Lo stalinismo. Non patologia del movimento operaio, ma aperta controrivoluzione borghese (I)

Pubblicato: 2009-11-08 17:22:51

 

Premessa

Prima di affrontare un tema così complesso, alcuni chiarimenti sono opportuni.

a) Usiamo il termine “stalinismo” ben consapevoli della sua inefficacia e ambiguità nel descrivere fenomeni radicati nella storia della lotta di classe e non frutto dell’agire di individui, come potrebbe far intendere il termine: ma la lingua è strettamente legata al modo di produzione, ne è diretta emanazione ideologica, e di essa siamo obbligati a servirci, pur con tutte le sue limitazioni. Sia ben chiaro dunque che, come Marx ebbe a dichiarare “Io non sono marxista” (intendendo dire che la scienza della rivoluzione non è prodotto del pensiero e dell’azione di un singolo), così non fu prodotto del pensiero e dell’azione di un singolo la prassi della controrivoluzione: e tanto meno fu manifestazione di questa o quella “brama di potere” o “follia cieca”, o si trattò della “rivoluzione che divora i suoi figli” – tutte miserevoli amenità con cui l’ideologia borghese si diverte a dare una spiegazione di fatti che non può e non potrà mai comprendere. In quanto materialisti, noi respingiamo la concezione borghese dell’individuo come “facitore di storia” (al riguardo, si vedano i nostri testi “Il battilocchio nella storia” e “Superuomo, ammòsciati!”, del 1953, e “Plaidoyer pour Staline”, del 1956).

b) Rifiutiamo sia l’ipocrita approccio borghese che vede nel fenomeno storico detto “stalinismo” unicamente forme di violenza e prevaricazione, dimenticandosi che, finché questa violenza e prevaricazione era diretta contro la Vecchia Guardia Bolscevica, nessun ideologo borghese ha mai fiatato o, quando essa fu rivolta contro uno dei due schieramenti imperialistici in guerra, essa era bene accetta e celebrata, sia la reazione piccolo-borghese (anarchica, democratica, spontaneista) che identifica “stalinismo” e “comunismo”, portando un ulteriore attacco ai concetti-chiave del comunismo: il partito, la violenza rivoluzionaria, il terrore, la dittatura del proletariato diretta dal partito... Oggi, proprio l’ipocrisia e l’impotenza teorica della borghesia (in quanto classe da tempo superflua) la condannano alla ripetizione vuota e ossessiva dell’equazione “comunismo=stalinismo”: così facendo, i suoi portavoce non fanno altro che dichiarare di essere davvero... gli ultimi stalinisti circolanti. Anche in ciò, nell’aver cioè offerto nuove occasioni di falsificazione e mistificazione ai nemici storici del comunismo, lo “stalinismo” ha svolto opera profondamente controrivoluzionaria.


 

1. Introduzione

L’incessante battaglia teorica alla quale il nostro partito non è mai venuto meno in tutto l’arco della sua esistenza consiste anche nell’esporre con la massima chiarezza il fine che la storia ci impone – e cioè la vittoria su scala mondiale del comunismo, attraverso la distruzione violenta della società borghese e del suo dominio sui mezzi e sulle forme di produzione e di circolazione. È lo sviluppo stesso dell’economia e della società borghese a imporre che questo processo violento si attui su scala internazionale, come già chiaramente espresso dalla nascita del programma del comunismo scientifico (Manifesto del partito comunista, 1848) e della prima organizzazione mondiale del proletariato (Associazione Internazionale degli operai, o I Internazionale, 1864). Dopo tale atto violento, è indispensabile che venga esercitato un controllo rigoroso su tutte le forme sociali – di forza, di ideologia, di economia – entro le quali per un numero sufficiente di anni, o di generazioni, dovranno svilupparsi i nuovi rapporti di forza tra le classi, fino alla loro scomparsa. Questo periodo fu chiamato col nome (che noi rivendichiamo con orgoglio, come elemento qualificante della nostra azione) di dittatura del proletariato. Durante questa fase cruciale, le misure di carattere economico dovranno giungere alla drastica riduzione della giornata di lavoro ed alla fine della condizione per la quale il lavoro umano è determinato dalla necessità (ciò che oggi significa “necessità di campare”, di lavorare sotto le condizioni dettate dal Capitale) – cioè alla fine della società divisa in classi. Solo allora “comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà” (Marx, Il Capitale, Libro III, VII, cap. 48).

Noi riconosciamo la società comunista da questi presupposti: da essi, infatti, consegue la scomparsa dell’economia di mercato in tutte le sue forme (denaro, valore di scambio delle merci, banche, rendite, profitto, salario): un’economia che mantenga nel proprio tessuto anche una sola (se mai fosse possibile, e non lo è) di queste categorie, non può essere comunista, perché tradisce, nella sua struttura, un rapporto di dominio di classe basato sullo sfruttamento della forza-lavoro per la produzione di plusvalore. Al contrario, è un’economia (e dunque una società) pienamente capitalistica – anche da un punto di vista sovrastrutturale, ideologico.

Contro il comunismo, si erge un nemico che non è solo armato fino ai denti di mezzi di polizia e di controllo militare. Vi è, assieme e accanto a ciò, un potente apparato ideologico che, mentre disorienta le masse proletarie e cerca di impedirne la riorganizzazione politica, costituisce non da oggi il più sicuro sistema di protezione dell’apparato borghese. Celando agli occhi delle masse sfruttate i veri termini del conflitto sociale, questa idra a molte teste (le teste del riformismo, dell’opportunismo, del pacifismo sociale, dell’immediatismo, del sindacalismo, ecc.) si è storicamente proposta come l’alternativa dialettica al fascismo (alla violenza esplicita della dittatura borghese), ma sempre con la stessa identica funzione. Essa ha preso il nome di democrazia (l’inganno secondo il quale gli sfruttati possono realizzare i propri “diritti” nella fabbrica, negli organismi amministrativi, nello stato) nei paesi a più antico sviluppo capitalistico, e di stalinismo in quelli variamente legati alla pratica economica, sociale e politica realizzata brutalmente a partire dalla metà degli anni Venti dello scorso secolo in Russia: di qui, questo nemico di classe del comunismo si è inoculato come dottrina di controllo sociale in tutti quei partiti comunisti europei che, benché formatisi nel primo dopoguerra sull’onda del vittorioso Ottobre rosso, vergognosamente passarono, nel breve volgere di un decennio, armi e bagagli al fianco delle borghesie imperialiste.

È precisamente di questo secondo aspetto, che per comodità definiamo “stalinismo” (e del quale cercheremo di dare una definizione più scientifica nel corso della trattazione), che ci occuperemo in una serie di articoli. E ciò non solo per l’indubbio interesse che questo argomento deve avere nella formazione e preparazione dei militanti rivoluzionari, ma anche e soprattutto perché esso, nelle multiformi varianti storiche che lo animano, si ripresenterà necessariamente in modo virulento non appena la tensione rivoluzionaria internazionale riprenderà a crescere – cosa che i nostri studi sul corso del capitalismo mostrano non solo ineluttabile, ma non lontana. Rinunciare quindi fin d’ora ad aggiornarne un bilancio, sulla falsariga di quanto il nostro partito non ha mai cessato di fare negli ultimi ottanta anni in tutti i campi della lotta contro prassi e ideologie nemiche, sarebbe condannare l’organizzazione rivoluzionaria, e con essa – nuovamente – l’intero proletariato, a un nuovo, catastrofico fallimento. La critica che abbiamo rivolto, fin dal suo nascere, allo “stalinismo” si sviluppa dunque sul piano della storia e della politica, certamente non su quello degli individui o dei “capi”. Essa si deve basare sul rapporto di forza tra classi sociali e non può cedere di fronte alle tentazioni ideologiche democratiche, di cui sono andati sempre infetti i portavoce occidentali della piccola borghesia “di sinistra”, che menano scandalo per le libertà violate nella Russia stalinista, ma tacciono sugli orrori dell’intero sviluppo della storia del capitalismo.

 

 

2. Alcune false soluzioni

Lo stalinismo rappresenta, senza peraltro esaurirne le caratteristiche, ciò che abbiamo chiamato la “terza ondata dell’opportunismo”, dopo la “prima”, dominata dal riformismo socialdemocratico che permea i partiti socialisti europei all’indomani della sconfitta della Comune di Parigi, e dopo la “seconda” che – come corollario e conseguenza della prima – porta alla generale, vergognosa adesione socialista (con pochissime eccezioni) alla Prima guerra mondiale e al pieno appoggio alle borghesie nazionali in lotta tra loro, spezzando così qualsiasi forma di legame internazionalista proletario.

Gli orrori della guerra, la miseria che ne seguì, il successo della Rivoluzione russa, fecero sperare per alcuni anni che si potesse giungere alla costituzione di quell’organismo politico internazionale in grado di mettersi alla guida delle lotte per la conquista del potere. Gli insuccessi che ne seguirono (in Ungheria nel 1919, in Italia nel 1919-20, in Germania nel 1918-19, nel 1921 e infine nel 1923), per gravi che fossero, non avrebbero dovuto comportare l’abbandono dei principi teorici che si erano messi a punto nei primi due Congressi dell’Internazionale comunista a Mosca (1919 e 1920). Tutti i partiti avrebbero certamente subito, da quelle sconfitte, un contraccolpo sul piano dell’azione e su quello della tattica su scala generale, ma in nessun modo si doveva rinunciare a difendere quei principi, salvati i quali la ripresa – che si sapeva certa con l’apparire delle nuove crisi economiche e sociali che già si presentavano nel vicino orizzonte – sarebbe stata resa più facile e più rapida. Questa era la nostra ferma posizione, la posizione della Sinistra comunista, vigorosamente difesa nei congressi e sulla stampa in Italia, e in una dura battaglia in campo internazionale, tra il 1924 e il 1926 a Mosca. L’abdicazione a quei principi e a quelle posizioni ha significato invece l’apertura di un tremendo ciclo di sofferenze per il proletariato internazionale, che è dovuto passare prima attraverso gli orrori del secondo macello mondiale, poi attraverso la sferza della ricostruzione capitalistica del secondo dopoguerra e, infine, attraverso l’approfondirsi della nuova crisi economica e sociale entro cui sta avvitandosi oggi il modo di produzione capitalistico, senza poter contare sulla propria organizzazione mondiale di combattimento.

Ciò che si definisce “stalinismo” si stava enucleando in Russia proprio in quegli anni. Gli storici borghesi vedono in quel periodo l’inizio di una dittatura personale, fondata sull’inganno e sulla furbizia di un uomo – Stalin appunto – che “seppe prendere il potere” approfittando delle difficoltà del partito e della “mancanza di democrazia” interna, ciò che rendeva dunque possibile una “svolta autoritaria”. Lo stesso Trotsky, nella biografia dedicata a Stalin, non individua sempre in modo lucido il processo degenerativo in atto nel partito come una conseguenza della crisi internazionale del movimento comunista, e preferisce attribuirla, da profondo conoscitore della storia del partito bolscevico, a fattori soprattutto interni: “I tre anni di guerra civile avevano impresso sul sistema sovietico un marchio indelebile, a causa dell’abitudine presa da molti suoi membri di comandare ottenendo una sottomissione incondizionata […] Il partito era diventato una massa plastica, pronta a subire ogni pressione; era fatto di giovani capaci solo di dir di sì ai politici di mestiere che li governavano. Ciò va ricordato perché è necessario a spiegarci come la macchina burocratica del partito e del governo potè vincere il ‘trotzkismo’ o, in altre parole, il bolscevismo dei tempi di Lenin” (Trotzky, Stalin. Garzanti 1962, p. 420). Questa “degenerazione burocratica” della rivoluzione sarebbe dovuto essere ostacolata, nel pensiero del grande rivoluzionario, da banali misure di democrazia interna nel partito, nella convinzione che il processo fosse legato a un processo politico interno al partito più che a una trasformazione in atto nei rapporti di classe in Russia e in quelli internazionali.

 

 

3. La rivoluzione russa

La questione va analizzata ricordando che la Rivoluzione russa non fu una rivoluzione comunista in senso stretto. Lo fu, naturalmente, sul piano politico, in quanto il partito bolscevico che prese il potere era un partito marxista e teoricamente maturo: un processo di maturazione iniziato negli anni Ottanta del XIX secolo nella lotta contro lo zarismo e a stretto contatto con il socialismo europeo, e terminato poi, attraverso una serie di crisi organizzative e di battaglie teoriche, con il ritorno di Lenin in Russia e la presentazione delle “Tesi di Aprile”. Ma la Rivoluzione russa non poteva certo essere una rivoluzione comunista “completa” sul piano economico e sociale, a causa dell’enorme arretratezza dell’impero zarista: da questo punto di vista, la Rivoluzione russa doveva accollarsi tutti i compiti di una rivoluzione borghese. I proprietari fondiari dovevano essere espropriati, il feudalesimo eliminato, la grande industria moderna doveva cominciare a svilupparsi in modo massiccio: queste misure economiche non avevano nulla di socialista, ma implicavano, sotto la direzione del partito bolscevico, un’alleanza stretta tra il proletariato industriale concentrato in alcune città e le grandi masse di contadini poveri che erano prive della terra e che solo eventi storici di enorme portata avrebbero potuto spingere alla rivolta. Un tale evento, capace di catalizzare l’energia delle masse contadine, fu lo scatenarsi della guerra mondiale.

Dopo la presa del potere da parte del partito bolscevico, i principali problemi sul tappeto erano: 1) sul piano militare, mantenere il potere contro la reazione interna e contro gli eserciti occidentali schierati alle frontiere e pronti ad entrare in azione (di ciò si occupò Trotzky, con l’organizzazione dell’Armata rossa); 2) sul piano economico, attuare alcune immediate misure per riprendere la produzione nelle fabbriche e garantire in qualche modo la circolazione delle merci (di ciò si occupò Lenin, varando una politica economica che doveva garantire la libera circolazione di merci e rinsaldare l’alleanza con i contadini poveri mediante la nazionalizzazione della terra); 3) sul piano politico, stringere i tempi per saldare i legami con le masse operaie europee, soprattutto tedesche, per assicurarsi qualche anno di resistenza contro una ondata controrivoluzionaria interna – tanto nella società quanto nell’economia – che non poteva tardare a manifestarsi (e di ciò si sarebbe dovuta occupare una rinata Internazionale).

In conclusione, si può dire che al termine del primo triennio dalla Rivoluzione di Ottobre, nessun marxista degno di tal nome si poneva il problema di “costruire il socialismo”. L’unica urgente questione all’interno, relativa ai compiti del partito in quella fase storica, era posta dai fatti storici: combattere per non perdere il potere conquistato.

 

 

4. La ricostruzione internazionale

Un compito enorme attendeva invece il partito bolscevico all’esterno: riorganizzare le fila del proletariato europeo decimate dalla guerra e sconvolte dal tradimento della socialdemocrazia internazionale, schieratasi con la classe borghese a difesa dei sacri confini delle patrie.

Moti contro la guerra, casi di disfattismo rivoluzionario sui vari fronti, tentativi di contrastare l’alleanza tra le federazioni socialiste interventiste della II Internazionale e le grandi borghesie europee non erano certo mancati in tutti i paesi d’Europa, e si poteva concretamente immaginare una poderosa ripresa del movimento rivoluzionario nell’immediato dopoguerra: purtroppo, un tale movimento non può nascere solo per stanchezza, fame ed esasperazione, ma necessita della difesa della linea continua di classe, che il tradimento del 1914 aveva spezzato quasi ovunque.

Nondimeno, la pressione storica produsse una serie di vaste agitazioni. In Germania, il movimento spartachista condusse, purtroppo tardivamente (29 dicembre 1918), alla costituzione del Partito comunista (KPD) – un ritardo che fu pagato a carissimo prezzo con la decapitazione dei suoi migliori teorici e condottieri (Luxemburg, Liebknecht) e con la sconfitta del movimento dei consigli. In Italia, il “biennio rosso” naufragò nell’orgia demoparlamentare e cadde presto preda di quello sperimentalismo volontarista che condurrà alla folle idea (Gramsci) che, attraverso i consigli di fabbrica, si potesse pervenire al controllo della produzione in senso socialista senza la preventiva conquista del potere politico e militare. Inoltre, i brevi successi ottenuti in Baviera e in Ungheria verranno stroncati, quasi sul nascere, dalla violenta reazione borghese, mentre le grandi organizzazioni proletarie di paesi come Francia e Inghilterra resteranno preda, nonostante isolati tentativi, dell’illusione della “vittoria” e della “pace” democratica.

Sull’onda del trionfo dell’ottobre 1917, a partire dall’anno successivo iniziano a formarsi ovunque partiti comunisti che aderiranno prontamente all’Internazionale. Nel 1918, si organizzano i partiti ungherese e polacco; nel ’19, seguono quelli bulgaro e jugoslavo; nel ’20 i partiti tedesco, francese e turco; nel ’21, l’italiano, l’inglese, il romeno e lo spagnolo; ancora nel ’22, quello giapponese. È una lunga ondata di entusiasmo che percorre le file del proletariato mondiale: ma è anche il frutto di molta improvvisazione e volontarismo, oltre che di tentazione di scendere a qualsiasi forma di compromesso con la socialdemocrazia piccolo borghese pur di cercare di giungere a quello sbocco rivoluzionario che pareva allora a tutti inevitabile.

Sei giorni dopo la presentazione delle sue “Tesi di Aprile”, volte a dare un deciso colpo di timone alla politica interna del partito, Lenin scrisse l’articolo “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” (Opere complete, Vol. 24): si tratta di un’analisi della situazione internazionale, e costituisce il primo mattone nel processo di formazione della Terza Internazionale. “Al proletariato russo è stato dato molto […] ma da chi molto ha ricevuto, molto si chiede”, scrive Lenin, mostrando ancora una volta lo stretto legame che univa Russia ed Europa e incalzando continuamente le sinistre dei vari paesi. “Bisogna rompere senza indugio con la Seconda Internazionale […] Spetta proprio a noi, e proprio in questo momento, di fondare una nuova Internazionale rivoluzionaria […] il nostro partito non deve ‘aspettare’, ma fondare subito la Terza Internazionale”. Meglio restare soli come Liebknecht (“perché questo significa restare con il proletariato rivoluzionario”) che fondersi con i partiti di centro e di destra.

Poi, procede a fare una sorta di appello delle forze che, in tutta Europa, sono rimaste fedeli al marxismo nonostante tutto, enucleando quella che considera “l’Internazionale degli internazionalisti di fatto”. E afferma: “Questi socialisti sono ancora pochi. Ma non si tratta di essere in molti, ma di esprimere fedelmente le idee e la politica del proletariato realmente rivoluzionario. L’essenziale non è di proclamare l’internazionalismo, ma di saper essere, anche nei momenti più difficili, internazionalisti di fatto”.

Questo appello così appassionato da colui che, tra i pochissimi marxisti viventi, aveva saputo raccogliere le bandiere della lotta rivoluzionaria gettate nel fango da chi ne aveva tradito e rinnegato la tradizione non può farci perdere di vista il fatto che la fretta con la quale si cercò di creare un reale movimento internazionale, nel fuoco delle lotte, prima ancora che i punti programmatici fondamentali fossero formulati e spiegati nei dettagli, doveva costituire la causa prima della sua non lontana rovina. Poche voci (prima fra queste, quella della Sinistra comunista “italiana”) ammoniranno dei pericoli cui va incontro un’organizzazione che nasca solo sull’onda dell’entusiasmo. “I mesi e gli anni avvenire dimostreranno agli stessi bolscevichi […] che nulla avrebbe mai potuto compiere il miracolo di allineare, per esempio, gli IWW americani, gli shop stewards britannici o, sul piano politico, i sindacalisti francesi […] sulle posizioni classiche ed invarianti del marxismo” (Storia della Sinistra comunista, vol. II, Ed. il programma comunista, pag. 105). Al II Congresso dell’Internazionale Comunista (1920), il rappresentante della Sinistra farà inserire, nelle “Tesi sulle condizioni di ammissione”, un punto molto restrittivo: “Gli iscritti al partito che respingano per principio le condizioni e le tesi formulate dall’Internazionale Comunista devono essere espulsi”. Non bastò, perché i vasti movimenti che scuotevano allora l’Europa trascinavano verso il comunismo schiere di indecisi: e nessuno di questi risponderà all’appello quando, pochi anni più tardi, il vento cambierà direzione.

 

 

5. Primi sbandamenti internazionali

Dunque, sotto l’incalzare del movimento rivoluzionario in Russia prima, e poi in Europa, si giunse con queste forze alla costituzione dell’Internazionale Comunista, o Terza Internazionale, nel 1919.

Come nacque frettolosamente la Terza Internazionale, altrettanto frettolosamente si formarono i partiti comunisti. Esaurita la spinta rivoluzionaria entro il 1921 in Europa, l’Internazionale pensò di poter mantenere le posizioni precedenti mediante espedienti tattici che consentissero di superare la fase sfavorevole nei singoli paesi. Il primo di tali espedienti fu una sterzata verso i partiti socialisti, da cui tutti i neonati partiti comunisti si erano appena separati. La politica dell’Internazionale mirò a riguadagnare le masse proletarie attraverso fusioni di partiti o di gruppi di partiti (fronte unico politico) e a partecipare a tutte le occasioni con le quali si potesse sviluppare una politica comune con partiti socialdemocratici (quello che allora si chiamava noyautage). Su questo punto la Sinistra comunista “italiana” si oppose anche a Lenin, rilevando come si preferisse orientarsi verso la destra per ragioni molto dubbie, di “conquista delle masse”, conquistando qualche voto parlamentare grazie alla fusione con elementi non rivoluzionari e perdendo certamente seguito nei proletari più avanzati, saldi su posizioni di sinistra. In seguito, “ripetutamente [Lenin] scrisse di aver errato al III Congresso [dell’Internazionale], nel picchiare più sulla sinistra che sulla destra, pericolo ancora per lui presente. […] Risulta da testimonianza indiscutibile che non fosse favorevole alla fusione col partito massimalista preconizzata dal IV Congresso” (“Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, Unità, 30/9/1925).

Sullo stesso filone tattico, fu preparato in modo sciagurato un tentativo rivoluzionario in Germania nel 1923, agitando tra le masse la parola del “governo operaio”. Era chiaro che tale formula, che sostituiva quella storica di dittatura del proletariato, voleva significare avanzare la possibilità di “potere nelle fabbriche” o di soluzioni pacifiche, democratiche, elettorali, e che l’abbandono della nostra posizione classica era una conseguenza logica dell’unione con la sinistra socialdemocratica. Di cedimento in cedimento, si giunse a nuove forme di organizzazione (bolscevizzazione) che, importando la formula russa del sistema di cellule di partito legate al posto di lavoro, eliminava quella consolidata dell’organizzazione per sezioni territoriali. Infine, si presentarono nuove formulazioni tattiche in base alle quali, non presentandosi più attuale la conquista del potere, si dovevano favorire governi “di sinistra” nei diversi paesi, ritenendo che in un regime di libertà democratica un “governo amico” potesse essere la condizione favorevole a una ripresa rivoluzionaria. Al contrario, la tesi marxista era (è e sarà) che la ripresa può aversi o non aversi indipendentemente da questo o quel regime borghese, perché la vera e unica condizione per essa è che il partito comunista mantenga costante e intatta la propria indipendenza politica e organizzativa di fronte a tutti gli altri, si rifacciano più o meno esplicitamente al movimento operaio.

 

 

6. La svolta: Germania 1923

Nella storia del movimento rivoluzionario, la Germania del 1923 rappresenta l’ultima occasione, eccezionalmente favorevole, per la conquista del potere. La sconfitta, subita praticamente senza combattere, creò nelle masse quello stato di sfiducia negli organi direttivi che segnerà il crollo dell’organizzazione tedesca e aprirà una fase di aperti contrasti nell’Internazionale e all’interno del partito russo, spianando infine la strada allo stalinismo. Con essa si apre, di fatto, la tremenda ondata controrivoluzionaria che si è abbattuta sul proletariato fino ad oggi.

La spettacolare caduta del marco (nell’aprile 1922, si cambiava un dollaro contro 1000 marchi; nel settembre, contro 60 milioni), l’esplosione sociale nelle zone occupate dalla Francia dopo il trattato di Versailles, i grandi scioperi spontanei, l’abbandono dei sindacati accusati, a buon diritto, di essersi venduti al padrone, sono elementi di una crisi economica e sociale profonda, che richiese un intervento non solo del partito tedesco, ma degli organi centrali dell’Internazionale. Indecisi su tutto, dal significato da attribuire alla situazione (rivoluzionaria o no?) al senso da attribuire alla formula del “governo operaio” (dittatura o elezioni?) e alla tattica da seguire (accordo con i partiti di centro o azione autonoma?), i massimi dirigenti giunsero alla conclusione che si doveva cercare un’alleanza con la piccola borghesia per sconfiggere il fascismo (Radek), che comunque bisognava essere pronti ad agire perché i tempi erano maturi (Brandler) e che anzi si poteva immaginare che la scadenza si ponesse entro poche settimane (Zinoviev). Al momento decisivo, naturalmente, andò in frantumi l’alleanza con i socialdemocratici, che sparirono dalla scena lasciando solo nella lotta il partito comunista. Valutando negativamente questa ritirata, che avrebbe fatto perdere l’appoggio delle masse (?), si diede semplicemente il segnale di ritirarsi senza sparare un colpo.

L’esito disastroso dell’Ottobre tedesco scatenò nell’Internazionale la “caccia al colpevole”, inaugurando quello che, di lì a pochi anni, doveva diventare un metodo: quello dell’autocritica forzata, delle confessioni e delle delazioni. La questione tedesca, che occupò naturalmente larga parte del V Congresso dell’Internazionale, tenutosi qualche mese dopo il fallimento, vide la formazione del sistema delle frazioni e delle relative alleanze. Contro Trotzky, che alla fine del 1923 era intervenuto con tutto il peso della propria autorità sulle gravi questioni politiche ed economiche sorte nel partito russo, si scatenò una campagna denigratoria che troverà eco in tutta la stampa comunista internazionale ed avrà in Stalin, alcuni anni più tardi, il suo esecutore testamentario. Ad essa, Trotzky rispose nelle mirabili pagine delle Lezioni d’Ottobre e del Corso Nuovo, trovando pieno appoggio solo nella Sinistra comunista “italiana”. E’ maturato il tempo, ormai, in cui la “questione tedesca” si trasforma, ripiegando inesorabilmente nella questione russa.    [continua]

 

 

                           

                                                                                                       

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2008)