Dopo il 25 aprile, il 2 giugno

Pubblicato: 2010-07-17 19:17:49

Ci risiamo: la crisi avanza, la soluzione richiede “lacrime e sangue”, soffiano aliti di guerra (le “missioni di pace” lungo la faglia degli scontri imperialistici, dai Balcani alla Mesopotamia) e, soprattutto, il “fantasma” della instabilità sociale e dell’antagonismo di classe si presenta agli occhi della borghesia nostrana come una non più trascurabile ipotesi.

Nel gioco delle frazioni e fazioni dell’espressione politica della borghesia, la parte “di sinistra” deve preventivamente assumersi la responsabilità di garantire l’unità nazionale e quella pace sociale necessaria per buttare la nostra classe nella caldaia delle guerre a venire. Il riformismo (qualunque nome assuma, ora che i vecchi carrozzoni – socialdemocratici, stalinisti, etc.. – si sono frantumati, ricolorati, modernizzati, riempiti di nuovi contenuti) deve riempire di contenuti la retorica nazionalista agitata dalle “destre”: solo così può sperare di abbindolare la nostra classe, farle trainare, castrata come i buoi, il carroccio terribile e assassino della patria borghese.

Fino a quest’anno, la retorica della “patria di tutti” si accontentava del 25 aprile e della fiaba della “vittoria sul fascismo”. Ma, ora che la modernizzazione della politica richiede quelle riforme che rendano sempre più esecutivo e decisionista il governo, la retorica abbisogna di più: bisogna “difendere la Costituzione Repubblicana”.

E alé! Un’altra occasione per convocare vecchi e nuovi partigiani, convinti democratici e sinistri critici, popolo viola e popolo giallo, ciclisti e maratoneti, libertari, pacifisti, rappresentanti di questo e di quello, sinceri preoccupati, nostalgici repressi, portatori di cartelli e sventolatori di gonfaloni e immaginette e…chi più ne ha, più ne metta. Anche in questo caso vale quanto abbiamo già scritto a proposito del 25 aprile: “Per noi comunisti non c’è nulla da riscattare in quella data; è la data con cui la borghesia di oggi celebra la vittoria di una frazione della borghesia di ieri su un’altra frazione della borghesia. Per noi comunisti, quella data segna un’ulteriore sconfitta proletaria, un ulteriore trionfo della controrivoluzione che, con buona pace di chi scuote la testa quando se lo sente dire, impera da più di ottant’anni”.

E per ribadire ancora una volta, instancabilmente, le posizioni che ci contraddicono, riproponiamo gli ultimi due paragrafi di un articolo comparso sull’allora nostra rivista Prometeo (anno II, n.6, marzo-aprile 1947), a proposito di costituzioni e forme istituzionali borghesi.

 

 

Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua Costituzione

 

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Troppi spunti offrirebbe nei suoi innumeri e malconnessi articoli il progetto di costituzione, e il suo rabberciamento col metodo parlamentare, che più che mai mostra di essere putrescente. 

Si è voluto dare un contenuto comune a tutti i gruppi del presente aggregato politico, derivati, come si deve far credere al grosso pubblico, dall'abbattimento del fascismo, trovando una nota, una almeno, accettabile per tutti. Se andiamo in senso contrario alla "statolatria" [venerazione dello stato] fascista, non ci resta che fare leva sull'Individuo, e sulla sacra ed inviolabile dignità della persona umana. E dall'altra parte abbozzare alla meglio un decentramento burocratico colla creazione di altri organi parassitari e confusionisti - se non camorristici - quali saranno le amministrazioni regionali. Temi tutti che si prestano a suggestive illustrazioni. 

Lasciamo la teoria. Mentre la realtà di oggi più che mai dimostra la sua caratteristica saliente nello irretire, nel soffocare quel povero individuo, quella disgraziata persona, nelle strette senza complimenti dei centri organizzati, mentre gli stessi Stati minori perdono ogni residuo di funzione autonoma in tutti i campi ad opera delle pressioni e dei brutali interventi dei grossi mostri statali (vedi per ultimo episodio il colpo di tallone in Grecia e Turchia), qui ci corbelliamo col ricostruire cartaceamente la lacerata libertà del singolo e della regione. 

Su quei principii "sacri e inviolabili" convengono nel nirvana conformistico tutte le multicolori ideologie rappresentate a Montecitorio: trascendentalisti cui occorre dare all'individuo il libero arbitrio (poiché altrimenti come farebbe dopo morto ad andare all'inferno?); immanentisti che, dalla libertà dell'Io di attuarsi nella eticità dello Stato, debbono derivare la facoltà di disporre vuoi del proprio patrimonio vuoi del proprio lavoro, ossia la libertà di comprare e di vendere tempo umano; materialisti e positivisti che, avendo tra tutti fatto un informe pasticcio di marxismo, da un lato col più volgare cinismo, dall'altro colla più lacrimogena filantropia, non sapevano quale parola più comoda della libertà potesse indurre gli elettori a fare la estrema fesseria di designarli a prendere il posto dei gerarchi di Mussolini. 

Quando una cosa è divenuta sacra e inviolabile per tutti, in quanto in quattrocento discorsi non uno tenta di intaccarla, questa è la prova certa che se ne fregano tutti nella stessa suprema misura. Vada questo finale conforto al cittadino elettore che si paga a prezzo da borsa nera la compilazione della carta costituzionale. 

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Vi è il piatto forte nel contenuto economico e sociale della costituzione repubblicana. Si fa il passo audace di menzionare qua e là insieme al cittadino anche il lavoratore. Abbiamo una repubblica fondata sul lavoro, o sui lavoratori? L'uno e l'altro, in quanto tutti gli Stati borghesi odierni sono fondati sullo sfruttamento sia del lavoro che dei lavoratori da parte del capitale. Come le fondazioni sopportano il peso dell'edifizio, così i lavoratori italiani tengono sulle spalle il peso di questa repubblica fallimentare. 

Le espressioni letterali sono state felici. La più comoda era stata purtroppo sfruttata dai fascisti: l'Italia è una repubblica sociale

Anche questa evoluzione di attitudini è perfettamente consona a tutto lo sviluppo del ciclo borghese. Agli inizi la mentalità e l'ordinamento democratico non tollerano che si parli di lavoratore e non di cittadino, di questione sociale e non politica. Il cittadino può credere di essere uguale a tutti gli altri, il lavoratore capisce di essere uno schiavo. La politica del Capitale è uguaglianza di diritti, la sua sociologia è lo sfruttamento. 

Ma in un secolo la difensiva borghese ha avuto agio di cambiare i suoi fronti polemici. Riformismo prima, fascismo dopo, hanno portato sulla scena le misure sociali ed il lavoro. Non riportiamo qui questa dimostrazione, che è al centro di tutto il nostro compito di analisi e di ricerca. 

Il liberale e il giacobino puro non esistono più. Il sindacato economico proibito nella prassi iniziale della rivoluzione borghese viene prima ammesso, poi corrotto, poi inquadrato nello Stato. Il gioco delle iniziative economiche che all'inizio deve per sacro canone (versione diretta di quello sgonfione della inviolabilità della persona) essere incontrollato, vede interventi sempre più fitti e diretti del potere politico, in nome dell'interesse sociale

Ma al mondo borghese liberale puro e socialinterventista, contrapponiamo, noi socialisti conseguenti, una idealizzazione, una mistica, una demagogia del lavoro e del lavoratore? Mai più. Ecco un altro punto che merita di essere chiarito e liberato da ostinate incrostazioni. 

Quando gli schiavi lottarono per emanciparsi, proposero una repubblica di schiavi, o una senza schiavi? Gli operai di oggi lottano per una società senza salariati. 

è fare filosofia definire il lavoro come attività umana generale sulla natura senza dedurne subito l'analisi dei diversi rapporti sociali in cui il lavoro stesso si inquadra. La lotta proletaria non tende ad esaltare ma a diminuire il dispendio di lavoro, e si basa sulle enormi risorse della tecnica odierna per avanzare verso una società senza sforzi lavorativi imposti, in cui la prestazione di ciascuno si farà allo stesso titolo con cui si esplica ogni altra attività, abbattendo progressivamente la barriera tra atti di produzione e di consumo, di fatica e di godimento. 

Non per nulla i regimi fascisti parlano largamente di lavoro, e la carta mussoliniana si chiamò carta del lavoro. La stessa falsa demagogia guida la prassi "sociale" dei modernissimi regimi. Dove essi, tutti, scrivono di esigenze sociali noi leggiamo: esigenze borghesi di classe. 

La classe operaia non può considerare come una sua conquista l'enunciato che nelle istituzioni entra il lavoratore. 

Il programma di trapasso dei comunisti tra l'epoca capitalista e quella socialista non è una repubblica in cui i borghesi ammettono i lavoratori, ma una repubblica da cui i lavoratori espellono i borghesi, in attesa di espellerli dalla società, per costruire una società fondata non sul lavoro, ma sul consumo. 

Il postulato politico della classe operaia non è il trovare un posto nello Stato costituzionale presente, in quanto i posticini vi sono solo "per quelli dei membri della classe dominante che ogni tanti anni gli operai possono scegliere a rappresentarli" (Marx). 

Il suo postulato sociale non è nemmeno di trovare un posto nella gestione dell'azienda. Nemmeno la fabbrica è l'ideale cui tendono le conquiste del socialismo. Se Fourier chiamò le fabbriche capitalistiche ergastoli mitigati, Marx, ricordando le inglesi "case di terrore" per i poveri, dice che questo ideale si realizzò nella manifattura borghese, e il suo nome fu: "fabbrica"! Tutto il riformismo moderno sulla tecnica produttiva non cessa di avere a scopo il prodotto e non il lavoratore; forse non tutti sanno che le recentissime fabbriche di motori in America si fanno senza finestre perché il pulviscolo atmosferico disturba le lavorazioni meccaniche di precisione, e occorre un ambiente condizionato per temperatura, umidità ecc. Da ergastolo a tomba. 

Quanto ai metodi russi di ultralavoro viene anche a mente un passo di Marx: "A Londra lo stratagemma che si usa nelle fabbriche per la costruzione di macchine è che il capitalista sceglie come capo-operaio un uomo di gran forza fisica e sollecito nel lavoro. Gli paga tutti i trimestri e ad altre epoche un salario supplementare, a patto che esso faccia tutto il suo possibile per eccitare i suoi collaboratori, i quali non ricevono che il salario ordinario, a gareggiare di zelo con lui..." (Il Capitale, Libro I, IV, 3). 

Basta col fare sgobbare, basta con lo spingere le masse coi metodi che derivano da quelli che si applicavano agli schiavi, se non al bestiame da lavoro e da macello. Al quale, tuttavia, non si imponeva nella costituzione di credersi sacro e inviolabile, né risuscitabile dopo essere stato mangiato.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2010)