Iran Religiosa o laica, democratica o bonapartista, la borghesia va abbattuta

Pubblicato: 2009-11-28 16:34:02

Trent’anni dopo

In un articolo di trent’anni fa (cui ne seguiranno molti altri, sulla nostra stampa in italiano e in francese), mentre giungevano forti le voci degli scontri che vedevano la classe operaia iraniana al centro delle lotte contro la dittatura militare monarchica, scrivevamo: “Una società gravida di contraddizioni come quella iraniana può secernere soltanto una forma di bonapartismo confessionale o laico, repubblicano o monarchico. Ma, nell’inevitabile decantazione del blocco unitario creatosi intorno agli oppositori dello Scià, non può non aprirsi al proletariato la via che, alla testa dei contadini senza terra e sotto la bandiera delle proprie rivendicazioni di classe, deve portarlo per necessità storiche ad assumere dittatorialmente il potere. Via lunga e difficile, ma la sola che al tormentato paese possa offrire una speranza non illusoria” [1]. Un anno dopo, così tornavamo sull’argomento: “E’ quindi radicalmente sbagliata la pretesa di chiudere gli avvenimenti storici di cui le ‘giornate di febbraio’ segnano il punto di avvio in una banale prospettiva democratica e antimperialista, anche se l’immediato ci presenta solo quello strano aborto che è ‘ la rivoluzione islamica’: le forze che si sono messe in movimento sotto quest’apparenza triviale e mostruosa e gli antagonismi che vi maturano spingono infatti verso un avvenire ben diverso. Che si sia ancora molto lontani da uno sbocco proletario della tragedia che si svolge sotto i nostri occhi, è incontestabile. Ma solo i teorici della vittoria immediata, solo chi sostituisce la rivoluzione, che è un fatto materialmente determinato, con un atto di volontà, possono immaginarsi che ciò condanni la nostra prospettiva. In ogni caso, il solo modo per preparare questo sbocco è di far valere nelle lotte presenti il bisogno dell’indipendenza di classe più assoluta e della rigorosa e decisa opposizione allo Stato, e a tutti i governi presenti e futuri, ai quali non si può strappare la minima concessione se non con la forza” [2].

Trent’anni dopo, quell’aborto mostruoso dal nome di “Repubblica islamica”, che era riuscito a cacciare dalla scena il proletariato per la tragica assenza del partito rivoluzionario, con l’aiuto solerte dell’opportunismo stalinista del partito Tudeh e grazie all’impotenza della piccola borghesia organizzata nei Fedayin, comincia a puzzare di cadavere sotto la pressione dei rapporti di produzione borghesi giunti a maturazione. Sono stati trent’anni di “rimessa a punto” di una borghesia industriale, di una forte classe di percettori di rendite petrolifere, di un numeroso ceto medio di commercianti e di una classe operaia oppressa da una montagna di illusioni, pescate da tutto l’armamentario vecchio e nuovissimo del consenso laico e religioso, partorito dallo stesso ventre borghese: ammortizzatori sociali, assistenza caritatevole e meriti nazionalisti, martirio patriottico e fedeltà sciita (“bandiera della lotta contro l’apertura ai valori dell’Occidente, copertura ideologica della lotta delle classi medie contro l’apertura alle sue merci e ai suoi capitali e organizzazione atta a canalizzare il movimento popolare”) [3]; trent’anni per erigere una nuova architettura dello Stato (“trasformazione della chiesa sciita in partito”, sorretta da una Costituzione la cui “ democrazia non potrà essere qualcosa di diverso da una ‘foglia di fico dell’assolutismo’ destinata a nascondere le nudità del terrorismo dello Stato”) [4], variante “democratico-religiosa”, a suffragio universale sulla base di liste preparate dal governo, come in ogni democrazia moderna che si rispetti, ma con una mistura in più: una dose massiccia di “oppio dei popoli”.

Lo spettacolo “misero, spregevole, affaristico” della democrazia occidentale qui è benedetto dal Clero. Così, si dichiara: “la Guida spirituale non può mentire, quando afferma che non ci sono stati brogli nelle elezioni del 12 giugno”. La borghesia illuminata (in tonaca e senza) non ne può più, vuole il cambio della Guardia e le giovani classi medie sempre in agitazione, pronte a obbedire e a reprimere, pronte a picchiare e ansiose di martirio, non vedono l’ora che “tutto cambi, perché nulla cambi”. Ansiosa di scavalcare politicamente le “guide spirituali”, sapendo benissimo che in Occidente la democrazia è una spezia indigesta, questa borghesia illuminata appoggia il movimento (“rifare le elezioni!”, “dov’è il mio voto?”) e offre ai giovani emergenti con telefonino e senza, con i blog e senza, su Internet e nei media, la possibilità di potersi fare un curriculum politico di tutto rispetto. Una classe dirigente ormai cadavere deve cedere il posto e accettare “in santa pace” di togliere il disturbo: contro il vecchiume mistico e maleodorante, il Nuovo vuole che siano aperte le finestre: ma ci vuole proprio uno stomaco di ferro per sentire odore di pulito per le strade di Teheran!

Il 70% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni. Gli universitari di Teheran rappresentano la fascia sociale più occidentalizzata e informata dell’Iran, afferma con grande sussiego la stampa internazionale (“sono dei terroristi, dei sovvertitori dello Stato”, minaccia il Governo). Nel 1999, scatenarono una rivolta che fu repressa nel sangue con decine di morti. Il loro obiettivo era di colpire i conservatori e le loro restrizioni (specie nei costumi e nei diritti delle donne). Contro di loro, vengono inviati i giovani picchiatori di Stato, la generazione dei ventenni all’epoca della Rivoluzione, con borse di studio per meriti speciali, per il controllo del territorio: sono i moralizzatori, sono le “ronde leghiste” motorizzate, uno dei due corpi delle forze armate, che sbilancia a favore dei religiosi l’esercito regolare.

La “Repubblica islamica” era stata una realtà seria e tragica, perché le lotte operaie furono al centro dello scontro sociale: lotte nelle fabbriche, nelle raffinerie, nelle strade, nel corso degli scioperi e manifestazioni, represse prima dalla Savak, la polizia dello Stato monarchico, e poi dalle milizie islamiche, che assicuravano così un trapasso indolore dal regime dello Scià a quello del clero, garantendo la continuità della struttura dello Stato – il quale intanto si dotava “di un’organizzazione in grado di inquadrare le masse e di canalizzare la rivolta, di smussarne il taglio, di isterilirne per quanto possibile il risultato” [5]. Mentre la dinamica sociale spingeva le masse operaie a superare quella prima tappa (punto d’arrivo invece per l’antimperialismo piccolo-borghese dei Fedayn, che faceva da contrappunto agli ayatollah chiedendo la piena partecipazione dei “rappresentanti dei lavoratori e degli operai delle città e dei villaggi, degli impiegati, dei commercianti, degli universitari, degli insegnanti, del clero e degli intellettuali nel Consiglio [rivoluzionario di Khomeini]”) [6], un anno dopo (e per otto anni!), il massacro e il sacrificio di 600 mila proletari, tra cui 150 mila ragazzini, mandati sul fronte della guerra anti-irakena, a morire tra le sabbie dello Chatt-el-Arab, riconfermavano il rafforzamento dello Stato borghese e la sua struttura religiosa. Proletari e contadini poveri, carne da cannone, cresceranno per altri vent’anni nel ricordo della Resistenza nazionale contro il dittatore Saddam Hussein (il quale – ricordiamolo! – era foraggiato dal “grande Satana” occidentale, da cui verrà infine condannato a morte per genocidio di masse inermi, grazie a quelle stesse armi chimiche che le già alleate potenze occidentali gli avevano venduto... altre storie tragiche, tipiche dell’imperialismo...). Ed è proprio su questo sacrificio di vite proletarie, compiuto fra il 1980 e il 1988, e sul ricatto conseguente, fatto di laute assistenze sociali ai figli e parenti dei “martiri” di quell’ennesima guerra sporca (vera Resistenza iraniana), che si fonda in parte l’assenza della classe operaia dal proscenio di un Iran che subisce esso pure i contraccolpi della crisi economica.

 

Lotta politica ed economica interborghese

La crisi politica attuale nasce tra le maglie dei poteri dello Stato, nei palazzi del potere, mentre imperversa una crisi profonda nel capitalismo e nei rapporti di produzione borghesi a scala mondiale. I protagonisti sono le “mummie della prima ora”, che non riescono più a gestire i mutamenti avvenuti nei rapporti sociali. Da anni, la defenestrazione della nomenclatura originaria è in pieno corso. Da anni, la burocrazia originaria subisce il benservito alternando nuovi reggitori alla guida dello Stato. Da due versanti, la crisi politica cerca di liberarsi, in tempo di crisi, delle vecchie pastoie religiose: i conservatori, legati ai pasdaran e al clero più intransigente, con un presidente laico (Ahmadi Nejad) e una guida spirituale “riformata” (Kamenej), spingerebbero verso una dittatura militare in “stile occidentale” (si mormora che la “sovranità del popolo” – la Repubblica islamica – potrebbe essere sospesa in nome della “sovranità divina”), rafforzando il Governo islamico in modo da affrontare senza fronzoli modernisti lo scontro di classe che si va preparando; i riformatori conserverebbero invece tutto l’involucro spirituale “riformato”, rammodernando l’apparato economico, normalizzando i rapporti con l’estero e ritessendo le vecchie alleanze con gli Usa e le nuove con Russia e Cina, oltre a ridurre il contenzioso con Israele e ad abbracciare fraternamente il capitale mediorientale in piena effervescenza economica e finanziaria. Dunque, da una parte, i rappresentanti politici di settori della borghesia legati alla rendita fondiaria e petrolifera (la posta in gioco sono il potere e il controllo del 7% del petrolio e del 15% del gas del pianeta), che distribuiscono prebende statali attraverso la rete delle moschee con le loro appendici associative e di mutuo soccorso [7]; e, dall’altra, una borghesia imprenditoriale e commerciale [8], dotata di una rete di consensi all’estero e di interessi economici stranieri. Vecchie strutture stataliste e protezioniste si confronterebbero dunque con le nuove attività finanziario-industriali , che porterebbero l’Iran ad aprirsi verso il Patto di Shanghai (che unisce Russia, Cina e i Paesi dell’Asia centrale, Tagikistan e Uzbekistan) e a stringere stretti rapporti economici con Afghanistan e Pakistan, che offrono sbocchi alle esportazioni iraniane e all’alta tecnologia acquisita in campo nucleare. In realtà, al di sopra dei contendenti, oltre la cortina fumogena delle ideologie e dei progetti, il Capitale richiede l’uscita da una situazione politica che sta sempre più stretta alle forze produttive capitalistiche ormai mature: ma, per farlo, è urgente rafforzare lo Stato, con o senza fronzoli islamici.

Si tratta dunque di una lotta interborghese tra riformatori (che hanno il consenso e l’appoggio dei nuovi ricchi e di imprenditori disposti “comunque” a garantire la sopravvivenza della Repubblica islamica, in cambio d’una più ampia distribuzione delle risorse) e conservatori (le cui ricette economiche si fondano sulle Fondazioni, responsabili di aver portato l’inflazione al 25% e la disoccupazione operaia al 20% , a cui si è stati costretti ad andare incontro con sovvenzioni e ammortizzatori sociali per comprarne il consenso in un trapasso politico estremamente fragile). I media occidentali lo chiamano “scontro di élites”, lotta tra “caste sacerdotali e militari”, che avrebbe come sua naturale conclusione una dittatura clericale o militare: in realtà, siamo di fronte a una fase ancora acerba della lotta sociale, in cui classi e settori di classe (borghesia e proletariato in primo luogo, e i ceti intermedi), vanno prendendo posizione.

 

Crisi politica e crisi sociale

Mentre la massa dei più poveri e il proletariato disoccupato sopravvivono grazie ai sussidi statali, il ceto medio si ritrova con un reddito in caduta libera: in questi anni, il processo di proletarizzazione ha colpito ampiamente le sue diverse componenti e ha fatto crollare molte delle illusioni garantiste e caritatevoli fornite dalla “democrazia islamica”. Le lotte di queste ultime settimane rappresentano solo una prima fase dello scontro, che vede assente per adesso la gran massa degli operai. Pensare però che i lavoratori siano del tutto integrati tra le file dei conservatori ed estranei dunque alle rivendicazioni liberali della classe media, presumere che essi si preoccupino soltanto di questioni puramente economiche e che tendano verso il cupo fanatismo del clero, quando si tratta di questioni di democrazia e di diritti delle donne, è una visione del tutto errata. In realtà, tra i più attivi nelle lotte economiche e politiche di questi anni, gli operai iraniani sono di gran lunga i più anti-governativi e in buona parte hanno senz’altro visitato le patrie galere. In realtà, la “questione di classe”, in assenza del partito comunista rivoluzionario, si traduce invariabilmente da parte del proletariato nella richiesta “immediata” della “democrazia conseguente”, tradendo così la propria natura di classe. Economicismo e riformismo sono la risposta di un proletariato disarmato teoricamente, politicamente e organizzativamente, in Iran come altrove. La potenza organizzata dei lavoratori è, nonostante tutto, necessaria alle classi medie e utilizzabile soprattutto per rendere efficaci le loro richieste di riforme democratiche. Al contrario, pensare che una vittoria della piccola borghesia possa dare uno stimolo incoraggiante alla classe lavoratrice, facilitando la sua rapida auto-organizzazione al di fuori dei sindacati approvati dal Consiglio del Lavoro Islamico, è pura bestialità. Le manifestazioni e le sommosse si sono diffuse caoticamente nelle aree proletarie di Isfahan, dove i dimostranti hanno scacciato la polizia, e nella città meridionale di Yazd, propagandosi poi ai distretti operai di Tehran meridionale. Ovviamente, le manifestazioni operaie non potevano sfuggire al loro carattere ancora dominato da prospettive piccolo-borghesi. Poiché i cortei avrebbero potuto assumere anche il segno di un’aperta ribellione al potere teocratico, il primo passo di Kamenej è stato quello di ribadire che “l’islamismo non si tocca”: e con esso non si tocca il sistema che prevede il governo del clero. Il movimento, d’altro canto, che nella sua impostazione di massa non ha superato un carattere tutto interno alla legalità, ha voluto dare il segno del consenso indossando il verde islamico e invocando Allah: insegne religiose di cui tutti ormai si libererebbero volentieri. L’apertura delle danze, quindi, come di regola, è stata inaugurata dai ceti piccolo-borghesi, “questi ‘oppressi’ nella lingua, nelle università, nelle carriere borghesi ” [9]: ma anche dal giovane proletariato ribelle e precario senza prospettive di futuro e soprattutto dalle giovani donne proletarie, che nelle lotte di trent’anni fa furono in prima linea.

Nelle settimane di fine giugno, il tentativo di opporsi legalmente (oggi sotto garanzie democratiche e promessa di legittimità) è stato tuttavia represso nel sangue (decine i morti e centinaia gli arrestati, cui si promette l’impiccagione). Il giro di vite sui giovani continuerà con pervicacia notte e giorno, mentre nei palazzi si appresterà la resa dei conti o una soluzione di compromesso. Il riferimento riformista pragmatico e moderato (quella che da noi si chiamerebbe la “sinistra democratica”, ovvero l'establishment clericale sciita costituito dal gruppo Moussavi, Rafsanjani, Khatami, ben insediati nelle stanze dei bottoni, che cerca di convincere i ceti popolari della giustezza della lotta per il cambiamento) al momento ha molte vie d’uscita. Esso porterebbe direttamente verso la resa senza condizioni, e verso un grande bagno di sangue, se il vero nemico di classe, il proletariato, si affacciasse prepotentemente sulla scena. Lo sciopero generale contro il potere minacciato da Moussavi in un momento di panico dimostra che tutte le carte non sono state giocate e non possono essere giocate apertamente.

La convinzione diffusa è che l’evoluzione del regime komeinista sia ancora possibile, che una riforma dottrinale sia necessaria, che lo sciismo possa ancora sostenere politicamente e socialmente la crisi economica. Dopo i tentativi “riformisti” falliti negli anni passati, l’obiettivo conservatore di Ahmadi Nejad di indebolire il clero, potenziando l’apporto dei militari, potrebbe riuscire e aprire una stagione di riforme politiche ed economiche dall’alto, garantendo alle forze produttive una transizione pacifica.

 

La rivoluzione proletaria tesse la sua tela

Il diversivo degli arresti in quanto provocatori dei funzionari britannici (che in questi frangenti sguazzano nel loro brodo naturale) tenta poi di trascinare l’intera “nazione santa” verso il difesismo. Si tratta di un diversivo che ha molti cultori anche nelle sinistre radicali europee, nazional-antimperialiste per vocazione: qualche voce attacca già queste manifestazioni come prodotto architettato dalla propaganda occidentale contro l’indipendenza nazionale iraniana e già chiama Mousavi “traditore della patria”. Le sanzioni economiche e politiche che si vanno preparando al G8 dell’Aquila porteranno ad altri giri di vite e costringeranno i riformatori a svuotare la piazza, a meno che si giunga a un compromesso. I diversivi tattici della “ritirata” dell’esercito americano dall’Irak e dell’attenuazione della pressione sui palestinesi in nome della loro autodeterminazione, l’offerta del ristabilimento di un gentlemen’s agreement che includa la questione del “nucleare pacifico”, mentre lo scenario mediorientale, sotto la spinta della crisi economica, si prepara al cambiamento, porterebbero, se la rotta non viene cambiata, la borghesia iraniana verso l’isolamento dal contesto degli affari mondiali. La confusione che regna tra le fila della classe politica è frutto dell’impotenza, della paura della perdita nell’immediato di privilegi e rendite. La decisione di una parte consistente delle classi medie e del “proletariato democratico” (vale a dire, dell’opportunismo, pianta di ogni clima) di scendere in massa nelle piazze è il segno inconfondibile che occorre cambiare la “struttura gerarchica della classe dominante” e innestare forme di riorganizzazione sociale: ma solo il patteggiamento legale viene innalzato a obiettivo. Manca il coraggio, manca la sfida che solo una classe, che non ha nulla da perdere oltre le proprie catene, può mettere in campo.

Trent’anni fa scrivevamo: “La rivoluzione iraniana è al limite fra due epoche. Arriva troppo tardi per rappresentare un vero ‘supplemento di rivoluzione’ borghese. Ma, nello stesso tempo, arriva troppo presto perché la classe operaia sia in grado di collegare l’esigenza immediata della liquidazione dei vecchi resti feudal-imperialistici alla soluzione del nuovo antagonismo che oppone il proletariato e, alle sue spalle, le masse proletarizzate delle città e delle campagne, in collegamento con la classe operaia internazionale, al capitale, alla borghesia nazionale, all’ordine costituito locale e all’imperialismo” [10].

Quel tempo è arrivato. Il tempo della nostra rivoluzione, quella proletaria, è davanti a noi e le borghesie ne avvertono in profondità i boati. In questa prima fase, solo alcuni episodi di lotta operaia hanno acceso i riflettori: e non poteva non essere diversamente. E’ poco ancora. Quel che sappiamo è che la rivoluzione proletaria non fila più il suo tessuto all’interno di una sola nazione, non si apre più il suo percorso dentro un unico paese, ma in un intreccio internazionale. Al tempo delle rivoluzioni nazionali, il comunismo internazionale approfittò di quel passaggio borghese per innestare la sua rivoluzione. Oggi non più: quella tensione rivoluzionaria che spingeva alla lotta la borghesia e il suo seguito di ceti medi si è esaurita. L’assoggettamento del proletariato alle borghesie nazionali da parte dello stalinismo ha fatto sì che quell’energia rivoluzionaria, che esse non possedevano più, venisse loro servita gratuitamente su un piatto d’argento, proprio dal proletariato, con le conseguenze controrivoluzionarie che ancora adesso scontiamo. E tuttavia, come osservò Marx, la borghesia ha sempre paura di far scendere in campo il proletariato, anche in sua difesa, se non ha preparato già i mezzi per ucciderne in seguito lo spirito rivoluzionario: sa bene l’enorme pericolo che corre nel risvegliare il proprio nemico storico.

Da un luogo all’altro, le masse proletarie mandano i segnali anticipatori (ancora fievoli e isolati) della guerra di classe. Se essa si sprigionerà dalle contraddizioni accumulatesi in Iran, non c’è alcun dubbio che il proletariato, senza etichetta nazionale, saprà riprendere in mano i compiti storici della propria classe: abbattimento del potere borghese, in qualunque forma si presenti, e instaurazione della propria dittatura come ponte di passaggio verso la società senza classi. Ma perché tutto ciò si avveri è prima necessario (e anche i “fatti di Iran” stanno a dimostrarlo) che il proletariato torni a incontrare (e riconoscere) il proprio partito rivoluzionario: rendere possibile questo incontro è il compito di noi comunisti.

 

Note




1. “L’eredità Pahlevi: rivoluzione capitalistica alla cosacca”, Il programma comunista, n .2/1979.[back]
2. “L’Iran nella visione marxista”, Il programma comunista, n.2/1980.[back]
3. “L’eredità Pahlevi”, cit. [back]
4. Idem. [back]
5. “In Iran, il fossato fra proletariato e borghesia è destinato ad allargarsi”, Il programma comunista, n.12/1979. [back]
6. “Lo Stato va riformato o distrutto?”, Il programma comunista, n1/1980. [back]
7. Le Fondazioni sono strutture finanziarie, ma non si occupano solo di questo: infatti, controllano fondi per miliardi provenienti da miniere, industrie tessili, impianti farmaceutici, fattorie, allevamenti e partecipazioni in imprese straniere, oltre ad alberghi, stabilimenti e derivati del petrolio e del cemento. [back]
8. Ha infatti il controllo della Daewoo, di alcune linee aeree, miniere di rame, esportazioni del pistacchio, costruzione del metrò di Teheran... [back]
9. Dal nostro articolo “Il proletariato e Trieste”, Battaglia comunista, n.8/1950. [back]
10. “L’Iran nella visione marxista”, cit. [back]

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2009)