Disfattismo proletario e ribellismo inconcludente

Pubblicato: 2009-12-04 14:40:02

 

Chi legge le nostre pagine ha ben più di un elemento per comprendere le ragioni concretissime che muovono gli Stati imperialisti nei loro rapporti nei vari settori dello scacchiere mondiale. Non è dunque una novità la valutazione di noi comunisti secondo cui i movimenti militari della Repubblica Italiana non sono altro che vere e proprie guerre per prendere e mantenere posizioni strategiche, che possano in un futuro conflitto interimperialista fungere da merce di scambio nel quadro delle alleanze dei vari fronti imperialisti, tenendo comunque in primo piano gli interessi vitali del capitalismo italico. Insomma, tutte le missioni di pace, di consolidamento delle democrazie e di lotta al terrorismo “islamico” sono la versione contemporanea delle guerre coloniali della seconda metà dell’Ottocento. Certo, sono cambiati gli argomenti, e inoltre l’esperienza di un secolo e più di “gestione” imperialista degli stati borghesi, lo “scrollone” che la pur sconfitta Rivoluzione Comunista (1917-1926) ha dato al sistema di dominio borghese e i due macelli interimperialisti hanno purtroppo insegnato alla borghesia che oggi, in virtù del fatto che non vi è più “terra vergine” dove impiantare capitalismo, non ha più senso un sistema di dominio coloniale diretto per spartirsi risorse, mercati, rotte strategiche, ecc. ecc.... Oggi, è necessario un sistema di “alleanze” con stati compiutamente borghesi (anche se fragili dal punto di vista istituzionale) e relativamente autonomi, nei quali comunque mantenere dei presidi militari.

Per di più, la fine del ciclo economico espansivo (con il 1975 che segna l’inizio del periodo di crisi strutturale, con i suoi epifenomeni finanziari), seguito al bengodi del secondo dopoguerra, ha coinciso con la compiuta modernizzazione del capitalismo in Russia – che dialetticamente ne ha rivelato la fragilità rispetto ai suoi avversari, determinando il crollo della sua rete di alleanze e interessi strategici. Dopo essersi arresi nella “guerra fredda”, i post-stalinisti non hanno retto l’“emulazione” e alla fine della “coesistenza pacifica” hanno subito la sconfitta economica. Con il 1989-90, i settant’anni di controrivoluzione hanno finalmente cancellato il finto socialismo, che ha partorito la solita nauseabonda e cadaverica democrazia, con la sua finzione liberista: vecchi “nuovi” mercati, nuove “vecchie” zone di influenza, le solite materie prime da controllare e trasportare...

In questa dinamica, dunque, la borghesia italiana, dalla spedizione in Libano ai tempi della strage di Tell-al-Zatar, in apparente rimorchio del potente alleato USA o in ossequio agli accordi europei, invia le sue truppe nel mondo.

Seguendo la sua inveterata vocazione opportunistica, la sostanziale lineare difesa del proprio interesse si esprime nel gioco delle parti delle sue fazioni politiche: dalla ipocrita accondiscendenza del pacifismo democratico (più o meno socialisteggiante, se non addirittura sedicentemente antimperialista) sempre pronto a partire per il Libano, il Kossovo e la lesa democrazia ovunque sia (ha mandato truppe financo nello sconosciuto Timor Est!) alla pratica e sbrigativa destra berlusconiana, per la quale in fin dei conti ogni pretesto è buono, perfino un’inesistente minaccia chimico-nucleare di un Saddam qualsiasi...

In missione, allora!, ma che non la si chiami guerra. E, tecnicamente, queste missioni neocoloniali sono solo spedizioni militari di posizionamento strategico per il futuro: non è ancora il tempo della guerra vera e propria.

Questo uso della violenza di stato fa parte del normale equilibrio instabile tra gli stati imperialisti che solo i gonzi in malafede – eredi ed esecutori testamentari dello stalinismo, del riformismo socialista e dell’antistalinismo democratico passato attraverso l’ibidrazione con ogni velleitarismo sessantottardo – possono chiamare pace, con la benedizione di tutti i sacerdoti di tutte le confessioni religiose: pace soprattutto perché è assente il conflitto di classe, la vera e sola guerra che temono.

La borghesia si muove come al solito a suo modo, mai in prima persona ma attraverso la sua manovalanza. Ieri, con i soldati di leva; oggi, con i volontari e i volontarizzati, in entrambi i casi (tolti, ovviamente, i veri “professionisti”: gli ufficiali e i tecnici, quella categoria che costituisce la spina dorsale della piccola borghesia urbana espressione viva e concreta della struttura di dominio dello stato borghese) anch’essi salariati, venditori di forza lavoro gettati in vario ruolo nella generale valorizzazione del capitale, ad esso schiavi in tutto e per tutto.

Finché l’energia sociale rimane bassa, finché il proletariato “industriale” delle metropoli non riprenderà il suo percorso di lotta, questo segmento di salariati rimarrà soldato, etimologicamente mercenario, cioè assoldato servo della classe dominante. Più ancora di altri segmenti rimarrà abbagliato e fiero delle catene di oro finto con le quali il capitale lo aggioga: un salario superiore alla media e duraturo, alloggio garantito, ruolo sociale e ideologico dell’eroico guerriero protettore della Patria, del bene comune, e via salmodiando. Solo la morte, la ferita o l’invalidità per causa di servizio possono – oggi – farlo tentennare e portarlo ad una debole reazione “sindacale”, ben riassorbibile dallo stato sociale. Allarghiamo lo sguardo oltrefrontiera: i soldati USA sono il prototipo di un’aristocrazia salariata pasciuta e vezzeggiata (dalla scuola per i figli alle cure sanitarie, alla pensione e, per gli immigrati, la cittadinanza a fine servizio...).

Come per tutto il proletariato (e ovunque tra i salariati dei più vari segmenti), la coscienza di classe – o meglio, la consapevolezza del proprio appartenere ad una classe, con una propria autonomia politica ed una propria finalità storica – non è una caratteristica innata o acquisibile immediatamente, grazie al ruolo ricoperto nella divisione del lavoro. E’ un risultato dinamico che nasce dall’antagonismo sociale generale tra Capitale e Lavoro (questo sì connaturato al modo di produzione capitalistico) e dall’intervento in esso, come autentico reagente, del Partito rivoluzionario, vero depositario della scienza della rivoluzione.

Ora, è più facile percepire quest’antagonismo nell’organizzazione industriale ed è per questo che il primo a muoversi è il proletariato delle metropoli e con il crescere quantitativo e qualitativo delle sue lotte esprimerà, attraverso e con l’azione del suo Partito (l’organo di classe per il cui restauro integrale nelle lotte di ogni giorno noi comunisti non ci stancheremo mai di lottare), quella conoscenza dei suoi compiti storici che trascinerà l’intera classe verso il rovesciamento insurrezionale dello Stato borghese. Ma domani, al tempo dello scontro di classe, i soldati – a questo punto, veri e propri proletari in divisa saranno al centro dell’attenzione, ai fini del successo dell’insurrezione armata diretta dal partito. Attenzione, però: anche in quei convulsi momenti ci sarà ancora, con o senza divisa, chi si schiererà “dall’altra parte”.

Compito dei rivoluzionari – proletari tra i proletari, ma, in quanto disciplinati militi del partito comunista, consapevoli del percorso storico e programmatico dell’intera classe indipendentemente dal livello contingente delle sue reazioni politiche – è accompagnare e preparare l’intera classe a svincolarsi dall’abbraccio mortale con il quale la borghesia nazionale vorrà sacrificarla sull’altare dei propri interessi economici e politici, spedendola in guerra a massacrare e farsi massacrare. E questo vuol dire propagandare e a suo tempo praticare il disfattismo proletario. (1)

La rottura della massima finzione borghese, la ragion d’essere della forma politica dello Stato borghese (la Nazione, la Patria), passa attraverso un’azione continua, meticolosa e perfino pedante: nasce dal riconoscimento dei bisogni economici e sociali più elementari che l’economia del capitale in crisi non riuscirà più a soddisfare, cresce nelle lotte di difesa delle condizioni di vita e lavoro che rivendicheranno l’incompatibilità totale tra gli interessi del Capitale e quelli del Lavoro, si sviluppa nella lotta politica che rivendica l’antagonismo tra le istituzioni della democrazia borghese e la vita del proletariato, per esplodere infine nella rivendicazione della presa del potere e della dittatura del proletariato.

Il disfattismo proletario deve penetrare in tutti i settori della nostra classe attraverso la propaganda e l’organizzazione comunista, compresa quella fetta di proletari “imprigionati” nelle istituzioni militari.

Coloro che con le scritte sui muri rivendicano le vittorie del nemico probabilmente pensano,  con l’azione individuale e diretta, di colpire il militarismo nostrano – di fare, schierandosi con le borghesie aggredite chiamate genericamente “popoli oppressi”, dell’antimperialismo. Ma in realtà con il loro velleitarismo non fanno altro che alimentare l’ideologia dell’unità di patria, rallentando con una pretesa fuga in avanti il più faticoso lavoro di preparazione all’antagonismo di classe. 

 

 

Note

 


 

 

1.  “Disfattismo proletario” è la parola d’ordine che la sinistra del PSI alla vigilia della prima guerra mondiale contrapponeva ai tentennamenti neutralisti dell’intero partito, ormai irrimediabilmente preda del riformismo nazionalista. All’ambiguità di un generico “né aderire né sabotare” (posizione ufficiale del PSI), si volle contrapporre un indirizzo che colpisse direttamente il bellicismo e l’unità di patria. “Disfattisti” erano detti tutti coloro che non si schieravano apertamente per la difesa della patria e la vittoria, e i nostri compagni ne aprofittarono per accompagnare quel sostantivo con l’attributo “proletario”, per poter trasformare un generico sentimento antibellicista in un’attitudine politica che favorisse lo sviluppo dell’antagonismo di classe: un modo per applicare la consegna internazionalista della trasformazione della guerra tra Stati in guerra civile, di classe. [back]

 

 
 
 
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2009)