Quarant'anni fa, il golpe in Cile annegava nel sangue le illusioni di una “via pacifica al socialismo”. A fronte delle rievocazioni che da più parti vengono riproposte in questi giorni di inizio settembre 2013, tutte incapaci di comprendere ciò che avvenne allora e soprattutto le lezioni che se ne devono trarre (non parliamo poi dell’idea stessa di socialismo, di ciò che esso vuol dire realmente e della via per giungervi), e di tutte le varianti “antimperialiste” e “terzomondiste” che, dopo aver seminato soltanto confusione, si sono ormai dissolte nel nulla, riproponiamo quanto scrivevamo sulle pagine de “il programma comunista” una settimana prima del golpe di Pinochet (n.16 del 5 settembre 1973) e, a caldo, il giorno dopo (n.17 del 12 settembre 1973). A questi due articoli, ne facciamo seguire altri due, di più ampia analisi della situazione cilena prima e dopo il golpe, usciti rispettivamente sul numero 22 del 22 novembre 1972 e sul numero 18 del 27 settembre 1973. Si tratta di testi che sono un buon antidoto al nulla teorico-politico che regna oggi sovrano, ai veleni piccolo-borghesi che appestano l’aria (pacifismo e ribellismo, “comunitarismo” e “francescanesimo”, democratismo e antifascismo) e soprattutto al diffuso rifiuto del partito di classe e della necessità della sua guida nella prospettiva rivoluzionaria.

 

Si tragga da Allende almeno una conferma sulla necessità della violenza e del terrore

Da quando Allende è salito al “potere” in Cile, per l'opportunismo – di tutti i colori e di tutti i paesi – il suo esperimento avrebbe dovuto rappresentare una conferma, anzi la schiacciante dimostrazione, della possibilità di una pacifica instaurazione del socialismo. Da lui si attendeva, insomma, la solenne smentita del “catastrofismo rivoluzionario”, e perciò la rivincita del gradualismo socialdemocratico.

La tesi era già sballata in partenza: nessuno dei progetti – e nessuna delle sue traduzioni in pratica – di Allende era o poteva essere “socialista”; erano tutti provvedimenti non solo compatibili con la sopravvivenza del modo di produzione capitalistico e con le sue sovrastrutture politiche, sociali, giuridiche, ma destinati a consolidarne le basi liberandole dai ceppi di una economia arretrata e di una società corrispondentemente inadatta al pieno sviluppo delle forze produttive moderne – una timida “riforma agraria”, una serie limitata di “nazionalizzazioni” contro indennità, un tentativo – mezz'e mezzo, data la potenza degli interessi costituiti – di svincolarsi dalla pesante sudditanza diretta da compagnie industriali e commerciali nordamericane, non certo dal mercato mondiale in cui il Cile trova il suo polmone. Non si “instaura” il socialismo “in un solo paese” e, anche dato (ma non concesso) che le misure prese o preventivate dal governo Allende potessero definirsi socialiste, la loro “radicalità” presupponeva, per essere spinta a fondo e non restare in superficie, una reale presa del potere, che significa rottura dello status quo, privazione di ogni diritto politico alle classi possidenti – borghesia in senso proprio, proprietà fondiaria tradizionale ecc. – , distruzione dell'intero apparato statale esistente, dittatura di un partito rivoluzionario unico; tutte condizioni che contraddicevano al programma, alle finalità, alla base sociale dell'eterogeneo raggruppamento politico allendista.

Si può concedere che, in un paese con un piede solo nel capitalismo pieno come il Cile, le prime misure dispotiche di un governo rivoluzionario degno del nome di marxista (e quello di Allende non pretende nemmeno di esserlo, anche se ai giornalisti e a chi li foraggia fa comodo presentarlo come tale) siano forzatamente caute e “progressive”, a condizione tuttavia che siano appunto dispotiche, cioè non vincolate a nessuna legge, a nessun “diritto” costituito, meno che mai a diritti di proprietà. La dittatura proletaria non può non essere gradualista in economia; ma il suo è necessariamente un gradualismo radicale che presuppone il rivoluzionamento di tutta una rete di rapporti economici e sociali, quindi l'antigradualismo sul terreno dei rapporti di forza delle classi, e dunque del potere. Tolta questa conditio sine qua non, un governo “operaio” può definirsi come meglio gli garba, ma non costruisce nemmeno le basi del socialismo, si muove sul terreno classico di un timido e irrisorio “raddobbo” del regime esistente.

Ma il letto di Procuste, in cui si dibatte come un malato in preda alla febbre il governo Allende, dimostra qualcosa di più: nemmeno una vigorosa spinta innanzi del capitalismo (giacché tale, e nulla di diverso né di più serio vuol essere il governo di “unità popolare” cileno) è possibile nel quadro del rispetto della legalità di fatto: o questo tentativo assume le forme del giacobinismo, della radicalità rivoluzionaria plebea, del terrore “sanculotto”, del “comitato di salute pubblica”, insomma della violenza esercitata per spezzare i vincoli che ancora tengono stretto il “paese” al suo passato precapitalistico e, per quello che può sembrare un paradosso solo agli orecchianti in marxismo, alla pressione mondiale dell'imperialismo pascolante proprio sull'arretratezza delle strutture economiche e delle sovrastrutture politiche; o, se ciò non avviene, esso è condannato al fallimento perfino nei suoi obiettivi circoscritti, anche se storicamente necessari e fecondi.

Così trionfarono le borghesie inglese e francese; così, benché con altre potenzialità ma con mezzi non per questo meno brutali, trionfarono le borghesie affacciatesi in ritardo in Europa o in continenti extraeuropei, freschi di colonizzazione capitalistica (è quest'ultimo il “segreto” di Mao). Esse non restarono sulla difensiva: attaccarono. Si crearono una loro legalità distruggendo ogni legalismo: non si inchinarono di fronte al diritto costituito e ai suoi difensori secolari o “spirituali”. Allende, questo “presidente costituzionale” che il pennaiolismo mondiale sfrontatamente classifica fra i discendenti di... Marx, non è il lontano pronipote neppure di Robespierre; che diciamo, neppure di Lafayette o di... Brissot. Egli non può vantare in tutta la sua carriera di capo dello Stato che una serie di ritirate, di rinunce, di capitolazioni: oggi, ha nella sua barca consunta gli uomini – nella migliore delle ipotesi – dell'“equilibrio”, i generali indispensabili per mantenere l'“ordine”, cioè per frenare lo scoppio, necessario ed auspicabile, dei conflitti sociali; tratta con la DC; “sfida” solo per burla gli autotrasportatori; subisce in altra forma quella pressione dell'imperialismo, tramite le ferree leggi del mercato mondiale, che aveva preteso di eludere a colpi di innocui decreti; si lascia terrorizzare, invece di praticare il terrore; è prigioniero delle forze che, per definizione, non poteva attaccare senza cessare d'essere se stesso, e se perverrà alla necessità di impiegare il terrore, lo farà soltanto per conservare le riforme moderate e non per imporre la trasformazione dei rapporti sociali in senso borghese-radicale.

La lezione è chiara e, come al solito, ci viene dallo stesso modo di produzione e di vita associata in cui riconosciamo il nostro nemico: perfino per spalancare le porte ad una evoluzione pienamente capitalistica, la violenza è necessaria; se non vi si fa ricorso, trionfa la controviolenza – che è sua sorella, anche se di segno opposto. La legalità uccide: le borghesie consapevoli della loro storica missione l'hanno saputo e lo sanno. L'allendismo è al di sotto della stessa coscienza rivoluzionaria borghese.

I proletari, loro, devono assurgere alla coscienza che quanto è stato ed è vero per le borghesie rivoluzionarie lo è mille volte di più per la classe che esse opprimono e ingannano, anche là dove le premesse economiche del socialismo non esistono ancora o esistono a metà.

(“il programma comunista”, n.16 del 5/9/1973)

La via “pacifica” è una via suicida

Il suicidio (vero o falso che sia) di Salvador Allende, preso nella rete di quelle forze militari – a loro volta strumenti di forze sociali – di cui non solo aveva creduto di poter eludere l'attacco, ma aveva chiesto l'appoggio per “costruire il socialismo” alla cilena, assume un significato emblematico: è la tragica conferma che non esistono “vie pacifiche” non diciamo al socialismo, ma neppure al pieno sviluppo CAPITALISTICO dei paesi rimasti a metà strada fra assetto economico e sociale preborghese e pieno assetto economico, sociale e politico borghese.

Lasciamo ai pennivendoli della classe dominante e ai suoi servi opportunistici di definire “marxista” il regime del presidente spodestato: non v'è NEPPURE UN'ONCIA di marxismo là dove non “si estende il riconoscimento della lotta di classe fino al riconoscimento della NECESSITA' della dittatura del proletariato”. Quello che tentava il suo regime, come quello di tutti i grandi paesi “in corso di sviluppo”, era di superare per via legale e costituzionale le arretratezze, gli squilibri, i contrasti stridenti di una terra in bilico fra il passato e il presente nell'ambito internazionale dell'imperialismo.

E tuttavia, NEPPURE QUESTO è stato possibile col metodo DOLCE, GRADUALE, PACIFICO, PARLAMENTARE, della democrazia interclassista. La violenza che si vorrebbe ELUDERE per scalzare il dominio di forze sociali retrive, necessariamente si ritorce contro chi si è illuso di ammansirla; l'OFFENSIVA cui si vorrebbe non ricorrere contro il nemico, è il nemico stesso a scatenarla; il bollettino di voto che si vorrebbe contrapporre alle ARMI, è stracciato, prima ancora di essere deposto nell'urna, appunto dalle armi; perfino le più timide riforme, là dove conservano ancora un senso, chiedono la FORZA organizzata e centralizzatrice per tradursi in pratica, o da una forza organizzata e centralizzatrice saranno distrutte – ovvero (non è la prima volta nel cosiddetto Terzo Mondo), riprese a carico dai neo-golpisti. Colpa dei democristiani! – urlano PCI e consorti; oppure: Colpa di colonnelli fascisti! No, signori: colpa di chi crede e fa credere di poter costruire qualcosa di meno squallido dello status quo nel dialogo e perfino nell'accordo con preti, borghesi, bottegai e sbirri!

Non si può chiedere al boia di fare l'opposto del suo mestiere. Il PCI trae dalla vicenda allendista la lezione che è necessaria “l'unità di tutti i democratici”: ma è proprio questa unità che consegna la classe operaia, mani e piedi legati, ai suoi oppressori. E la tragedia cilena non è ora che ci vada di mezzo la democrazia, ma che gli spietati colpi d'ariete dei militari si abbattano su proletari e contadini poveri, troppo a lungo cullati nel mito di un'emancipazione “indolore”.

Chiusasi nel suicidio la “via cilena al capitalismo integrale”, sarà la guerra civile? O quelle stesse forze popolari su cui parzialmente si reggeva Allende mostreranno di essere state narcotizzate e rese impotenti ed inermi dall'illusione legalitaria e pacifista, al punto di non sapere né potere reagire? Nell'un caso o nell'altro, la decisione è legata, inesorabilmente, alla spada. Si tragga almeno dalla tragedia allendista – avevamo scritto quindici giorni fa nel presagio di quanto maturava nel grembo della storia – la conferma della necessità della violenza rivoluzionaria e del terrore! Apprendano la dura lezione i proletari delle grandi metropoli imperialistiche, le plebi contadine ed operaie dei paesi “arretrati”!

Non c'è, non può esserci, via di mezzo.

(“il programma comunista”, n.17 del 12/9/1973)

 

 

 

 

Cile, ovvero l'utopia reazionaria dell'“Unione popolare"

Il conflitto che ha opposto lo stato cileno alla piccola borghesia dei trasporti, e non soltanto ad essa, e che il presidente Allende può credere di aver risolto imbarcando nel carrozzone governativo due generali, rimette in chiara luce la questione dell'alleanza del proletariato con le classi medie, dissipa le illusioni che tutti i "fronti popolari" hanno il compito essenziale di alimentare, e svela, se ve ne fosse ancora bisogno, il loro ruolo controrivoluzionario.

La posizione rivoluzionaria

Per il partito marxista, la questione è posta in modo inequivocabile: il proletariato rivoluzionario non può garantire la proprietà della piccola borghesia e promettere il libero sviluppo della sua produzione, che costituisce la base stessa del capitalismo. Il socialismo si propone al contrario di liberare l'umanità da ogni sorta di proprietà, grande o piccola, perché è il solo modo di abolire la schiavitù salariale. È vero che, in quest'opera di emancipazione, la rivoluzione socialista ucciderà il vampiro capitalista che si nutre egualmente del lavoro di molteplici strati piccolo-borghesi; e che, in tal modo, li libererà dall'oppressione cui questi ultimi sono soggetti. È dunque vero che, obiettivamente, questi strati hanno interesse alla rivoluzione proletaria, come è altrettanto vero che i comunisti si sono sempre sforzati di trascinare al proprio seguito e riunire intorno al proprio programma i semiproletari delle città e delle campagne, contadini o artigiani rovinati, che spesso vivono in modo ancor più miserabile del proletariato propriamente detto. Conquistato il potere, il proletariato rivoluzionario libererà immediatamente del peso dei suoi debiti la piccola borghesia decaduta, in qualche caso distribuirà la terra ai contadini poveri, incorporerà tutta la mano d'opera disponibile nel sistema di produzione diretto centralmente dal potere comunista, in modo da liberare i lavoratori dall'antica schiavitù salariale.

Ma un simile programma non si rivolge ai piccoli borghesi "arrivati", che il partito marxista si sforza tutt'al più di neutralizzare. Nel Cile, per esempio, si contano 730 mila "lavoratori indipendenti", artigiani, piccoli e medi coltivatori, imprenditori del commercio e dei trasporti, la metà dei quali non guadagna molto di più degli operai. È a questa metà che la realizzazione del programma proletario e comunista assicurerebbe, in caso di vittoria rivoluzionaria, la sopravvivenza immediata, grazie a radicali interventi nei rapporti di proprietà borghese.

Certo, in date condizioni, come nella Russia arretrata del 1920, i comunisti hanno dovuto tollerare e subire uno sviluppo dell'economia piccolo-borghese (NEP) per conservare il potere politico e fornire aiuto alla rivoluzione mondiale, ma non hanno mai teorizzato quella che non era una "via originale" al socialismo, ma semplicemente uno sviluppo dell'economia mercantile indispensabile per la ripresa di un'economia non soltanto immatura per il socialismo, ma completamente sconvolta e rovinata. Il partito marxista non si rifiuta quindi di utilizzare il potenziale di aggressività anticapitalistica dei ceti medi poveri e sfruttati, di cui d'altra parte è il solo in grado di migliorare le sorti. Ma non fa nessuna concessione alle bramosie ed illusioni dei piccoli borghesi legati alla loro proprietà privata e se, nelle difficili condizioni di un paese arretrato, è costretto a rinunciare a qualcosa, non è per rispetto verso "diritti acquisiti", ma al solo fine di mantenere il potere politico e così poter continuare la lotta per la rivoluzione internazionale.

Illusioni e tradimenti dei riformisti

Tutt'altro significato ha per i partiti operai borghesi, nel Cile come altrove, l'alleanza del proletariato con le classi medie. Zelanti servitori della proprietà, dell'ordine e della legge, essi non hanno alcun desiderio di abolire il capitalismo. Ciò non impedisce loro di attirare degli operai, ma anche là dove la classe operaia è più numerosa, essa non può offrir loro una base sufficiente, perché la politica riformista esercita, prima o poi, su alcune delle sue frazioni un effetto scostante. Essi cercano quindi l'appoggio della piccola borghesia ostile al grande capitale, e in cambio dei suoi voti le promettono prosperità e benessere, idealizzando in modo grossolano la sorte che il capitalismo le riserva. Per il fatto stesso del loro fondamentale conservatorismo, tuttavia, è agli strati superiori della piccola borghesia che essi si rivolgono; e, per attirarsene le simpatie, non esitano neppure a soffocare e reprimere le lotte operaie nelle piccole e medie aziende.

Nel Cile, la questione è importante, perché queste piccole e medie aziende, che assommano a 35 mila, occupano la maggioranza dei proletari. Ecco perché l'Unione popolare cilena si sforza di disarmare le lotte operaie predicando l'unità con la piccola borghesia ricca pur pretendendo che, se il proletariato non tiene ancora saldamente in mano il potere, vi è tuttavia sufficientemente "rappresentato".

I partiti operai borghesi non hanno però l'esclusività di questo interesse acuto per la piccola borghesia. La grande borghesia e i proprietari fondiari fanno a gara nel tentativo di attirarsi le simpatie di quelle classi medie che sole possono fornire il grosso delle truppe della reazione borghese. I dati sulla popolazione attiva nel Cile mostrano l'importanza della posta in gioco, perché 730 mila "lavoratori indipendenti" e 450 mila addetti al settore "terziario" vi fanno fronte a 1 milione di proletari nelle città e 700 mila nelle campagne. È per attirarli che la destra, il Partito nazionale, lancia fulmini e tuoni contro quello che chiama "il marxismo al potere", mentre è chiaro come il sole che si tratta soltanto di un volgare riformismo.

Finché Allende, i "socialisti" e il PC riusciranno a contenere le rivendicazioni del proletariato e dei contadini poveri "sviluppando la nazione" sulle loro spalle, la borghesia, che ha buon fiuto, li tollererà. Ma, se l'azione anticapitalista del proletariato dovesse prevalere sulla fraseologia di sinistra del governo, la reazione scenderebbe in campo armata fino ai denti. Questa possibilità turba necessariamente i sonni degli attuali governanti del Cile, che si sforzano di attenuare la crisi, ma sanno molto bene che né i loro sforzi di conciliazione né le teorie dei "socialisti" e comunisti" cileni sulla conquista pacifica dello Stato borghese hanno minimamente eliminato i pericoli di uno scontro con la destra. L'avvenire dipende dall'atteggiamento rispettivo del proletariato e delle classi medie. Se il primo passa all'offensiva sotto la spinta della crisi, bisognerà pure armare i ceti medi per sventare la minaccia. La destra e i riformisti rivaleggiano già in questa turpe bisogna. Fate che la piccola borghesia si sposti nel campo della destra, e la vittoria del "golpismo" è assicurata. Se invece sostiene l'Unione popolare, sarà in ogni caso il braccio armato della legalità borghese contro il proletariato e i contadini poveri. Per il proletariato, la controrivoluzione quindi ha un doppio volto: quello della grande borghesia e dei grandi proprietari fondiari, che attendono il minimo passo falso del governo di Unità popolare per passare all'azione e reprimere con la violenza il proletariato; quello del Fronte popolare, della sua ossessione legalitaria e di collaborazione di classe. Nella prima fase della crisi cilena, dopo il 1970, la piccola borghesia si è piuttosto orientata a sinistra e la grande borghesia si è trovata relativamente isolata. Ma, come mostrano gli avvenimenti recenti, la partita è lungi dell'essere chiusa.

"Presidente marxista" o democratico cristiano di sinistra?

Godendo dell'appoggio dei sei partiti dell'Unione popolare ("marxisti", cioè socialisti e nazionalcomunisti, e non "marxisti", cioè radicali, e democratici cristiani di sinistra), il presidente Allende è stato eletto il 4 settembre 1970 col 36.3 per cento dei voti. Si può dire che egli ha approfittato delle divisioni interne della destra e dell'indecisione dei ceti medi, giacché è proprio la Democrazia cristiana, rappresentante i settori dinamici della borghesia e della piccola borghesia, che ha permesso la sua conferma parlamentare alla presidenza della repubblica.

Contrasti cileni: un sedicente "presidente marxista" e un parlamento conservatore! Solo dei democratici incancreniti possono rallegrarsi di questo... "tiro mancino" del popolo alla borghesia. L'Unione popolare, in realtà, è nelle braccia della Democrazia cristiana, e vi si trova perfettamente a suo agio. La somiglianza fra i programmi delle due formazioni politiche è completa: lotta contro la disoccupazione, costruzioni in grande di case, riforma agraria "radicale", recupero di una parte determinante degli utili dell'industria estrattiva del rame da parte dello stato. Ma a questo bel piano si accompagna, con l'Unione popolare, un verbalismo rivoluzionario tagliato su misura per soddisfare il malcontento dei diseredati.

Certo, la Democrazia cristiana si è dimostrata incapace di applicare il suo programma di salvataggio della pace sociale: tutto ciò che ha raccolto fra il 1964 e il 1970 sotto la presidenza di Frei è l'aggravamento della miseria del popolo cileno e, dal 1967, la mobilitazione del proletariato e dei contadini poveri; ma l'Unione popolare non ha fatto e non farà molto di più e se, ciò malgrado, presenta un vantaggio agli occhi della borghesia, è unicamente quello della possibilità di rimettere per qualche tempo il proletariato cileno al lavoro. Se la borghesia ha accettato l'ascesa di Allende al potere, è perché non aveva scelta: la soluzione della crisi era possibile soltanto lanciando il paese in uno sviluppo capitalistico accelerato, e tale era appunto lo scopo delle riforme proposte dal presidente. Queste si sviluppano in tre direzioni:

1.       Concentrazione del capitale fondiario, eliminazione del latifondismo, aumento della produttività agricola. Per la borghesia, il vantaggio è triplice: riduzione delle importazioni di derrate alimentari che pesano sulla bilancia commerciale, mentre la terra cilena può nutrire una popolazione tre volte superiore all'attuale; apertura di un mercato interno all'industria locale; consolidamento di uno strato di medi proprietari molto produttivi, che sostengano la repubblica borghese e reagiscano energicamente alle pretese dei contadini poveri.

2.       Nazionalizzazione degli investimenti stranieri, soprattutto nelle miniere, alla quale pochissimi si sono opposti. Lo stesso parlamento cileno ha inforcato il cavallo antimperialista e denunziato all'unanimità il saccheggio delle "ricchezze nazionali" ad opera delle società Usa. La colossale rendita mineraria deve ormai passare nelle mani dello stato e servire agli "investimenti produttivi".

3.       Nazionalizzazione dei "150 monopoli" legati al capitale straniero che opprimevano letteralmente gli imprenditori cileni fornendo loro materie prime, attrezzature e crediti a tasso elevato, e comprandone la produzioni ai prezzi più bassi.

Non si può che sorridere di fronte alle dichiarazioni di Allende "sull'originalità delle vie cilene al socialismo", perché queste misure sono non solo specificamente borghesi, ma talmente necessarie alla borghesia per venire a capo della crisi, che esse si imporranno a tutti i partiti, di destra come di sinistra. Quando Allende dichiara: "Noi camminiamo senza guida su un terreno ignoto", noi rispondiamo: “Menzogna!”. Già nel 1964 la piccola e la media borghesia avevano fissato il programma dell'Unione popolare; già allora, la chiesa invitava il "popolo" a non "scegliere né il capitalismo né il collettivismo, ma una via democratica di riforme sociali", compresa una riforma agraria "conseguente". E non è forse questo il programma del "presidente marxista"? D'altronde, la chiesa ha dato l'esempio distribuendo le proprie terre...

Quanto alle nazionalizzazioni, già prima del 1970 il 40 per cento dell'industria cilena faceva parte del settore statizzato, avendo la borghesia perfettamente capito che il rilancio del capitalismo cileno presuppone un vigoroso impulso all'accumulazione del capitale di stato. Invano si cercherebbe in tutto ciò anche solo una briciola di "socialismo". La partecipazione del Pc e del Ps cileni al governo garantisce al contrario che uno sforzo massimo sarà fatto per incitare il proletariato a "vincere la battaglia della produzione" invece di sprecare le sue energie... nella lotta di classe.

La grande collera della piccola borghesia cilena

È duro da digerire per i piccoli borghesi, ma lo sviluppo capitalistico passa attraverso la loro eliminazione economica, più o meno rapida, secondo l'intensità dello sviluppo borghese. È questa una legge del mercato, della concorrenza, una legge del capitalismo del tutto insensibile alle promesse elettorali dei partiti operai borghesi.

Nel Cile, quelli che Marx chiamava "gli antagonismi secondari" fra gli interessi del capitale e quelli della piccola borghesia sono esplosi con violenza mostrando il carattere non solo reazionario ma utopistico di quelle promesse. Per sviluppare il commercio interno diminuendo nello stesso tempo i costi di trasporto, Allende aveva preventivato la creazione di una compagnia statale dei trasporti, giacché la concentrazione spontanea dei capitali in questo ramo era una via troppo lenta e troppo anarchica per rispondere alle esigenze dello sviluppo capitalistico. Sotto la minaccia di una rovinosa concorrenza e delusi nelle speranze suscitate dalla stessa Unione popolare, i trasportatori hanno risposto con un potente movimento di sciopero al quale si è unita una folla di malcontenti delle classi medie, piccoli commercianti e perfino medici, dentisti e studenti liceali. Per ora il "match" è finito alla pari, perché Allende ha dovuto in parte cedere, ma le cose non possono finire qui.

Da un lato l'Unione popolare non può fare a meno dell'appoggio delle classi medie, tanto più che, come mostra l'ultimo sciopero degli operai dei cementifici di stato, non è affatto sicura della sua popolarità nelle file della classe lavoratrice; dall'altro, la sola ragione della sua presenza al potere è che serve nel modo migliore lo sviluppo capitalistico cileno. Ora, a questo fine non basta che dia a un proletariato combattivo l'illusione che la borghesia non detenga più le redini dello stato o che non le detenga più da sola; è anche necessario che favorisca con misure economiche concrete l'accumulazione del capitale. Una contraddizione così stridente rischia di distruggere l'Unione popolare, perché la piccola borghesia, ansiosa di salvare la propria esistenza di classe media, non può non resistere al capitalismo di stato, mentre il governo, che ha bisogno della piccola borghesia per svolgere la sua funzione antiproletaria, è costretto dalla stessa logica alla quale obbedisce a proseguire appunto in questa via.

Comunque, sia che il maledetto fronte unico delle "classi popolari" vada in pezzi, sia che trascini ancora per qualche tempo la sua faticosa esistenza, una cosa è certa: solo una minoranza della piccola borghesia si salverà economicamente; il resto andrà in rovina malgrado le promesse fallaci dei riformisti, e andrà ad ingrossare le file del proletariato, sola classe capace di instaurare il socialismo.

L'Unione popolare, utopia reazionaria

Dopo due anni di "socialismo cileno" al potere nulla di fondamentale è cambiato nell'economia del paese. L'aumento dei salari concesso dal governo ha interessato soltanto la minoranza del proletariato che lavora nel settore nazionalizzato, ed è stato annullato dall'inflazione. Passata l'euforia della vittoria, Allende e i suoi ministri "comunisti" hanno chiesto agli operai di rivendicare un po' di meno e di rimboccarsi un po' di più le maniche. Quanto alla riforma agraria, non solo essa si svolge all'insegna dell'indennizzo degli ex proprietari, ma si insabbia nelle solite lungaggini amministrative. Contro le espropriazioni operate dagli indiani Mapuches, proletariato miserabile di oltre 300 mila persone politicamente inutilizzabile per la borghesia cilena di cui è il nemico mortale, il governo ha difeso i coloni agiati del Sud. E, piuttosto che distribuire gratuitamente la terra ai 700 mila contadini miserabili che la coltivano, Allende ha preferito distribuire dei posti dirigenti nel settore nazionalizzato ai militari dello stato maggiore: ecco il "socialismo" cileno!

Eppure, perfino le direzioni delle frange più radicali del proletariato e del contadiname (come il Mir) hanno finora accordato un "appoggio critico" all'Unione popolare, cioè a un carrozzone che merita soltanto di essere distrutto. Contro i proletari e i contadini poveri radicalizzati da condizioni di vita estremamente dura, quest'ultima ha infatti utilizzato le vecchie ricette del riformismo: la canalizzazione dell'energia rivoluzionaria contro alcuni strati della borghesia ritenuti "parassitari" o denunciati come "fascisti" per meglio conservare il modo di produzione capitalistico; l'appello alla "lotta contro il monopolio" allo scopo di far passare per socialismo il super-monopolio del capitalismo di stato; infine, il richiamo all'unità di tutto il popolo, contro l'imperialismo americano, come se non solo il proletariato, ma la maggior parte della stessa piccola borghesia potesse attendersi una qualsiasi emancipazione sociale da uno sviluppo del capitalismo nazionale!

Nell'era in cui la grande collera della stessa piccola borghesia vibra un colpo mortale all'utopia secondo cui la "Unione popolare" permetterebbe di superare gli antagonismi di classe, non sorgeranno nel Cile dei comunisti autentici per vibrare altri colpi mortali alle dolciastre menzogne che la presentano come rivoluzionaria, e per agitare il vero programma proletario: rottura col progressismo democratico e popolare – costituzione in partito indipendente nei confronti delle classi medie – lotta per la presa rivoluzionaria del potere e per il socialismo, in collegamento con la classe operaia internazionale?

("Il programma comunista", n.22, 22/11/1972)

NESSUNA CLASSE PUÒ VINCERE SENZA RIVOLUZIONE VIOLENTA,

NESSUNA PUÒ CONSERVARE IL POTERE SENZA DITTATURA E TERRORE

La tragedia cilena risolleva con asprezza tagliente l'aggrovigliata questione del corso e del destino storico dei paesi nei quali le lotte di un proletariato non molto numeroso né molto concentrato – ma combattivo nella stessa misura in cui si accumulano, si intrecciano e si moltiplicano le contraddizioni economiche e gli antagonismi sociali propri di quelle aree – e di un piccolo e piccolissimo contadiname misero e disperso, si svolgono sullo sfondo del tenace persistere di rapporti di proprietà e di gestione arcaici nelle campagne, del tardo e fragile impianto di un'industria capitalistica nelle città, della mano pesante dell'imperialismo che di quella arretratezza e di questa fragilità è insieme il beneficiario e un fattore, e sotto la nefasta cappa di piombo della controrivoluzione, socialdemocratica e stalinista, mondiale.

La prospettiva marxista del 1848 e 1850

Nel Manifesto del 1848, Marx ed Engels delineano per i paesi, come la Germania, che sono "alla vigilia della rivoluzione borghese" e la compiono "in condizioni di civiltà generale più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l'Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel secolo XVIII", un ciclo storico attraverso le cui fasi, mai tappe in sé concluse ma sussulti giganteschi di un'unica reazione a catena, il modo di produzione capitalistico e le sue sovrastrutture politiche e giuridiche eromperanno spezzando violentemente l'involucro feudale che tiene ancora imprigionate le forze produttive, consolideranno il loro dominio, spazzeranno via gli ultimi relitti del passato e – loro malgrado – schiuderanno le porte alla rivoluzione proletaria. Il nocciolo di questa visione, nella cui sequenza la grande borghesia soppianta una feudalità sopravvissuta a se stessa, la piccola borghesia radicale ne raccoglie le bandiere frettolosamente ammainate e le porta un altro passo avanti nell'opera di sgombero delle strutture arcaiche, la classe operaia già sua alleata la prende alla gola innestando la propria rivoluzione sul tronco dell'altrui, per seppellirla sotto il suo peso; il nocciolo di questa visione non è la rapidità più o meno grande del suo snodarsi successivo, ma da un lato, la sua necessità e irreversibilità materiale, dall'altro il carattere violento, esplosivo, catastrofico, di ognuno dei suoi trapassi, alto su tutti per terrificità di potenziale rivoluzionario l'ultimo, quello proletario e comunista.

La sconfitta del 1848 non altera il quadro nei suo tratti necessari, ma – come nel bilancio redatto da Marx ed Engels due anni dopo nell'Indirizzo alla Lega dei Comunisti – riduce il potenziale eversivo della seconda fase aumentando nella stessa misura il potenziale rivoluzionario della terza. Salita al potere, ma terrorizzata dalle forze sociali tumultuanti che ha messo in moto e alla cui fiera determinazione di combattere o morire deve la vittoria, la grande borghesia capitalistica si è rifugiata in una rinnovata alleanza "col partito feudale assoluto": è la piccola borghesia repubblicana, pronta a chiamarsi "rossa" e "democratico-sociale", a raccoglierne malamente l'eredità nella pavida ricerca di una via costituzionale ad una trasformazione della società vigente che la renda, per lei e per i suoi alleati, i contadini, "più comoda e tollerabile". Rifiutandosi di decadere ad "appendice della democrazia ufficiale", stretto in "organizzazione indipendente, segreta e pubblica", dotato di armi proprie, deciso "a rendere il più che possibile difficile, e a compromettere per quanto sta nelle sue forze il momentaneo ed inevitabile dominio della democrazia", diffidente non più verso "il vinto partito reazionario, ma verso i propri alleati di ieri", il proletariato – che in tutto il processo ha agito di stimolo costante per "portarlo fino in fondo" – risalirà le barricate al grido della "rivoluzione in permanenza", pronto a caricarsi sulle spalle i compiti economico borghesi lasciati inadempiuti dalla democrazia cosiddetta radicale e, "in coincidenza con la vittoria diretta della classe operaia in Francia", ad affrettare il "lungo processo rivoluzionario", di ascesa al potere e di soddisfazione dei propri esclusivi interessi, sulle macerie – borghesi non meno che pre-borghesi – del passato.

E tuttavia, anche in questo ciclo ad energia assopita nella parte intermedia e ridotta a zero nella prima, non c'è fase che non si tinga del rosso del sangue: l'evoluzione non prende mai il "corso pacifico" che pure è nei sogni della grande borghesia, fresca dell'aver scaricato sulla controrivoluzione feudale l'odiosità delle "misure di violenza" e non d'altro ansiosa che di goderne in pace, persino fra il coro osannante delle plebi, i frutti copiosi; come anche è nei sogni della piccola borghesia costituzionale, per "avanzati" che ne siano i programmi. Non lo prenderà: la missione storica lasciata a mezzo dalla democrazia radicale verrà assolta da borghesi e junker uniti – col pugno di ferro di Bismarck e il rullo compressore delle armate di Moltke. Mezzo secolo dopo, la classe operaia tedesca insorgerà allo storico grido, e sarà sconfitta. Il gigantesco "film" del 1848-1850 verrà girato fino all'ultimo, fino all'epilogo smagliante dell'Ottobre – protagonista il proletariato – in Russia.

Ritardo e fragilità del "decollo" capitalistico nel Cile

Se c'è un'“originalità” nella ascesa borghese e capitalistica in Cile e, in genere, nell'America del Sud, essa sta nel fatto – dovuto a cause non certo... etniche, ma duramente materiali – che l'arco storico previsto da Marx e da Engels nel 1850 vi si è svolto non solo al rallentatore, ma ad ancor più bassa energia che nell'Europa centrale del secolo scorso e degli inizi dell'attuale.

Gli squilli della storiografia idealistica celebrano l'avvenuta "formazione dello Stato nazionale" in Cile oltre centocinquanta anni fa, prima della corrusca Germania, prima della ruffianesca Italia. Ma l'episodio è talmente formale, così privo di contenuto, che i rapporti di proprietà tradizionale e le forme di gestione aziendale arcaica in un paese totalmente agricolo ed esportatore di materie prime vegetano ancora per cent'anni, pascolo ubertoso prima dell'imperialismo inglese affamato di derrate alimentari e di salnitro, poi dell'imperialismo americano affamato di rame ed esportatore di derrate alimentari là dove un tempo queste si esportavano. Su questo telone grigio, antidiluviano, la democrazia, "una delle prime del mondo" (si è scritto con orgoglio in questi tempi di senilità borghese), proietta il suo film... pubblicitario: dietro le quinte, pietrificato in una squallida esistenza da semicolonia anglosassone, dorme un sonno non turbato che da bruschi ma passeggere sussulti, il latifondo.

Bisogna aspettare il primo dopoguerra perché un esile filone di industrialismo capitalista metta radici: ma non va oltre l'industria leggera, presenta un settore dominante di imprese piccole e medie, vivacchia sulle strutture agrarie anchilosate senza intaccarle oltre la superficie, paga agli USA nel prezzo del rame "nazionale" la rendita mineraria, geme e suda sotto il peso dei debiti esteri, dà il benvenuto – bestemmiando – al capitale yankee e alle sue ed altrui "società multinazionali". Non c'è capitalismo industriale senza mercato interno; non c'è mercato interno degno di questo nome senza rivoluzionamento dei rapporti di proprietà e di produzione nelle campagne, e questi, sotto la vigile scorta dell'imperialismo, sopravvivono – in una decadenza che ne aggrava l'improduttività e funge da ulteriore inciampo all'erompere delle forze produttive: l'agricoltura cilena è tutt'oggi in alto grado di mera sussistenza, i suoi prodotti non raggiungono il mercato. I "momios" (mummie, cioè i grossi agrari), certo, campano altresì di usura, di transazioni commerciali, di speculazioni in titoli (esteri, che diavolo: la patrie au fumier!): i nostri Gattopardi ne sanno qualcosa. Soprattutto, campano su quell'imperialismo che insieme li protegge e li asfissia: decadenti sono, ma "organizzati": hanno le loro guardie bianche, i loro reparti dell'esercito (altra gloria della storiografia idealistica in questi giorni di Beozia: "il solo esercito rigorosamente costituzionale dell'America del sud", chissà come e perché bruscamente convertitosi "all'incostituzionalità" nel cambio della guardia da Prats a Pinochet), le compiacenti batterie da marina e da... borsa degli Stati Uniti. Ma tutto ciò non cambia la fisionomia sociale della classe; ne aggrava, semmai, il parassitismo.

È sotto il pesante fardello di questa arretratezza cronica nelle campagne e del suo "congelamento" ad opera dell'imperialismo già inglese, poi americano, che arranca la borghesia industriale, ansiosa di liberarsene, divisa fra il desiderio di scrollarsi di dosso la palla di piombo del latifundio-minifundio e il fardello dei debiti verso l'estero e della rendita mineraria da un lato, e il bisogno di solidi appoggi finanziari yankee dall'altro, terrorizzata dalle forze che essa stessa e l'evolvere mondiale del capitalismo evocano e gettano sull'arena politica e sociale: i piccoli e piccolissimi contadini assetati di terra, i salariati di industria e, per quel tanto che esistono, dei campi, spremuti sotto la macina di una lenta e tanto più gravosa accumulazione originaria.

Quello che gli ideologi borghesi chiamano "il potere", e che per noi è soltanto il governo, passa negli anni sessanta nelle mani della "gracile" borghesia industriale stretta intorno alla Democrazia cristiana: visto alla luce della drammatica sequenza delle rivoluzioni borghesi – non "inventata" ma registrata da Marx ed Engels, – il trapasso dovrebbe essere violento, e non lo è: è pacifico, parlamentare, democratico. L'“epopea” della "formazione dello Stato nazionale" aveva avuto il suo Bolivar: la batracomiomachia dell'essor capitalistico-industriale non ha neppure l'ombra remota di un Cromwell, non diciamo di un Saint-Just o di un Robespierre, non diciamo nemmeno di un Washington o di un Bismarck; per restare in "ambiente", di un Mao; per non chiedere troppo, di un Castro. Né patibolo, né ghigliottina, né cannoni accompagnano la marcia tutt'altro che eroica della borghesia "progressista"; le sue armi non sono gli "interventi dispotici" il cui esempio le borghesie rivoluzionarie lasciano in non voluta eredità ai proletari perché le rivolgano contro esse stesse, ma i pezzi di carta di innocui decreti parlamentari: il vecchio apparato statale rimane intatto; l'esercito "serve" e tace – il silenzio è d'oro! –, la riforma agraria di Frei – che contempla l'esproprio contro indennizzo delle terre scarsamente produttive al di sopra degli 80 ettari per assegnarle ai contadini (insieme, e spesso in maggior misura, a terre demaniali) – non solo non si realizza che in minima parte (e del resto, quand'anche andasse in porto, interesserebbe poco più di un quinto del territorio agricolo), ma, mentre permette agli ex proprietari – che, fra parentesi, hanno già provveduto a disfarsi del bestiame – di investire i quattrini ottenuti in rimborso in più redditizie imprese commerciali o industriali, non riesce né a fissare al suolo se non un piccolo strato di coltivatori privi di un minimo di attrezzature né, appunto perciò, ad impedire che il già elevatissimo tasso di inurbamento salga alle stelle; l'indebitamento verso l'estero sia per gli approvvigionamenti alimentari ognor più deficitari che per gli indispensabili beni strumentali, tocca punte vertiginose; infine, la borghesia industriale "al potere" non osa neppure quella nazionalizzazione delle miniere di rame (prezioso bene di grandi compagnie USA) che, in teoria, dovrebbe sollevarla dal peso e... dall'onta della rendita mineraria codardamente subita. Ci vuol altro, per un serio "decollo" dell'industrializzazione capitalistica!

Urge dunque un "passaggio di mano", e a chi – data la presenza di un proletariato il cui peso specifico è superiore a quello della Germania 1850 e di un piccolo contadiname riottoso, famelico di pane e di terra; due classi che si tratta insieme di utilizzare per una politica un po' meno guardinga e rispettosa e di contenere nelle loro periodiche esplosioni di impazienza – se non ad un amalgama di radicali piccolo-borghesi, intellettuali "antimperialisti", socialdemocratici, “comunisti”-nazionali, ed altre frange più o meno "ribelli"? Nello schema classico, la separazione dell'ala "democratico-progressista" dal corpo della borghesia, assume, almeno alle origini, aspetti di rottura: nella sua edizione cilena, è un passaggio di poteri non solo indolore ma ultraconformista, benedetto dal responso dell'urna e sancito dalla sovrana maestà della legge: esce un presidente, se ne fa un altro. Già tutto combinato, prima della "consegna": in forza dello "statuto delle garanzie" sottoscritto dalla Democrazia cristiana e dall'Unione popolare, "noi [cioè l'una e l'altra, grossa borghesia industriale e democrazia piccolo-borghese] vogliamo uno stato di diritto senza interferenze di altri organi di fatto che agiscano in nome di un sedicente potere popolare [mani avanti: non vogliamo, chissà mai, neppure lo spettro dei soviet]... Vogliamo che le forze armate e i corpi di carabinieri [i futuri eroi del "golpe"] continuino ad essere una garanzia del nostro ordine democratico, il che implica il rispetto delle strutture organiche e gerarchiche dell'esercito e della polizia... a salvaguardia del regime di proprietà e del funzionamento dei mezzi di informazione"!

Da Frei ad Allende

C'è di più (ed è il peggio!): nello schema classico, consegnato alla storia nell'Indirizzo di Marx-Engels, sul pavido corso della democrazia radicale veglia dall'esterno, spingendolo avanti, forzandolo a misure sempre più energiche, obbligandolo non solo a "mantenere le premesse" ma a rincararne via via la dose – "alleata" scomoda, mai serva e neppure amica conciliante – la classe operaia "armata e organizzata in modo indipendente". Nella versione cilena, il proletariato è guidato dalla controrivoluzione socialdemocratica e staliniana a camminare a rimorchio della nuova costellazione popolare, di cui condivide le responsabilità di governo: non indipendente ma subalterna; non armata ma sottomessa al solo potere in armi, l'esercito di stato; non pungolo ma freno; non decisa "a mettere avanti la questione della proprietà, abbia essa raggiunta una forma più o meno sviluppata [ed è il "meno" che predomina sul "più" in Cile], come la questione fondamentale del movimento", ma forzata a proteggere i rapporti di proprietà "legittimi"; non spinta a scavalcare i limiti dell'ordine costituzionale vigente, ma costretta ad osservarli. Già pavida, irresoluta, tentennante di fronte all'intero spettro delle classi dominanti e dell'imperialismo, la democrazia "radicale" di Allende non trova neppure alla sua estrema periferia la forza propulsiva, insistente, perennemente critica, gagliardamente in armi, del proletariato – a tal punto imperialismo USA e controrivoluzione nel segno di Stalin convergono, perfino nell'impedire la "modernizzazione delle strutture economiche e sociali" in senso pienamente borghese!

In questo incrocio di un imbelle pacifismo interno e della sudditanza a poderose forze esterne di conservazione sociale (due smentite in una volta sola: niente via pacifica! niente via nazionale!), è la chiave del ciclo radical-democratico del "decollo capitalistico cileno" – di un regime statisticamente popolare e perfino plebeo, ma organicamente incapace di audacia sanculotta; che elude la violenza solo per subire la violenza; che rifugge da misure dispotiche solo per capitolare di fronte al dispotismo; che non attacca solo per precludersi la stessa difesa; che venera la legge e l'ordine solo per ritrovarseli davanti sulla bocca delle mitragliatrici e dei cannoni; che predica la pace solo per attirarsi la guerra. Come può, un amalgama di questo genere, affondare il bisturi nel corpo malato dell'economia e della società cilena?

La nuova riforma agraria porta un passo avanti quella di Frei, non ne modifica il corso: applicata per "tappe", rispettosa dei diritti di proprietà – del suolo oltre che delle macchine e del bestiame – , essa lascia ai proprietari fondiari il tempo e il modo sia di sfuggirle sia di sabotarla aggravando il marasma del vettovagliamento delle città; crea delle cooperative agricole, ma di soli inquilinos, e lascia al margine i contadini poveri e la grande massa dei lavoratori stagionali senza terra; non mette freno, perché non dà ai piccoli e piccolissimi coltivatori i mezzi e gli strumenti materiali necessari, né alla peste cronica dell'inurbamento, né a quella del costante declino della produttività; nata e cresciuta all'insegna della legge, condanna non solo nelle parole ma negli atti - cioè con la repressione poliziesca – l'occupazione "illegale", anche sporadica, delle terre: "Occupare le terre – risponde Allende a un delegato spintosi incautamente fino a insinuare che solo la mobilitazione dei contadini è in grado di paralizzare il quotidiano sabotaggio degli "agrari" – è violare un diritto", e aggiunge, con parole che oggi hanno un sapore tragico: "e i lavoratori devono capire di far parte di un processo rivoluzionario che noi stiamo realizzando con un minimo di sofferenze, con un minimo di morti, con un minimo di fame"! (citato in Labrousse, L'expérience chilienne).

L'Up interviene, certo, nell'attività industriale ampliando il settore misto e nazionalizzato, introducendo il controllo del credito, riunendo nelle mani dello stato le diverse branche destinate a concorrere alla formazione dell'industria pesante, e infine incamerando il 49% del capitale minerario lasciato da Frei alle compagnie americane Anaconda e Kennecott durante il primo turno, pacifico e legalitario come il secondo, di nazionalizzazioni per decreto-legge. Lo fa, e lo paga caro: non solo con l'impegno ad assumersi il rimborso della prima metà del capitale investito nelle miniere, ma con il riconoscimento di un debito estero accumulato oscillante sui 3.8 miliardi di dollari e col rifiuto dell'istituzione del monopolio del commercio estero, e più ancora con la precipitosa caduta delle quotazioni del rame sul mercato mondiale. Servile verso la grande borghesia industriale, codardo verso la piccola borghesia commerciante e bottegaia, trepidante per le "selvagge" impennate di contadini senza terra e di operai scioperanti lungo la... via del socialismo, rispettoso dei sacri impegni verso i creditori imperialistici come verso i proprietari fondiari assenteisti, ma fiero di avere con sé al governo socialisti e “comunisti” e di aver scoperto una via originale, senza vittime né sofferenze, non per abbattere ma per trasformare dall'interno l'ordine sociale borghese: questo è stato il regime di Allende, il regno senza corona della democrazia piccolo-borghese, il paradiso dei radicali incapaci di "andare alle radici".

Il senso del sanguinoso epilogo

È legge storica che non si può soddisfare quel caleidoscopio di classi e sottoclassi che si chiama il "popolo", senza scontentare e infine alienarsi, l'una dopo l'altra o tutte insieme, le parti componenti del confuso mosaico, anche quelle sul cui appoggio si contava perché si era eretto su di esse il proprio piedistallo. Le mezze misure – in un processo storico in cui tutto si vince o tutto si perde – si ritorcono contro chi le prende peggio che se neppure le avesse prese. I "provvedimenti dispotici" che ogni processo di scardinamento di strutture arcaiche o non più vitali impone non sono il prodotto di una scelta: sono un comando della necessità, una legge di vita. Chi predica pace riceve guerra; chi semina il disarmo politico e organizzativo delle sue stesse forze portanti raccoglie la tempesta delle armi nemiche; chi si inchina alla legge, provoca la legge che altri si dà; chi invoca l'ordine, muore sotto l'uragano del "disordine"; chi "previene gli eccessi" dei suoi sostenitori, si attira quelli degli avversari; un governo che si pretende rivoluzionatore e non mette fuori legge i partiti che incarnano il passato e il presente da rivoluzionare prepara il terreno alla propria distruzione.

Dallo sciopero degli autotrasportatori alla defezione democristiana, dal sordo rancore contadino al malcontento bottegaio, dai giri e rigiri dell'esercito "leale" alla pressione incalzante benché nascosta dell'imperialismo, dal cancro dell'inflazione alla paralisi dell'industria e del commercio: tutto si è scatenato contro l'Up, perché doveva scatenarsi. E, di fronte al selvaggio esplodere di forze incontrollabili, nessun argine si è levato in difesa, perché l'argine o lo si costruisce prima o non sorgerà mai, e perché nei grandi svolti della storia ci si difende attaccando o si muore.

Nell'epilogo tuttavia lacrimevole della "rivoluzione democratica" tedesca del 1848-1849, la piccola borghesia democratica e radicale salvò almeno un lembo del suo pallido onore brandendo le armi. Lo fece – male e troppo tardi – sotto la spinta rabbiosa dei proletari; ma lo fece.

Non l'ha fatto, non poteva farlo, la piccola borghesia democratica e radicale cilena. Prigioniera del legalitarismo pacifista congenito – su scala mondiale – della propria classe, ha imprigionato in esso l'unica forza che avrebbe potuto salvarla nell'immediato (ma per scavalcarla e abbatterla nella fase estrema del ciclo), il proletariato. La responsabilità non è soltanto sua: è anzi, in primo luogo, di quelle forze mondiali della controrivoluzione che si chiamano socialdemocrazia e stalinismo, e che da un trentennio e più tengono avvinto nelle pesanti catene dell'ossequio alla democrazia, alla legalità, al parlamento, al gradualismo riformistico, al pacifismo sociale, la classe operaia. Ad esse si deve soprattutto se due vie prima intrecciate, poi divergenti si sono richiuse nel sangue a Santiago e a Valparaiso: la via di una trasformazione borghese "spinta fino in fondo", quindi non pacifica né legalitaria, e quella della rinascita in armi di un proletariato levantesi a proclamare – come sarebbe possibile in una situazione internazionale non pregiudicata dal disarmo politico e organizzativo dell'unica classe veramente rivoluzionaria della società moderna – la rivoluzione in permanenza, nel grido – e nello spirito – del 1850.

Il Cile, così, non ha avuto non diciamo il "socialismo", che era solo nella demagogia "democratico-progressista", ma neppure un "capitalismo-conseguente".

Il cannibalismo di agrari e grossi borghesi ritrovatisi finalmente uniti sotto l'ombrello di un esercito di ignobili sgherri alle cui spalle non è certo difficile vedere l'ombra (ma un'ombra di ferro e di fuoco) del gendarme internazionale capitalistico, gli USA, si è rovesciato con selvaggia violenza sugli operai chiusi nella trappola delle "loro fabbriche" – simboli materiali della galera politica in cui l'opportunismo, questo servo fedele delle classi dominanti, li aveva e li teneva imprigionati. Essi erano vinti prima ancora di essere spietatamente attaccati, vinti dalla fede nelle vie pacifiche, parlamentari, nazionali, al socialismo. Da questa, purtroppo ennesima, lezione della storia, si leva il grido ammonitore: nessuna classe può vincere senza rivoluzione violenta; nessuna può conservare il potere senza dittatura e terrore.

Non lo può a maggior ragione – di fronte allo schieramento mondiale della conservazione borghese, col suo codazzo di lacchè laici e preti – la classe operaia, che non ha nulla da perdere fuorché le sue catene; non lo può nelle grandi aree del pianeta in cui la sua rivoluzione vittoriosa ha ancora da portare a termine compiti non suoi; ancora meno lo può là dove è chiamata a combattere e vincere per sé sola.

Salga questo monito grandioso dall'enorme carnaio di Santiago!

("Il programma comunista" n.18, 27/9/1973)

 

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