odio mortale; che chiamino e guidino il proletariato ad una lotta instancabile; che siano pronti a dirigere nella battaglia un esercito d'insorti; che non si fermino atterriti a metà strada e che, qualunque cosa avvenga, non temano di colpire senza pietà chiunque pretenda di trattenerli.

«L'Internazionale comunista è il Partito internazionale dell’insurrezione e della dittatura proletarie. Essa non conosce fini e compiti diversi da quelli dell’intera classe lavoratrice. Le pretese arroganti delle piccole sette, ognuna delle quali vor­rebbe salvare la classe lavoratrice, sono estranee e avverse allo spirito dell’Interna­zionale comunista. Essa non offre ricette universali od esorcismi; si appoggia alle esperienze mondiali della classe operaia nel passato e nel presente, le purifica dai loro errori e sviamenti, ne generalizza i risultati, adotta soltanto le formule valide per l'azione di massa.

«Organizzazioni di mestiere, sciopero economico e politico, elezioni parlamentari e comunali, tribune parlamentari, agitazione legale ed illegale, punti d'appoggio segreti nell’esercito, lavoro nelle cooperative, barricate - l'Internazionale comunista non respinge nessuna delle forme di organizzazione generate dallo sviluppo del movimento operaio, e non ne considera nessuna presa a sé come panacea uni­versale [...].

«Nei tempi in cui, sotto l'egida della lI Internazionale, erano quasi esclusi­vamente legali, i metodi di organizzazione e di lotta di classe soggiacevano, in definitiva, al controllo e alla direzione della borghesia, i cui agenti riformisti imbrigliavano la classe rivoluzionaria.

«L'Internazionale comunista strappa le redini dalle mani della borghesia, conquista tutte le organizzazioni, le unisce sotto una guida rivoluzionaria, e con esse addita al proletariato un unico fine: la conquista violenta del potere, per la distruzione dello stato borghese e l'instaurazione della società comunista.

«In tutta la sua attività, animatore e guida di moti insurrezionali, organiz­zatore di gruppi clandestini, segretario di sindacati, agitatore nei comizi o in parlamento, dirigente di cooperative, combattente sulle barricate, il comunista rimane il militante disciplinato del Partito comunista, il suo indomito lottatore, li nemico mortale della società capitalistica, delle sue basi economiche, delle sue forme statali, della sua menzogna democratica, della sua religione, della sua morale; è il soldato pronto ad ogni sacrificio della rivoluzione proletaria, l'instancabile araldo della società nuova.

«Operai e operaie! V'è sulla terra un'unica bandiera sotto la quale meriti di combattere e morire: la bandiera dell’Internazionale comunista!».

 

Era questo il messaggio che i delegati avrebbero dovuto riportare nelle loro terre di origine; sulla base delle sue certezze e dei suoi coman­damenti avrebbero dovuto sorgere e muoversi d'ora innanzi le sezioni del Comintern.

Il movimento comunista mondiale toccava quello che abbiamo chiamato a buon diritto lo zenit; ma quel punto segnava al tempo stesso un bivio. O, come era nelle speranze, la marea della guerra di classe continuava a salire trascinando nel suo impeto le forze esitanti e malfide e schierando sullo stesso fronte di battaglia delle Tesi del II Congresso, comunisti se non di fatto almeno d'istinto e affiliazione, i militanti di un ceppo tuttavia eteroclito, e da Mosca l'Internazionale diretta dallo sperimentatissimo stato maggiore bolscevico riusciva a tenere saldamente in pugno le redini di sezioni nazionali agenti come parti inscindibili di un solo esercito in marcia, o l'impostazione dei problemi organizzativi e tattici doveva essere riveduta non certo per stravolgerla (perché non v'era in essa rottura coi princìpi) ma per sollevarla alle vette ardue, e perfino vertiginose, delle formulazioni più possenti della dottrina marxista. In una certa misura, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo, potando inesorabilmente nella selva troppo rapidamente infol­titasi dei nuovi partiti, riconducendoli al duro e ristretto nocciolo «bol­scevico» nella dottrina e nel programma e dando loro direttive di azione più taglienti e di più sicura efficacia a lungo termine anche se non di successo immediato. Se così non si fosse proceduto, quella che nel 1920 poteva essere la felice congiunzione del movimento reale con la coscienza e la volontà del partito si sarebbe capovolta nel disperato tentativo di affermarsi di una volontà priva del proprio supporto mate­riale; anzi, poggiante su un supporto con essa inconciliabile.

Purtroppo così avvenne; e in anni che passarono veloci - non nel senso pettegolo degli opportunisti, che cercano nella labilità di «situa­zioni» a breve scadenza l'oroscopo delle proprie direttive e perfino della propria dottrina, ma nel senso ben più profondo di quelle inversioni nel ciclo delle lotte di classe in cui le conquiste ottenute a prezzo dei più duri sacrifici in giorni e mesi nei quali il tempo sembra arrestarsi precipitano e, nel crollo, ognuna se ne trascina dietro altre ed altre ancora - la gigantesca costruzione, salda nelle sue basi e serrata nel concatenamento delle sue membrature, cedette al peso di forze periferiche che si era cercato di dominare prima che fosse troppo tardi, ma contro il cui ostinato ritorno non ci si era - né forse sarebbe stato possibile nell’urgere di ore critiche - sufficientemente premuniti.

In quella stessa seconda metà del 1920 che, contro ogni apparenza (non ripeteremo, per non voler sembrare a tutti i costi dei profeti, la nostra prognosi tutt'altro che «ottimistica»), segnava in tutta Europa un primo giro di boa a favore della classe dominante, nacquero i due più grossi partiti comunisti d'Occidente, quello unificato tedesco e quello francese; troppo tardi ci si accorse che l'averli lasciati nascere con più di uno strappo alle condizioni di ammissione voleva dire essersi legati ai piedi la duplice palla di piombo di un partito oscillante fra un legalitarismo estremo e fuggevoli vampate di attivismo del genere della «teoria dell’offensiva», ma fondamentalmente orientato verso la linea mediana di un cauto «possibilismo» e verso rinnovate nostalgie unitarie, nel caso del VKPD, e di un partito del tutto parlamentare nel caso del PCF, l'uno e l'altro al disotto dei compiti fissati in tutte le tesi del II Congresso, l'uno e l'altro dilaniati da lotte interne e bisognosi ad ogni nuovo trimestre di vigorosi richiami all’ordine e di brusche quanto radicali epurazioni. A cavallo fra il II e il III Congresso svanì, perché ne erano venute a mancare le basi materiali, la speranza di convogliare sotto la direzione dell’Internazionale kaapedisti e wobblies, dissidenze inarco-sindacaliste e shop stewards, mentre nel marzo 1921 si accendeva e si spegneva in un nuovo olocausto un'altra poderosa impennata proletaria tedesca, spezzatasi contro lo scoglio non tanto - come si giudicò allora - dell’«avventurismo» (rimasto del tutto teorico) del VKPD, quanto della mancanza di omogeneità nelle sue sfere dirigenti e nella sua base gonfiatasi con l'apporto della cosiddetta «sinistra» indipendente.

La coscienza che la crisi postbellica del capitalismo era almeno temporaneamente superata, e che dall’affannosa difensiva la classe dominante passava al contrattacco, dominò il III Congresso: di fronte allo scandalo di partiti ipertrofici ma passivi nei più vitali campi d'azione (classici i casi del PC cecoslovacco, forte di 300.000 iscritti, dieci volte quanti gli effettivi del partito bolscevico nei giorni della presa del potere, ma privo di qualunque influenza fra le grandi masse salariate e alieno da qualunque attività sindacale, e del PC francese, tetragono ad ogni richiamo al dovere di lottare contro il colonialismo, l'armée, le glorie nazionali) o inclini a ridestarsi dal letargo in bruschi e sconsiderati soprassalti barricadieri (classico il caso del partito tedesco, inerte di fronte ai primi albori dei fatti di marzo e subito dopo lanciatosi freneticamente nella mischia con parole d'ordine a dir poco insurrezionali, per poi ricadere nella solita prassi conciliante), si richiamò fermamente il movimento internazionale alla necessità di legarsi alle masse operaie in lotta per la difesa del pane e del posto di lavoro minacciati dalla controffensiva borghese - necessità male e pericolo­samente espressa da quella formula di «conquista della maggioranza» che Lenin ebbe poi cura di spiegare nel senso rnarxisticamente corretto di conquista di una solida influenza sul proletariato attraverso l'agitazione politica e la direzione di grandi lotte economiche, ma che era fin troppo comodo interpretare, e fu interpretata, in senso volgarmente democra­tico e semiparlamentare. La morsa dalla quale a Mosca si sperava di uscire grazie ad una possente avanzata proletaria nell’Europa centro-occidentale e forse alla sua congiunzione coi moti rivoluzionari per l'indipendenza nazionale nelle colonie stava per richiudersi, assumendo in Russia, mancata la grande «occasione» del 1919-1920, un aspetto infinitamente più insidioso che nel triennio o quasi di guerra civile: era stato arduo battere sul campo gli eserciti bianchi e alleati nel quadro di una situazione mondiale di aspre lotte di classe; lo sarebbe stato mille volte di più (Lenin lo aveva ripetuto e lo ripeterà con martel­lante insistenza fino alla morte) piegare l'«idra piccolo-borghese» della piccola produzione, prima disciplinandola, poi stanandola dagli innume­revoli pori nei quali si annidava nell’immenso spazio della Russia con­tadina, attraverso quella nuova, meno gloriosa, più soffocante (e tanto più difficile se le prospettive di rivoluzione e presa del potere in Europa si allontanavano sia pure di qualche anno) guerra civile che si chiamò la NEP - una guerra prevista come inevitabile sin dall’ottobre 1917, ma la cui durata si sarebbe enormemente abbreviata o addirittura ridotta al minimo, e le cui asprezze sarebbero state enormemente attutite, se le «due metà spaiate di socialismo» si fossero, come non si erano, ricongiunte.

Fu allora che il «bivio» da noi temuto con allarme e denunziato come un pericolo fatale contro cui urgeva prepararsi si venne profilando prima vagamente, poi in forma sempre più drammatica. La società borghese dava segni inequivocabili di riconsolidarsi, dopo la grave scossa del primo dopoguerra, proprio quando era più urgente accelerare la conquista del potere in Europa per evitare in un breve scorrere d'anni o la caduta violenta dello Stato sovietico, prima grande e duratura conquista del movimento operaio e comunista mondiale, o la sua degenerazione a Stato capitalistico; i partiti comunisti non riuscivano non solo a vincere la loro battaglia, salvo in tentativi subito repressi, ma nemmeno ad estendere in modo decisivo la loro influenza sulle grandi masse prevalentemente inquadrate nei partiti socialdemocratici e di centro: da questo dilemma si credette di poter uscire - pur senza attenuare la battaglia polemica contro quelli che Lenin, Trotsky e tutti i bolscevichi avevano definito i veri puntelli del regime capitali­stico, i variopinti partiti della socialdemocrazia che proprio allora, risollevando la testa via via che la risollevava la classe dominante, lanciavano una nuova e spietata campagna contro il comunismo e contro la Russia rivoluzionaria -, ricorrendo ad espedienti tattici (ma a poco a poco anche strategici, atti a spostare verso i partiti della III Interna­zionale strati proletari rimasti finora sordi alla loro propaganda ed agitazione ma premuti da assillanti problemi immediati, cui non riusci­vano a porre rimedio neppure le consumate arti del minimalismo sin­dacale riformista: espedienti il cui impiego era tanto più rischioso - e si dimostrò tanto più fatale - in quanto era lasciato alla discrezione di partiti di composizione instabile, ben diversi nella loro struttura e nella loro azione pratica da quello che le condizioni di ammissione, le tesi, il manifesto del II Congresso esigevano; e ne aggravava le funzionali propensioni accomodanti, democratoidi, parlamentaristiche (1), rendendoli sempre meno idonei a fornire ai compagni russi impegnati nella più terribile delle loro battaglie (ancor oggi ignorata come tale dai presunti rappresentanti del «marxismo occidentale» o... «autentico»!) l'appoggio indispensabile ad una tempestiva «rettifica di tiro»; sempre più atti - proprio al contrario - ad ammorbarli di peste manovriera.

All’Esecutivo allargato del febbraio-marzo 1926, il delegato della Sinistra comunista italiana, ripercorrendo le tappe di un cammino che dalla grande luce del 1920 e del II Congresso aveva portato allo squal­lore degli anni preludenti all’infame carnaio stalinista, ebbe a dire che l'esperienza russa aveva dato al movimento comunista internazionale l'apporto cruciale e definitivo della restaurazione dei fondamenti teorici del marxismo rivoluzionario; non aveva potuto fornire invece quello di una soluzione completa e pienamente soddisfacente dei problemi tattici, soprattutto per le aree di capitalismo avanzato. Tale soluzione andava ricercata non fuori di quell’«apporto definitivo», ma sulla sua traccia, in un'accentuazione, non in un attenuazione, dei rigidi confini da essa segnati nei confronti dei nostri avversari, quando, sulla sua base, i bol­scevichi avevano condensato i «principi» del comunismo rivoluzionario nel binomio dittatura-terrore rosso. Proprio in quell’Estremismo che gli opportunisti pretendono di sfruttare contro di noi mentre è «la con­danna di ogni futuro rinnegato», Lenin aveva scritto, saldando la critica della democrazia all’individuazione delle sue radici materiali:

 

«Le classi sono rimaste e rimarranno in vita ancora per anni, dappertutto, dopo la conquista del potere da parte del proletariato [...]. Sopprimere le classi non significa solo cacciar via i grandi proprietari fondiari e i capitalisti - questo lo abbiamo fatto con relativa facilità - ma significa anche eliminare i piccoli produt­tori di merci, che è impossibile cacciar via, che è impossibile schiacciare, con i quali bisogna accordarsi, che si possono (e si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro organizzativo molto lungo, molto lento e cauto. Essi avvolgono il proletariato, da ogni parte, in un ambiente piccolo-borghese, lo penetrano di quest'ambiente, lo corrompono con esso, lo sospingono continuamente a ricadere nella mancanza di carattere, nella dispersione, nell’individualismo, nell’alternarsi di entusiasmo e depressione che sono propri della piccola borghesia. Il partito politico del prole­tariato ha necessità del centralismo più severo e della massima disciplina interna per opporsi a questi difetti, per svolgere giustamente, con successo, vittoriosamente, la funzione organizzativa (che è la sua funzione principale). La dittatura del prole­tariato è una lotta tenace, cruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica ed amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell’abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile delle forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito che goda della fiducia di tutti gli elementi onesti della classe, senza un partito che sappia interpretare lo stato d'animo delle masse e influire su di esso, è impossibile condurre a buon fine questa lotta. Vincere la grande borghesia centralizzata è mille volte più facile che "vincere" milioni e milioni di piccoli proprietari, i quali, mediante la loro attività quotidiana, continua, invisibile, inafferrabile, dissolvente, perseguono gli stessi risultati che sono necessari alla borghesia e che restaurano la borghesia. Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito del proletariato (in particolare nel periodo della dittatura proletaria) aiuta di fatto la borghesia contro il proletariato» (2).

 

La terribile «forza dell’abitudine», di cui Lenin anticipava la caparbia resistenza nel faticoso processo di trasformazione economica nelle campagne russe, agiva sui partiti dell’Occidente cresciuti in un secolare ambiente democratico: bisognava spezzarla inasprendo i termini e irrigidendo i confini della tattica rivoluzionaria. I metodi adottati dalla fine del 1921 in poi andarono nel senso opposto: per avvalorarli, si usarono a torto le esperienze della politica bolscevica in Russia, uscendo dalla giusta linea storica. Le ipotesi di convergenze con altri partiti, piccolo-borghesi e perfino borghesi, erano fondate sulla situazione in cui il potere zarista metteva tutti quei movimenti fuori legge e li costringeva a lottare insurrezionalmente. In Europa non si potevano proporre, sia pure a scopo di manovra, azioni comuni che sul piano legalitario, fosse esso parlamentare o sindacale. In Russia brevissima era stata nel 1905 e in pochi mesi del 1917 l'esperienza di un parla­mentarismo liberale e quella stessa di un sindacalismo ammesso dalla legge; nel resto d'Europa un cinquantennio di degenerazione aveva fatto di quei campi il terreno favorevole all’assorbimento di ogni energia rivoluzionaria e all’imprigionamento dei capi proletari al servizio borghese. La garanzia consistente nella fermezza di organizzazione e di princìpio del partito bolscevico era cosa ben diversa da una garanzia data dall’esistenza del potere statale proletario in Russia, che per le stesse con­dizioni sociali ed i rapporti internazionali era il più esposto ad essere travolto nella rinunzia ai princìpi ed alle direttive rivoluzionarie.

In conseguenza la sinistra della Internazionale, cui appartenne la grande maggioranza del Partito comunista d'Italia fino a che la reazione non lo distrusse praticamente (favorita soprattutto dall’errore di strategia storica), sostenne che si dovessero in Occidente scartare del tutto le alleanze e le proposte di alleanza ai partiti politici socialisti e piccolo-borghesi (tattica del fronte unico politico). Ammise che si dovesse tendere ad allargare l'influenza sulle masse intervenendo in tutte le lotte econo­miche e locali ed invitando i lavoratori di tutte le organizzazioni e di tutte le fedi a dare ad esse il massimo sviluppo, ma negò risolutamente che si potesse mai impegnare l'azione del partito (sia pure in dichiarazioni pubbliche benché non nelle intenzioni ed istruzioni all’apparato interno) a subordinarsi a quella di comitati politici di fronte, di blocco e di alleanza fra più partiti. Ancor più vigorosamente respinse la sedicen­te tattica «bolscevica» quando prese la forma del «governo operaio», ossia del lancio della parola d'agitazione (divenuta alcune volte pratico esperimento con esiti rovinosi) per la presa parlamentare del potere con maggioranze miste di comunisti e socialisti delle varie sfumature.

L'esperienza del metodo tattico seguito dall’Internazionale dal 1921 al 1926 fu negativa, e, ciò malgrado, in ogni congresso (IV, V ed Esecutivo allargato del 1926) se ne dettero versioni più opportunistiche. Alla base del metodo era il canone: cambiare la tattica secondo l'esame delle situazioni. Con pretese analisi si scorgevano ogni sei mesi nuovi stadi del divenire del capitalismo, e si pretendeva ovviarvi con nuove risorse di manovra. In fondo sta in ciò il revisionismo, che è stato sempre «volontarista»; ossia, quando ha constatato che le previsioni sull’avvento del socialismo non si erano ancora avverate, ha creduto di forzare la storia con una prassi nuova, ma con ciò ha anche cessato di lottare per lo stesso scopo proletario e socialista del nostro massimo programma. La situazione esclude oramai la possibilità insurrezionale, dissero i rifornisti nel 1900; è nullismo aspettare l'impossibile: lavoriamo per le possibilità concrete, elezioni e riforme legali, conquiste sindacali. Quando tale metodo falli, il volontarismo dei sindacalisti reagì imputandone la colpa al metodo politico ed al partito politico, e preco­nizzò lo sforzo di audaci minoranze nello sciopero generale condotto dai soli sindacati per ottenere uno svolto. Non diversamente, allorché si vide che il proletariato occidentale non scendeva in lotta per la dittatura, si volle ricorrere a surrogati per superare l'impasse. Ne avvenne che, passato il momento di squilibrio delle forze capitaliste, non mutarono la situazione obiettiva e il rapporto delle forze, mentre il movimento andò indebolendosi e poi corrompendosi: così come era avvenuto che i frettolosi revisionisti di destra e di sinistra del marxismo rivoluzionario erano finiti al servizio delle borghesie nelle unioni di guerra. Fu sabotata la preparazione teorica e la restaurazione dei princìpi quando si ingene­rò confusione tra il programma della conquista del potere totale al prole­tariato e l'avvento di governi «affini» mediante appoggio e partecipa­zione parlamentare e ministeriale dei comunisti: in Turingia e Sassonia tale esperienza terminò in farsa, bastando due poliziotti a gettar giù di scanno i rappresentanti comunisti nel governo.

In lampi di intuizione, le punte avanzate del partito bolscevico sentirono la gravità del pericolo: se l'ultimo anno di vita di Lenin è tutto un grido di allarme lanciato dal letto di morte sull’angosciosa minaccia del riflusso entro il partito di suggestioni non proletarie ed anticomuniste sotto la pressione delle forze economiche prorompenti dalle viscere delle campagne russe (e delle città a poco a poco assediate dal piccolo commercio, dallo strozzinaggio, o anche solo dalla stanchezza di lunghi anni di tensione disperata, per non parlare della «deproletariz­zazione» della stupenda classe operaia nei grandi centri della rivoluzione di Ottobre), in quello stesso anno Trotsky, che pure ci eravamo trovati e ci troveremo ancora di fronte nella difesa delle tattiche elastiche e delle manovre a zig-zag, ebbe a tratti coscienza di un'analoga minaccia esterna, quella del cedimento dei partiti comunisti «fratelli» al canto delle sirene socialdemocratiche o socialdemocratoidi non debellate nelle nostre stesse file nel processo troppo frettoloso e, nella sua audacia, con­troproducente, della loro genesi. Ripubblicando nel 1923, sotto il titolo Questioni fondamentali della rivoluzione (3), i suoi saggi 1920 e 1921 Terrorismo e comunismo e Fra imperialismo e rivoluzione, nella coscienza che «in campo teorico non si può continuare a vivere degli interessi del vecchio capitale», ché anzi «l'elaborazione teorica delle questioni di fondo della rivoluzione [...] è per noi oggi più urgente e necessaria che mai» (stava per spuntare l'alba del praticismo staliniano, del disprezzo della teoria, dell’antidogmatismo all’insegna del giorno per giorno), Trotsky, pur difendendo la tattica del fronte unico come «la politica necessaria per i partiti comunisti degli stati borghesi in questo periodo preparatorio», (e preparatorio nel senso che le «prospettive rivoluzio­narie immediate del 1918-1920 sono, per così dire, retrocesse in lonta­nanza, le lotte delle grandi potenze sociali hanno assunto un carattere lento e tedioso, senza che nello stesso tempo le spinte sotterranee cessino neppure per un momento di farsi sentire e minaccino un'esplo­sione ora militare, ora di classe, ora nazionale»), scrisse: «Questa politica si impone come necessaria [...] ma non si possono chiudere gli occhi sul fatto che essa cela in sé senza possibilità di dubbio i pericoli dello svuotamento e perfino della completa degenerazione dei partiti comunisti, se da un lato il periodo di preparazione si trascina troppo a lungo e, dall’altro, il lavoro quotidiano dei partiti occidentali non viene fecondato da un pensiero teorico attivo che abbracci in tutta la sua am­piezza la dinamica delle fondamentali forze storiche» (4).

Poco dopo, scoppiata nel glorioso partito bolscevico la prima grande crisi, Trotsky ne vide con acutezza - anche se non sempre con diagnosi esatta - i risvolti interni; non giunse ad afferrare il nesso fra «lo svuotamento» prima, la «completa degenerazione» poi dei partiti comunisti occidentali, e il loro vizio di origine, la selezione rimasta a metà nelle loro file, le manovre tattico-strategiche in sé devianti, e rese ancor più tali dalla «sovrapposizione a strutture organicamente legate a funzio­nalità parlamentari e sindacali» (e, come tali, pressoché indistinguibili da quelle della II Internazionale), loro incautamente imposte o suggerite. Il gigante di Terrorismo e comunismo si ritroverà nei due anni successivi a difendere da solo i cardini internazionali ed internazionalisti della tradizione bolscevica le cui basi aveva, contro ogni migliore intenzione, collaborato a minare: e con lui si leverà troppo tardi - contro uno schieramento internazionale di falsi comunisti ritornati a galla col favore sia dei tempi, sia di sbandate dal diritto cammino degli anni di folgoranti vittorie, e pronti a seppellire al canto della democrazia l'Internazionale della dittatura proletaria e del terrore rosso - la vecchia guardia bol­scevica. Entrambi soccombettero; non potevano non soccombere.

Giacché, soprattutto nello svolto decisivo del 1923-1924 (forse più decisivo ancora del drammatico 1926), a compromettere il risultato del difficile lavoro di selezione degli elementi rivoluzionari dagli opportunisti nei vari partiti e paesi si erano aggiunti gravi errori, in seguito divenuti prassi corrente e infine incancrenita, nel delicato ma vitale campo della organizzazione (5). Si credette di procurarsi nuovi effettivi ben mano­vrabili dal centro con lo strappare in blocco ali sinistre ai partiti socialdemocratici. Invece, passato un primo periodo di formazione della nuova Internazionale, questa avrebbe dovuto funzionare stabilmente come partito mondiale, e alle sue sezioni nazionali i nuovi proseliti avrebbero dovuto aderire individualmente. Si vollero guadagnare forti gruppi di lavo­ratori; invece si patteggio coi capi disordinando tutti i quadri del movimen­to, scomponendoli e ricomponendoli per combinazioni di persone in perio­di di lotta attiva. Si riconobbero per comuniste frazioni e cellule entro i partiti socialisti e opportunisti, e si praticarono fusioni organizzative; quasi tutti i partiti, anziché divenire atti alla lotta, furono così tenuti in crisi permanente, agirono senza continuità e senza limiti definiti tra amici e nemici con conseguenze a dir poco rovinose.

Più grave ancora fu che, contro tutto quanto voleva la tradizione marxista e bolscevica, contro tutti i deliberati del II Congresso, si impose ai partiti aderenti di capovolgere le basi della propria organizzazione pog­giandola sul luogo di lavoro anziché sulla sezione territoriale. Come si è osservato già più volte, con ciò si restringeva l'orizzonte dell’organizza­zione di base, che risultava composta di elementi tutti dello stesso me­stiere e con paralleli interessi economici, mentre la naturale sintesi delle varie «spinte» sociali nel partito e nella sua unitaria finalità veniva meno e finiva per essere unicamente espressa dalle parole d'ordine portate dai rappresentanti dei centri superiori, per lo più divenuti funzionari con tutte le caratteristiche proprie dei loro equivalenti nei vecchi partiti ed organi sindacali. La cosiddetta «bolscevizzazione» fu in realtà il preludio della graduale e infine precipitosa sbolscevizzazione dei partiti comunisti, del loro inaridirsi, del loro decadere da un lato ad un «miope praticismo» privo della linfa vitale del «pensiero teoretico attivo», dall’altro al livello di organizzazioni «laburiste», chiuse nell’angusto perimetro della fabbrica e di questioni contingenti, cieche e sorde ai grandi problemi teorici e poli­tici mondiali e, per entrambe le ragioni, pronte ad essere maneggiate come materiale inerte da un apparato non più solidamente ancorato ai princìpi, o meglio, sempre più conquistato a princìpi opposti a quelli sui quali si era costruita e per i quali si era battuta l'Internazionale degli anni gloriosi. La nostra opposizione a questo stravolgimento dei sani criteri marxisti di strutturazione e conduzione dei partiti non ebbe nulla in comune con rivendicazioni fasulle di «democrazia interna»; si trattava di combattere una profonda divergenza di concezione sulla deterministica organicità del partito come corpo storico vivente nella realtà della lotta di classe; di una deviazione radicale di princìpio, che rese i partiti incapaci di antivedere e fronteggiare a tempo il sottile e insidioso pericolo opportunista.

Non a caso, del resto, la «svolta» organizzativa, parallela a svolte tattiche sempre più eclettiche e infine apertamente devianti, coincise (1925) con gli inizi della grave crisi interna del Partito russo. Il grande dilemma posto dalla storia e formulato con straordinaria franchezza da Lenin nel 1917 come nel 1921 - «o sottoporremo al nostro controllo e alla nostra verifica il piccolo borghese, il piccolo produttore contadino, o egli abbatterà inevitabilmente e immancabilmente il nostro potere operaio, come abbat­terono la rivoluzione i Napoleoni e i Cavaignac che sorgono appunto sul terreno della piccola proprietà» -, giungeva proprio allora al suo terri­bile nodo, il nodo di ogni rivoluzione doppia impossibilitata a trascrescere in rivoluzione proletaria sul terreno economico in assenza della rivoluzione internazionale pura. «Anche se le rivoluzioni proletarie che si preparano dovessero tardare» - aveva aggiunto Lenin - sarebbero bastati alla vittoria «dieci, venti anni di buoni rapporti con i contadini» (e buoni nel senso che il controllo esercitato su di essi dalla dittatura proletaria non si capovolgesse nel suo contrario) (6), ma a due condizioni imprescin­dibili  che il Partito russo rimanesse integro sul filo della sua tradizione rivoluzionaria ed internazionalista, nella gelosa salvaguardia del suo patri­monio teorico e programmatico, e che, soprattutto, in difesa disperata di questa tradizione e di questo patrimonio, presupposti della sua esistenza, si levassero i partiti del Comintern.

Al 1925, le due condizioni erano venute progressivamente a mancare. Nel suo Testamento, Lenin aveva messo il dito sulla piaga parlando dell’anomalia di un partito «poggiante su due classi» solo temporaneamente avvicinate. Ora, la «leva» sconciamente aperta nel suo nome dopo la sua morte alterò anche socialmente la fisionomia del bolscevismo, sommergendo il duro nocciolo della Vecchia Guardia e della gioventù rivoluzionaria sotto lo spessore ottuso di masse grigie di provenienza contadina unicamente interessate allo status quo, mentre, fuori dei confini, l'eclettismo tattico e la revisione organizzativa avevano reso ancor più lontani e difformi dai requi­siti 1920 i «partiti fratelli». Quando, al già citato Esecutivo allargato del febbraio-marzo 1926, la Sinistra chiese che la «questione russa», divenuta ormai tragicamente bruciante, fosse discussa e risolta non nel chiuso (e nel segreto) del Partito russo, ma in sede di Congresso mondiale, secondo la corretta scala gerarchica che poneva le sezioni nazionali, compresa quella russa, sotto l'organo politico internazionale, e lo Stato della rivoluzione vittoriosa più sotto ancora, sollevò bensì coraggiosamente una questione di princìpio valida per tutti i tempi e da non mai dimenticare, ma, quando anche la richiesta fosse stata accolta (e naturalmente non lo fu), che cosa altro sarebbe allora potuto uscire da un consesso addomesticato di partiti degeneri, servilmente accodati al carro del padrone nello stile di una bolscevizzazione falsa e bugiarda? La «grettezza contadina» paventata e denunciata da Lenin gravava col suo peso fisico sul Partito russo; l'atonia democratica piccolo-borghese gravava col suo peso ideologico e organizzativo sui partiti occidentali nati malamente nel 1920-1921 e peg­gio cresciuti negli anni successivi.

Fu relativamente facile, a Mosca, trasformare il dibattito politico con Trotsky (e con la finalmente insorta Vecchia Guardia) in un'oscena rissa di maneggioni di partito incarnanti l'inerzia storica e l'ottusità piccolo-borghese contro l'audacia e il rigore dei rivoluzionari; lo fu ancor più trasformare l'Esecutivo allargato successivo (novembre-dicembre) in un coro servile di applausi alla liquidazione, con gli uomini dell’Ottobre, degli stupendi «insegnamenti del 1917». Toccò poi al braccio secolare di uno Stato agente in funzione non più della rivoluzione mondiale, ma della introduzione del capitalismo in Russia e della sua accumulazione originaria, schiacciare i «ribelli». Il ciclo gloriosamente apertosi nel 1917-1920 volgeva al tramonto - in nome, come si vedrà ben presto (7), della democrazia con tutto il suo armamentario strategico e tattico antiproletario. Oggi ancora, ne paghiamo il terribile scotto.

* * *

 

Il resto è fuori del filo rosso della tradizione marxista; è la squal­lida storia della controrivoluzione staliniana, della suprema bestemmia del «socialismo costruito in un paese solo», dei fronti popolari e na­zionali, del ministerialismo, del policentrismo, per finire nell’attuale in­famia di partiti che si appellano a Marx e a Lenin dopo averli trasfor­mati non solo in «icone inoffensive» ma in turpi coperture di tradi­menti mille volte più cinici di quelli dei Noske e dei Kautsky di lon­tana memoria.

Il nemico socialdemocratico che ci si era tirati in seno si era finalmente presa la sua rivincita: neppure noi, nel lanciare il nostro allarme al II Congresso, avremmo potuto prevedere una così devasta­trice sconfitta. Ma è importante capire che le sue origini risalgono ad una rottura della tradizione bolscevica, forse inevitabile nella stretta di una fase storica come quella di cui abbiamo cercato di ricostruire le pesanti remore, ma dalla quale si sarebbe potuto salvare almeno il germe di una meno difficile e lunga ripresa, se non si fosse smarrito il senso dell’inconciliabilità fra noi e i labour lieutenants of the capitalist class, socialdemocratici e centristi insieme, e dell’abisso scavato dalla storia fra comunismo e democrazia. Se oggi la più infame genia di servitori del capitale può vantare impunemente quanto sconciamente di discendere in linea diretta da Marx e da Lenin, è solo perché - non lo dimentichino le giovani generazioni proletarie - non soltanto quella tradizione è stata bruscamente spezzata, ma, per impedirle di rinascere, la controrivoluzione in veste staliniana ha dovuto distruggere fisicamente il partito che ne era stato in anni di splendore il depositano geloso nella teoria e nell’azione: al suo cannibalismo non sarebbero bastate le esecuzioni e le deportazioni di un Thiers dopo la Comune di Parigi!

Questo va ribadito con forza: il movimento rivoluzionario marxista può rinascere solo a patto di riallacciarsi al filo spezzato della dottrina, del programma, delle finalità, dei princìpi ribaditi al II Congresso di Mosca, in tutti i testi e le proclamazioni che lo precedettero e lo accompagnarono, e, nello stesso tempo, delle deduzioni tattiche e orga­nizzative che allora non si ebbe la forza - come noi auspicavamo - di trarre fino alle conseguenze estreme dal nesso, tuttavia riconosciuto inscindibile, fra ognuno degli anelli della poderosa catena di cui si com­pone l'organo della rivoluzione proletaria - il partito di classe, il partito comunista mondiale. Perciò, quel filo, l'abbiamo riportato in luce dalle scorie della contingenza, riannodandone i capi al disopra di un cinquan­tennio che si era aperto in una luce sfolgorante e si è chiuso nelle tenebre di un conformismo servile, di una codarda ossequienza al fatto compiuto. É su quella sola traccia, salvata nella sua integrità dal generale naufragio, che sarà possibile risalire la china verso un nuovo ciclo di rivoluzioni, vendicatrici dell’Ottobre rosso come di tutti i mili­tanti caduti, noti ed oscuri, dell’emancipazione proletaria.

1) Si ricordi l'articolo Mosca e la questione italiana, cit. a pag. 580.

(2) Cit., pag. 35 (cap. V).

(3) In tedesco Grundfragen der Revolution, ora in Reprint/Feltrinelli.

(4) Ed estese l'allarme al partito bolscevico, minacciato dai due pericoli solo apparentemente opposti di un «miope praticismo ad un polo, di un agitatorismo [ci si consenta il termine] che scivola sulla superficie di tutte le questioni, all’altro», richiamando i compagni, con parole che potrebbero essere state ed essere ancor più oggi le nostre, al dovere indilazionabile di difendere e salvaguardare nei fatti la continuità della tradizione teorica marxista. Op. cit., pagg. XI-XII. Nel 1924, sarà questo il tema centrale de Gli insegnamenti di Ottobre.

(5) Per un riesame critico delle successive forme assunte - prima sul piano tattico, poi su quello strategico e infine anche dottrinale - dalla incipiente «terza ondata opportunistica» del movimento operaio, si veda In difesa della continuità del pro­gramma comunista, cit., e in particolare le Tesi caratteristiche del Partito, parte III, pagg. 149-160, da cui in parte attingiamo.

(6) Per tutta la complessa questione, si veda il nostro testo Bilan d'une révolution, 1957.

(7) Non a caso le grandi «purghe» del 1936 e seguenti coincisero con l'ingresso nella Società delle Nazioni e i fronti popolari all’estero e con l'emanazione della «costituzione più democratica di tutto il mondo» all’interno. É nel Pantheon del democratismo - quando mai lo si capirà? - che deve trovar posto il mausoleo a Stalin. Ben lo sapeva la «Chicago Tribune» del 16.V.1943 quando, unendosi al coro della stampa democratica occidentale per il definitivo seppellimento del cadavere del Comintern, esclamava: «Stalin ha ucciso i dervisci della fede marxista. Ha giustiziato i bolscevichi il cui regno era il mondo e che volevano la rivoluzione universale...».

 

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