Primavera 2010, Congresso CGIL: Ovvero, il Concistoro del riformismo nostrano

Pubblicato: 2010-04-03 13:43:17

Mentre tutte le associazioni padronali tallonano le altre istituzioni borghesi per proseguire nell’attacco al costo del lavoro, attacco mascherato sotto le vesti delle “esigenze della modernità” e, soprattutto, del “superamento della crisi economica”, la CGIL va a congresso.

Ci va in una contingenza non facile per il riformismo italico: da troppi anni, infatti, le sue componenti politiche sono fuori dal governo del paese (alcune addirittura si presentano orfane di rappresentanza parlamentare!) e risultano marginalizzate nelle amministrazioni locali. La CGIL va dunque a congresso in un momento in cui, nel gioco delle parti del sindacalismo nazionale e nazionalista in occasione delle consuete “trattative” tra Governo e Parti Sociali (così come in quelle più propriamente sindacali), le tocca il ruolo del dissenziente, del non allineato e quindi (per gli sprovveduti, gli smemorati e i parassiti dell’insieme dei lavoratori dipendenti) del difensore dei lavoratori dalla “tracotanza delle destre e del padronato”.

 

 

Proprio a lei! Proprio a quella CGIL che, già dal finire della seconda guerra mondiale e nel corso di tutto il secondo dopoguerra, dalla ricostruzione allo scrollone operaio del 1969 e alla gestione della crisi dalla metà degli anni ’70, fino ai giorni nostri, non ha fatto altro che proporsi e agire come lo strumento migliore per addestrare l’italica classe operaia a essere consapevole e responsabile forza economica nazionale!

Ma, appunto, è questo il gioco delle parti: è necessario che formalmente questa istituzione sindacale reciti la parte dell’“opposizione di sua maestà” (o non piuttosto del “buffone di corte”?). Il copione dunque prevede l’atto del “congresso” e la presenza di un “protagonista” (la maggioranza) e di un “deuteragonista” (la minoranza), ciascuno con la sua brava “mozione”.

In sostanza, le due “mozioni” sono sovrapponibili ed è didatticamente più divertente esaminare quella di minoranza, perché, in teoria, dovrebbe essere quella più combattiva e vorrebbe approfittare dell’isolamento per dare all’intera Confederazione una riverniciata di riformismo attivo, per dimostrare come ormai non vi sia più spazio per un antagonista interno (una base sindacale vivace e attiva), ma solo per una nuova (futura) organizzazione sindacale che la spazzi via.

Ha sintetizzato bene un nostro compagno, a una assemblea di tesserati della sua categoria, quando ha concluso un suo intervento invitando “tutti i lavoratori presenti a non votare nessuno dei due documenti”, perché “questo congresso è l’ennesima lotta tra apparati per spartirsi delle poltrone e per i lavoratori è meglio non avere niente a che fare.”

Il documento di minoranza (“La CGIL che vogliamo”) è diviso in due sezioni: la prima di carattere introduttivo generale e la seconda che espone sette proposte di tipo operativo.

La prima parte è quella nella quale meglio si esprime la vocazione della CGIL a essere l’anima di un riformismo modernizzatore, atto a svolgere il ruolo di garante dello sviluppo collettivo del capitalismo nazionale. Il piatto conformismo, l’accettazione supina dell’identità sociologica (più ancora che economica!) in cui ogni venditore di forza lavoro (membro quindi del proletariato in sé) viene catalogato dall’ideologia dominante, è qui riconosciuta ed esaltata: “La CGIL che vogliamo è uno spazio libero nel quale lavoratrici e lavoratori, disoccupati, giovani ed anziani, uomini e donne, meridionali e settentrionali, nativi e migranti possano incontrarsi, riconoscersi, organizzarsi”. Ma – badate bene! – non per superare queste divisioni e per lo meno riconoscersi nell’unica categoria dei salariati, bensì perché “così [...] diventa un luogo di confronto, proposta e partecipazione”. E’ evidente che questo ex sindacato si propone come un condominio dove ciascun condomino rivendica il suo millesimo di proprietà ed il conseguente diritto di fronte all’amministratore: “La CGIL che vogliamo rinnova ogni giorno il suo impegno per la difesa e l’estensione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, degli e delle aspiranti ad un lavoro [dove il sordo diventa un “non udente” e il disoccupato un “aspirante a un lavoro”! come se il non avere alternativa al noleggio della propria forza lavoro per campare non fosse una condanna, bensì un desiderio di realizzazione di sé!], dei pensionati e delle pensionate”. Seguono due affermazioni di principio: il consueto appello per la difesa della Costituzione, della pace e della democrazia, e quello più curiosa per un impegno per una “piena e buona occupazione”, di cui ci sfugge il senso dato che ciascuno di noi conosce bene il peso del lavoro alienato…

Si afferma poi l’essenza idealista e velleitaria dell’adattamento riformista ai dogmi del modo di produzione capitalistico. “E’ così che la storia, il presente, la realtà economica, sociale e produttiva non impongono le loro regole ma vengono attraversate dalle nostre priorità, vengono lette dalla nostra ottica, vengono conosciute e modificate dalle nostre battaglie. La CGIL che affronta oggi il congresso si è molto allontanata da questo obbiettivo: ad una società disgregata dal pensiero dominante della destra, ad un mondo produttivo incapace di fare cultura d’impresa, ad un mercato del lavoro impoverito e precarizzato, diviso nei diritti e nelle tutele, non ha saputo proporre e imporre la propria coerenza, il proprio impianto culturale e strategico fatto di solidarietà, contrattazione, partecipazione, uguaglianza, democrazia, diritti, tutte grandi condizioni che hanno segnato la nostra storia di emancipazione e libertà del lavoro”. Ohibò!

Insomma, è la solita solfa: il padronato, la destra, non sanno fare il loro mestiere (la cultura d’impresa), perché sono avidi e autoritari; noi ci sostituiamo a essi (ci facciamo... “attraversare”) e senza minimamente mettere in discussione alcunché dipingiamo la realtà di rosa e di verde. Con un peggioramento, però, rispetto al riformismo liberale e a quello fascista, che almeno avevano come illusorio obbiettivo una certa redistribuzione della ricchezza e promettevano concreti vantaggi sociali: qui, l’unica concretezza è pretendere di insegnare ai padroni a fare il loro mestiere!

Segue poi una spatafiata nella quale si riconosce che la CGIL si ritrova contingentemente nella condizione di “sindacato dei no”, non per sua volontà, ma per la decisione della controparte di tenerla nell’angolo, e quindi la si sprona non solo a darsi quegli obbiettivi (fumosi!) ma a rinnovarsi: fuori dai denti, “vecchi dirigenti fatevi da parte, che vogliamo i vostri posti”. Naturalmente, in nome e per conto della sempre nominata e venerata democrazia, con una tirata demagogica in nome dei giovani che, come è noto, sono sempre meno sindacalizzati.

Ma a questa benedetta gioventù che cosa poi si offre? “Troppo poco si fa per allargare un sistema di tutele volto alla inclusione dei soggetti più deboli e all’estensione dei diritti di cittadinanza, come il diritto all’abitare, alla mobilità, al sostegno delle giovani coppie”.

Insomma, ecco una bella piattaforma sindacale, che in realtà detta il programma a chi si vorrà sostituire ai partiti che governano adesso!

Non una parola sui veri temi che dovrebbero essere il cardine di ogni sindacato e a maggior ragione di chi vorrebbe essere una “alternativa sindacale”: salario,orario, condizioni di lavoro, mantenimento dei disoccupati e dei pensionati nelle condizioni economiche degli occupati – niente di tutto ciò! E, naturalmente, neanche una parola sullo sciopero, sui metodi di lotta…

E veniamo alla “concretezza” delle sette proposte.

“Una politica economica e sociale che faccia della redistribuzione della ricchezza e della lotta alla disoccupazione”…una forma di difesa dagli effetti della crisi, si potrebbe pensare... No! “le leve per uscire dalla crisi”!! E qui ci si lancia nella rivendicazione delle Opere di Pubblica Utilità, dalla tiritera sulla ricerca, sul rispetto dell’ambiente, sulla formazione, sulla scuola, al “rivendicare e riconquistare il lavoro diffuso, quello per strade scuole ospedali ferrovie promosso dagli Enti Locali”. S’invoca poi la solita riforma fiscale e quella demagogica e senza senso del Pubblico Impiego.

“La lotta alla precarizzazione e alla riduzione dei diritti e delle libertà delle lavoratrici e dei lavoratore”. Ottima cosa! Ma scritta così è solo una buona intenzione, di quelle che lastricano le vie dell’inferno: infatti, questa aspirazione viene declinata in una serie di fumose locuzioni quali: “vanno ricondotti a fattispecie circoscritte e definite i contratti a termine, mentre vanno superate tutte le altre forme di accesso quali le collaborazioni a monocommittenza e i contratti a somministrazione”. “Il diritto al lavoro non può essere messo in alternativa ai diritti nel lavoro” (con la solita strizzatine d’occhio alla... gioventù bambocciona). “Va inoltre ridefinito un Reddito Minimo o Salario sociale, sul modello di altri paesi europei, al quale alcune regioni si sono già ispirate”. Ancora: “La fine delle compatibilità definite dal governo nelle rivendicazioni salariali”.

Pensate forse a una ripresa delle rivendicazioni salariali, dato che si proclama “Bisogna respingere il ritorno alla gabbie salariali, al cottimo, al salario discriminatorio, riaffermando il principio per cui a pari lavoro, pari salario”? Vi sbagliate: qui ci si lancia in una geremiade su quei “livelli di contrattazione” a suo tempo avallati, da cui comunque non si vuole uscire se non riducendo la durata dei contratti nazionali, senza limitare la “libertà di contrattare nell’impresa tutti gli aspetti della condizione di lavoro”…

A complemento della demagogia sulla gioventù, si demagogizza poi sui pensionati (più del 60% dei tesserati CGIL: tesseramento automatico all’accesso dei servizi offerti), a cui si promette il bengodi della pubblica assistenza…

Le ultime rivendicazioni (“Tutta l’azione sindacale deve essere fondata sulla democrazia, cioè sul diritto delle lavoratrici e dei lavoratori a scegliere chi li rappresenta e a decidere con il voto segreto sulle piattaforme e sugli accordi. – La contrattazione a tutti i livelli, fondata sulla democrazia, deve essere la pratica prioritaria dell’organizzazione. – E’ necessario riformare l’organizzazione per un grande processo di sindacalizzazione del lavoro frantumato e diffuso – Autonomia e indipendenza nella formazione delle decisioni e dei gruppi dirigenti”) riguardano, al di là della retorica dei termini, quel che veramente sta a cuore a questi sindacalisti: stabilire regole che paralizzino ogni possibilità anche lontana per la “base” di sovvertire l’impianto generale dell’organizzazione e spostarla verso un’azione, non certamente classista, ma almeno rivendicativa.

In nome della democrazia, ciascuno stia al suo posto, nessuno discuta l’etichetta guadagnata dalla divisione sociale del lavoro, si assecondi l’ultima moda sociologica e continuiamo a essere gli allegri rematori delle galere del capitale. Questo sindacato vuole (e deve) solo battere il ritmo delle nostre vogate: ma non con le mazze sul tamburo, bensì con le frustrate sulle nostre schiene!

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2010)