Socialismo e "difesa nazionale"(Avanti!, 21/12/1914)

Pubblicato: 2010-02-16 10:30:17

(Avanti!» del 21-12-1914)

Questo articolo affronta la diffusa giustificazione di un appoggio socia­lista alla guerra, ossia quella della difesa contro l'aggressore.

È ovvio che non era l'argomento principale degli interventisti italiani, che si prefiggevano di aggredire l'Austria. Ma l'argomento è fondamentale nei riguardi della tremenda crisi che aveva travolto i socialisti francesi e tedeschi, e l'importanza di quest'articolo risiede nella totale analogia con la posizione che negli stessi mesi prendeva Lenin stigmatizzando ogni «di­fesismo della Patria». L'articolo analizza tutte le motivazioni del corrente difesismo e le confuta una per una, dimostrando come l'accettare questa in­sidia metterebbe il partito proletario in una situazione di totale disarmo della propria azione.

È mostrato come gli estremi dell’aggressione e dell’invasione territo­riale non coincidano affatto con quelli banali della colpa e della respon­sabilità delle guerre.

Se si ammettesse il sofisma della guerra di difesa cadrebbe qualunque possibilità di azione antibellica del proletariato e si cadrebbe nel famoso inganno della simultaneità obbligatoria dell’azione socialista entro i vari paesi. Al suo tempo questo articolo sollevò vivissime discussioni, e mobilitò intorno alle sue posizioni tutta la sinistra dei socialisti italiani. Il lettore ne potrà seguire agevolmente la deduzione e l'analisi.

 

 

Fra quelle tali formule dogmatiche belle e confezionate... che vorrebbero serrarci intorno al collo, a guisa di gioghi, coloro che, da molto e poco tempo, per fortuna loro e della società, vivono fuori del nostro convento, primeggia quella della «difesa nazionale».

Il giogo é accettato senza discutere da non pochi dei nostri: é deciso e consacrato che ben fanno quei socialisti i quali, come uomini e come partito, solidarizzano completamente con la borghesia nazionale nella difesa del patrio suolo, quando questo sia minacciato da un invasore.

Ecco, a consolazione di molti, un'eccezione solidamente incuneata ormai nella nostra... orripilante neutralità ad ogni costo. Ebbene, sia lecito discu­tere un po' più a fondo la questione oltrepassandone l'aspetto schematico ed esteriore, saggiandola con l'analisi del dubbio e della critica, che una volta tanto saremo noi ad adoperare, contro la Verità che ha già avuto il crisma ufficiale... del sinedrio antisocialista.

Non diversamente dal religioso che sente bestemmiare, i borghesi, i nazionalisti, i democratici guerrafondai, sentono rizzarsi i capelli sul capo quando vedono revocata in dubbio anche la santità di una «guerra di di­fesa». Poiché la comunissima opinione é stata accreditata, alla buona vec­chia maniera dei preti, con la citazione di un qualche detto latino, o con qualche esempio semplicisticamente sballato - vim vi repellere licet – se sono aggredito da un malfattore, ricorro alla violenza per difendermi. Questo modo di tagliare la testa al toro - poco degno di quelle teste pensanti che hanno scoperto e diagnosticato la nostra collettiva deficienza e scempiaggine - trascura la valutazione di tutti i coefficienti che van tenuti presenti se veramente si vogliono evitare le abitudini mentali del dogmatismo più crasso.

Per verità l’ex direttore dell’Avanti!», alcuni mesi addietro, dopo aver fatto della questione di cui ci occupiamo la pietra di paragone per distinguere i socialisti dagli anarchici (?!), la prospettava dal punto di vista proletario pressappoco nel modo seguente: per quanto i lavoratori siano coloro che, nulla possedendo, nulla avrebbero da perdere, pure sono essi in realtà le maggiori vittime di un'invasione straniera, non potendo fuggire dinanzi all’esercito nemico come possono fare coloro che dispongono di mezzi finan­ziari. Gli operai restano quindi maggiormente esposti alle rappresaglie, alle atrocità, alle repressioni nemiche, e di questo fatto non può disinteressarsi il partito socialista, che ha in un caso simile il dovere di partecipare con tutte le sue forze alla guerra contro l'invasore, rinunziando alla sua pregiu­diziale opposizione politica contro lo stato borghese.

Da un punto di vista più generico, si potrebbe dire che il proletariato ha interesse a che venga conservata l'integrità territoriale della nazione, per evitare che alla sua soggezione di classe si venga a sovrapporre un'oppres­sione straniera. Dinanzi ad un pericolo che minaccia lo stadio di libertà po­litica ed il benessere economico già raggiunti, i lavoratori dovrebbero far causa comune con la borghesia, aprendo una parentesi nella lotta di classe fin quando non sia garantita la sicurezza dei confini...

È vero che la minaccia di una invasione genera una coincidenza d'in­teressi fra tutte le classi sociali di uno Stato, e che il trionfo del nemico costituisce in tal caso per il proletariato un danno materiale e politico; ma una tale minaccia, a causa del militarismo diffuso in tutti i paesi e del suo incremento continuo ed universale, grava permanentemente in tempo di pace su tutti i proletari, e si realizza subito dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra due o più governi borghesi a danno delle classi lavoratrici di tutti i paesi che entrano in guerra.

In tale critico e febbrile momento, il Partito Socialista dovrebbe inda­gare se si realizzano o meno gli estremi della difesa nazionale, per decidere se il suo atteggiamento deve essere di concordia completa con gli altri partiti e col governo o di esplicita avversione - la quale può esplicarsi in modi diversissimi: da un voto platonico fino alla proclamazione dell’insurrezione operaia. Tale indagine é resa anzitutto impossibile dal fatto che nei moderni stati la politica estera costituisce lo stretto monopolio delle sfere dirigenti e tutta l'azione diplomatica é tenuta segreta sottraendola persino al con­trollo parlamentare. Come dunque assodare a quale delle borghesie belligeranti spetti la responsabilità della guerra, quando tutti i governi dichia­rano di esservi stati trascinati per forza mentre lavoravano ad assicurare la pace; e nel momento in cui urge decidere sulla propria azione?

Ma non é questo il punto principale della questione. Anche quando si sia limpidamente accertato qual’é lo stato che ha provocato la guerra, non si é con ciò stabilita una differenza sostanziale fra le condizioni dei diversi paesi dal punto di vista dei rischi e del pericolo d'invasione a cui sono esposte le regioni di frontiera. Mentre le mobilitazioni degli eserciti avver­sari si svolgono con poche ore di differenza, mentre si ignora quali stati faranno causa comune con l'aggressore o con l'aggredito, tutte le nazioni interessate si trovano esposte al pericolo di un'invasione, corrono il rischio di una futura oppressione politica, tutte le patrie sono in pericolo e per tutte si realizzano in ultima analisi le condizioni della difesa nazionale. Quando nel 1859 la Francia e il Piemonte dichiararono guerra all’Austria, fu subito invasa dall’esercito austriaco la provincia di Novara. Nel 1870, lo Stato francese, che si proponeva di schiacciare la Prussia, si trovò ben presto nelle condizioni della più disastrosa difensiva. È evidente che in tutte le guerre fra stati confinanti, il pericolo minore o maggiore che cor­rono i vari paesi non é in ragione dell’origine della guerra, ma della mag­giore o minore efficienza militare o della fortuna delle armi; e ciò special­mente perché tutti gli eserciti hanno in ogni momento pronti i progetti di mobilitazione ed i piani strategici difensivi e offensivi da seguire contro gli eventuali nemici.

È solo nelle guerre coloniali che coloro che ci tengono a portare certe distinzioni giuridiche nel campo dell’impiego della violenza possono sta­bilire con certezza, in fatto e in diritto, l'esistenza e la provenienza di una sopraffazione. Ma, strano caso, sono proprio le guerre coloniali quelle che trovano l'adesione dei democratici fautori del diritto di nazionalità; perché allora costoro tiran fuori da un'altra casella dei loro evolutissimi cerébri un altro pretesto: quello della diffusione della civiltà democratica!

Ritornando al nostro argomento notiamo che, all’inizio della guerra, as­sodata che sia la responsabilità di uno degli Stati, dinnanzi alla «Storia» od al «Diritto» - ciò che resta sempre per noi marxisti una vuota ed inutile astrazione, applicando questa diversità di colpe borghesi ad un diverso dovere dei proletari socialisti secondo che appartengano allo stato aggredito o all’aggressore, non si é fatto che far ricadere sul proletariato e sul partito socialista dello Stato che ha voluto la guerra le conseguenze della politica nefasta delle proprie classi dirigenti, obbligandoli a svolgere l'azione contro la guerra mentre i proletari dell’altro Stato sono autorizzati a marciare nelle file dell’esercito statale, agli ordini di un ministro della guerra socialista, per difendere la patria, sorpassandone se occorre, nello slancio generoso, le minacciate frontiere...

Queste sono le conseguenze a cui ci ha logicamente condotti l'assurdo concetto della legittimità socialista della guerra di difesa. Passando dalla teoria alla pratica, questa restrizione dell’attività antimilitarista del prole­tariato ha condotto al fallimento dell’Internazionale proletaria di fronte alla guerra europea. Diciamo fra parentesi, che parlando di azione del Partito Socialista contro la guerra, noi ci contentiamo di riferirci al desiderio mi­nimo del mantenimento della opposizione politica di classe contro lo stato anche in tempo di guerra, dipendendo l’ulteriore azione dalle possibilità contingenti del momento.

Il metodo ideale è quello della simultaneità dell’azione antimilitarista; ma è appunto questa simultaneità che é stata infranta dalla perniciosa e speciosa eccezione della «difesa nazionale» invocata, a torto o a ragione, sempre giocando e cadendo in un equivoco, dai partiti socialisti che in questo momento sono per la guerra. D'altra parte è assurdo supporre che l'opposizione politica o rivoluzionaria che i diversi partiti socialisti fanno in ragione delle proprie forze o della propria preparazione non si risolva in uno spostamento delle probabilità di successo militare dei belligeranti. E poiché le probabilità di vittoria di uno stato, aggredito o aggressore che sia, dipenderanno dalla sua potenza militare e dal maggiore o minor sviluppo delle tendenze socialiste in mezzo al proletariato, è certo che il Partito So­cialista, esercitando un'energica azione contro la borghesia della propria nazione, indipendentemente dalle responsabilità politico-diplomatiche di que­sta, aumenta le probabilità di sconfitta militare, di invasione nemica, di futura oppressione politica.

Il Partito Socialista si trova dunque in tutti i casi ad un bivio: o sacri­ficare sull’altare della patria la propria fisionomia e in gran parte il proprio avvenire, o indebolire, seguitando senza scrupoli la sua azione specifica, la nazione a cui appartiene.

Di fronte a questa responsabilità, la gravità della quale non dipende affatto dal famoso concetto della difesa o dell’offesa, il socialismo non do­vrebbe mai esitare, per non rinnegare tutto se stesso.

Ma, secondo la citata teoria mussoliniana, di epoca correntemente non sospetta, e secondo altre giustissime considerazioni, questo tradimento del Partito Socialista di fronte al nemico si risolve in un cruento sacrificio proletario. Questo è il modo equivoco di porre la questione che inganna molti socialisti.

Anzitutto, non sappiamo come la situazione guerresca creata dalla bor­ghesia possa non risolversi in un cruento sacrificio proletario, e non crediamo che saranno rese meno amare le lacrime alle madri dei soldati uccisi dal pensiero che essi sono caduti invadendo la terra altrui. Ogni azione socialista si risolve in una sofferenza proletaria. Il nostro è programma di negazione che non tende a rendere giuste e utili le istituzioni attuali, ma ad infrangerne le continue strazianti contraddizioni sotto l'urto della marea rivoluzionaria. Il proletariato riscatterà il sangue dei suoi figli a prezzo del sangue proprio; ed il socialismo non può trovare altra via per superare le nequizie e le infamie del mondo capitalistico. Non sembrerà assurdo agli uomini dell’avvenire tutta la storia contemporanea delle rivendicazioni sin­dacali, che si svolge col metodo dello sciopero nel quale gli operai si con-dannano alla fame e alla miseria per strappare un relativo aumento di benessere? Queste contraddizioni risalgono ai cardini del regime che noi combattiamo, e necessariamente si riflettono su tutta la nostra battaglia, che resterà nella storia come un eroico ma triste martirio, nel quale i con­flitti mossi contro l'interesse della classe dominante si risolvono sempre nella strage degli oppressi, scioperanti, sbirri, proletari fatti soldati sotto l'una o l'altra bandiera borghese.

Il dilemma e il bivio dinanzi a cui si trova il Partito Socialista é ana­logo allo shakespeariano «essere o non essere».

In nessun caso, senza rinnegare se stesso, il socialismo può rassegnarsi alla concordia nazionale. Questa è condivisa ed esaltata da tutti gli altri partiti sempre che la patria sia in pericolo, anche se per colpa o per vo­lontà del governo statale. Ma tale concordia non può e non deve essere comune a noi quand'anche la causa dell’orribile fenomeno della guerra fosse nella volontà dei governi nemici, magari con la illusa complicità dei loro popoli.

E ben diverso il sacrificio che compiono gli altri partiti da quello che si richiederebbe al nostro. Gli altri hanno nella concordia e nella pace so­ciale la finalità delle proprie ipocrite ideologie, che mascherano le incon­fessabili tendenze delle minoranze dominanti a conservare il privilegio dell’oppressione. Noi siamo invece il partito dell’aperta discordia civile, della proclamata lotta tra le classi, e portare il Socialismo al di fuori di questo campo, sotto pretesti presi a prestito dal mondo avversario, significa ucciderlo.

Noi riteniamo che coloro che corrono dietro al punto d'incontro fra il socialismo e i problemi nazionali, saranno ridotti a constatare che il solo modo d'intendere la missione storica delle nazionalità costituite in organismi statali è il nazionalismo, per il quale è una nazione e sempre la stessa che costantemente ha ragione; ed ha tanta ragione quanta più è la sua forza armata e minore la interna discordia delle classi.

Ad ogni modo si può sicuramente concludere che la soluzione meno felice, meno marxista, meno socialista, del problema dei rapporti fra so­cialismo e nazionalità, è quella che si esprime volgarmente nella frase fatta della «difesa nazionale».