Marxismo e questione militare (Il Programma Comunista, n°10, 1962)

Pubblicato: 2010-04-11 20:27:41

 

 

b) Parte storica: Roma

La interdipendenza del fatti economici e militari (s'intende con la prevalenza determinante del primi) è così lampante in tutta la storia romana, sia nella fase di ascesa che di declino, che solo un ostinato antimarxista può mettere in dubbio o interpretarla in senso idealistico. E’ noto per esempio che non lo Stato di Roma antica forniva le armi ai suoi legionari. L'armatura costosa della fanteria pesante che era l'arma decisiva del combattimento, sia della fanteria leggera e - a maggior ragione - della cavalleria, era a carico dei non abbienti. II soldato romano e dunque il contadino, piccolo o grande proletario. II cavaliere è il cittadino ricco: inizialmente solo gli appartenenti ai ceti nobiliari - i patrizi -, in seguito gli arricchiti del commercio e dagli altri affari che man mano si sviluppavano.

Questo rapporto economico-militare genererà a sua volta come sovrastruttura il rapporto politico-militare. La storia delle trasformazioni avvenute nell'ordinamento politico di Roma e della sua struttura costituzionale, su cui spesso si appunta l'interesse maggiore degli storici, è il riflesso della   storia delle trasformazioni avvenute nel rapporto economico-militare.

Lo stesso dicasi per ciò che riguarda i rapporti di Roma con tutti gli altri stati dell'Italia e del Mediterraneo. Una volta compreso l'intimo rapporto tra ricchezza economica e forza armata e le loro reciproche azioni, non si può non respingere la tesi duhringhiana di certi storici secondo cui la potenza di Roma si è sempre fondata sulla rapina. L'ascesa di Roma nel campo delle conquiste militari è da attribuire anzitutto alla fase di sviluppo che attraversava l'economia sua e delle altre regioni italiche rispetto a quelle degli altri popoli del Mediterraneo in fase di decadenza. La vittoria di Roma su Cartagine, la più grande potenza dell'epoca, non si spiega diversamente. L'oligarchia dominante a Cartagine sfruttava i popoli amici o soggetti estorcendo dispoticamente forti tributi ed aveva da fare i conti con le rivendicazioni delle forze di lavoro interne, con le loro sollevazioni e con quelle dei mercenari di cui si formava l’esercito. Nulla di strano perciò che i Romani potessero e dovessero, a quell'epoca, essere considerati come dei liberatori. Inoltre, la società romana nel suo complesso risultava allora più o meno interessata alle fortune dello Stato e dunque pi disposta a combattere. Erano infatti terminate le secolari lotte fra patrizi e plebei, la cui conclusione piuttosto che come vittoria di questi ultimi, va considerata come alleanza fra i suoi uomini più ricchi e il patriziato. La classe dirigente romana aveva dunque irrobustito la sua compagine con gli elementi arricchitisi attraverso l'allargamento dal commercio prodotto dalle guerre e che sulla guerra ancora puntavano per nuovi profitti. Date queste ed altre premesse, di cui per brevità non si fa cenno, non meraviglia che il rozzo contadino soldato romano abbia saputo esprimere dal suo seno un condottiero: Scipione l'Africano, degno del grande cartaginese Annibale, a sconfiggere il quale non meno grande fu il contributo della politica di Fabio il Temporeggiatore. Ma, vinta la seconda guerra punica, da considerarsi tra le più risolutive di quelle combattute nell'antichità, Roma si poneva su basi economiche e militari ancora più solide. Si era assicurato il grano della Sicilia nonché tutto il commercio ed i tributi prima riscossi dalla sua grande rivale e possedeva ormai una grande flotta mercantile e militare. Da queste nuove condizioni si doveva sviluppare ulteriormente quel forte spirito imperialistico della classe dominante che doveva spingerla alla conquista o al vassallaggio della Macedonia, dell'Asia Minore e dell'Africa Settentrionale. I nuovi mercati, le nuove terre, accrebbero ancora più le ricchezze d'Italia e di Roma in cui, fra l'altro, gli schiavi affluivano a migliaia e a decine di migliaia alla fine di ogni guerra. Tanto la classe dei proprietari terrieri quanto quella dei mercanti, degli appaltatori di imposte (pubblicani), usurai e speculatori vari, se ne avvantaggiarono. Ma in questa stessa ascesa verso il massimo livello delle forze produttive, si generarono e si svilupparono i germi del futuro arresto e poi del declino e del crollo finale. Roma assimila le tecniche superiori dei popoli vinti - Greci in primo luogo - e, con esse, anche i prodotti della cultura e le nuove religioni e filosofie. Sia nella struttura economica sociale che in quella culturale si verificano profonde trasformazioni. La nobiltà, con le guerre, si era sempre più arricchita di terre ed aveva creato il latifondo che, grazie alla manodopera poco costosa degli schiavi, era in grado di battere la piccola proprietà sul piano della concorrenza economica. Si rendevano così inevitabili sia le lotte fra padroni e schiavi (in Sicilia, dove il latifondo era più esteso, una rivolta di schiavi durò cinque anni), sia fra patrizi e piccoli proprietari i quali, anche a causa del servizio militare continuo, erano costretti ad abbandonare le loro terre e ad indebitarsi. In mezzo a questi disordini continui si facevano strada le varie tendenze della classe dominante: la conservatrice da un lato e la riformista dei fratelli Gracco e di Mario dall'altro. Quest'ultima tendeva a risolvere la questione agraria con una riforma fondiaria stabilendo dei limiti alle proprietà acquistate sul demanio pubblico (Acer publicus) e dividendo le terre eccedenti nella speranza di ricostruire la classe dei piccoli contadini che era il nerbo dell'esercito. La lotta, finita con l'uccisione dei Gracco, la sconfitta del partito democratico di Mario e la feroce dittatura militare di Silla, era però destinata a riprendere in forme ancora più violente.

La riscossa era iniziata in Spagna da Sertorio, un esule di parte popolare, mentre quella degli schiavi veniva capeggiata dal gladiatore Spartaco. Entrambe le lotte videro più volte battuti gli eserciti consolari inviati dal Senato per domare i rivoltosi che in fine saranno vinti. Una nuova e più forte dittatura militare si imponeva, e la Repubblica finiva per dare. luogo all'epoca imperiale. Anche in questo trapasso, il ruolo svolto dalle forze armate e di primaria importanza. La crisi della piccola proprietà era anche la crisi dell'esercito e questo si dovrà riempire di proletari trasformati in soldati di mestiere, che vedranno quindi legate alla sorte dei generali le proprie fortune. Per converso, questi si avvarranno come non mai dell'appoggio delle legioni per strappare nuove fette di potere al Senato. Ciò spiega come il primo dittatore a vita, Cesare, genio militare e politico, abbia potuto accentrare nelle proprie mani i  poteri che poi erediteranno i vari imperatori. Naturalmente è lungi da noi il voler attribuire ai loro meriti o deficienze personali il corso degli avvenimenti storici futuri. A questo proposito è molto istruttiva la congiura in seguito alla quale Cesare fu ucciso. II suo successore Ottaviano sarà autorizzato ad esercitare i pieni poteri per conto della classe dominante proprio perché impersonerà il compromesso tra i vari gruppi di cui essa si compone ed i suoi interessi contradditori. Ancora una volta le guerre aiuteranno i primi imperatori a realizzare questa politica di relativa stabilità sociale e di consolidamento dell'impero, che significherà qualche secolo di più o meno pacifico sviluppo delle attività economiche di produzione e commercio, nonché di scambi culturali fra i popoli del Mediterraneo. Durante tale periodo, però, i germi della decomposizione e della crisi si fanno sempre più virulenti. Nuove strutture economiche maturano; nel campo della produzione agricola, l’Italia resta indietro rispetto alla Gallia ed all'Africa da cui dovrà importare grano anche perché i latifondisti hanno operato sostanziali trasformazioni colturali (vini e olii ed allevamento) e perché gli schiavi, non più riforniti dalle guerre, costano molto più cari. Inoltre, l'asse del commercio si è spostato nuovamente ad Oriente a cui l'Occidente si rivolge per l'acquisto dei più diversi prodotti. Dal disavanzo commerciale nascerà anche una crisi finanziaria a cui si dovrà far fronte con l'aggravio di altri e più pesanti tributi non solo sui popoli soggetti ma anche sulle stesse popolazioni italiche, sui piccoli produttori liberi, con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Si comincia a respirare aria di malessere generale, e la collera serpeggia fra tutti gli strati della popolazione, su cui l'oppressione dei privilegiati si fa sempre più intollerabile. Evidentemente proprio quando l'esercito deve servire a scopi reazionari e conservatori esso si infetta ancor più di un partigianesimo che genera indisciplina e poi ribellione: è l'anarchia militare insomma, che porta perfino a creare più imperatori contemporaneamente. Al solito, lo specchio della società romana è sempre l'esercito. E più giovano le parole di Marx: "La storia dell'esercito illustra in una maniera stupenda la giustezza della nostra concezione relativa al legame fra forze produttive e rapporti sociali ".

Abbiamo visto come per cause economiche sia cambiata la composizione sociale delle legioni col diminuire dei coltivatori liberi, sostituiti da proletari a cui lo Stato deve fornire le armi, con altro aggravio per l'erario. Sempre per le stesse cause, le legioni, man mano, saranno composte non più dei soli elementi italici ma anche di quelli delle province, prima o poi anche di barbari, cioè di elementi derivanti da quei popoli che fremono alle frontiere dell'impero e che daranno l’ultimo e piu risolutivo colpo alle sue strutture già minate all'inferno da tutta una serie di paralisi progressive. L’ora dello sfacelo generale si avvicina sempre più e nessuna forza potrà riuscire ad evitarla. Contro tutto il complesso eversivo della società schiavista agonizzante, a nulla varranno le riforme di alcuni imperatori (Diocleziano e Costantino). La rivolta delle forze produttive contro le strutture politiche e l'impalcatura giuridica in cui esse si trovano strette come da una camicia di forza, è inarrestabile. Essa si manifesta nelle forme più diverse: a) nella contraddizione economica e nel contrasto sociale tra cricca dominante di senatori e cavalieri e una burocrazia prepotente da una parte, e turbe di contadini miserabili e schiavi in ogni dove dall'altra; b) nell'esercito rimasto romano solo di nome, in cui il diffuso mercenariato indica l’inefficienza e la incapacità difensiva della classe dominante; c) nella vita ideale e religiosa: il cristianesimo, che per aver infranto ogni barriera di razza e di ricchezza tra gli uomini, si era rapidamente diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, resistendo a trecento anni di persecuzioni, ha scalzato la vecchia religione che altro non era stata che un puntello del regime.

La nuova società, la società feudale, già si faceva presente nella vecchia attraverso le sue forme caratteristiche: molti schiavi, acquistata la libertà, sono divenuti liberi ed il colono, per necessità fiscale, venendo vincolato alla terra da lui lavorata, si va trasformando in servo della gleba.

Ma la rottura col passato e l'inizio dei tempi nuovi saranno avvenimenti che richiedono l'uso di una nuova e più terribile violenza. E' appunto quella delle giovani forze delle tribù primitive di cui già tante volte i Romani avevano provato il valore guerriero, l'indomito coraggio e la sobrietà dei costumi; i barbari, in particolare gli Alamanni. Essi, come testimoniano molti documenti storici di quel tempo, saranno accolti come liberatori dalla popolazione che non avrà alcun rimpianto di assistere al crollo di una potenza fondata sul privilegio e sull'oppressione.

A questo punto, i relatori, per spiegare ai compagni quale deve essere il punto di approdo della nostra ricerca sulle basi teoriche e gli sviluppi storici della questione militare, hanno fatto un balzo al di sopra dei secoli, richiamandosi alle classiche impostazioni che del problema della violenza  organizzata i bolscevichi - soprattutto Lenin e Trotsky - diedero nella triplice fase della preparazione  alla conquista del potere, della sua attuazione, e della difesa della dittatura proletaria comunista, difesa realizzata mediante la creazione dell'esercito rosso come arma centralizzata e potenzialmente anche offensiva, nel quadro della strategia rivoluzionaria internazionale, e illustrando a grandi tratti le soluzioni teoriche e pratiche che essi raggiunsero contro il peso di tradizioni localiste, guerrigliere e democratiche in seno allo stesso partito.              

Questa parte del rapporto non è però qui riprodotta, perché sarà oggetto di trattazione più sistematica in esposizioni future.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(
il programma comunista, n. 10, 1963)