Il Corso del capitalismo mondiale verso il III conflitto imperialistico o la rivoluzione proletaria

Pubblicato: 2009-11-08 13:46:48

 

Nel proseguire la nostra indagine, al fine di comporre il quadro generale dello sviluppo capitalistico mondiale dall’avvio del secondo dopoguerra e individuare le traiettorie generali del come, più che del quando, troverà soluzione la crisi storica del capitalismo imperialistico apertasi nuovamente dalla metà degli anni settanta del XX° secolo, è necessario, in continuità con il lavoro passato di partito, andare a formare e analizzare a uno ad uno i quadri particolari di cui dialetticamente lo sviluppo complessivo del capitalismo è il prodotto. E’ bene ricordare innanzitutto che, dal lato metodologico, sulla base dei capisaldi tracciati nel Rapporto Programmatico (pubblicato su “Il programma comunista”, n.4/2004), capisaldi che nulla inventano e aggiungono a quanto la teoria marxista ha già definito, ogni quadro particolare che andremo ad aggiungere agli altri come tasselli di un mosaico e che nell’esposizione chiameremo per praticità anche “capitolo”, troverà al termine della sua esposizione (comunque oggetto di continuo aggiornamento nel tempo) le considerazioni conclusive in rapporto allo stadio complessivo dell’indagine.

 

In altri termini, a ogni stadio di formazione del quadro generale della dinamica dello sviluppo del capitalismo mondiale, le considerazioni che se ne traggono altro non sono che la risultanza generale dell’indagine svolta fino a quel momento. In esse le considerazione svolte precedentemente o troveranno conferma sempre più perfezionata e affinata, in base ai nuovi aspetti e fattori aggiunti, o troveranno contraddizione. In tal caso, remoto ma pur sempre possibile, tutta la nostra indagine cadrà nella polvere e con essa, non abbiamo timore di dirlo, l’integrale teoria marxista: teoria rivoluzionaria scientificamente fondata, che non ammette né giochi di prestigio di adeguamento della realtà ai propri fini, né la benché minima contraddizione – tutti tipici espedienti delle teorie revisioniste e opportuniste o più in generale delle teorie pseudo-scientifiche borghesi volte a giustificare sul piano ideologico l’azione controrivoluzionaria delle forze che il capitale mette in campo a difesa e conservazione del proprio dominio. Ciò premesso, alla trattazione, come primo argomento fondamentale, dell’“andamento della produzione industriale” (cfr.Introduzione – L’espansione storica del volume della produzione mondiale - Ia parte”, in “Il programma comunista”, n.1/2005; e “L’espansione storica del volume della produzione mondiale - IIa parte”, in “Il programma comunista”, n.4/2005)), ha fatto seguito, come tema della Riunione Generale di Partito del novembre 2005, l’esame del “commercio estero mondiale”, di cui qui si dà integrale esposizione, con aggiornamento dei dati al 2005, a esclusione delle considerazioni “finali” che confluiranno, per un più ampio respiro, in quelle a conclusione del rapporto della Riunione Generale di Partito del 2006, riguardante l’“evoluzione del Prodotto Interno Lordo”, di prossima pubblicazione.


 

Indice


 

 

 

3. L’EVOLUZIONE DEL COMMERCIO ESTERO MONDIALE DAL SECONDO DOPOGUERRA

 

Premessa

 

Dopo aver trattato, come primo aspetto, della produzione industriale, base di partenza, ben motivata [1], della nostra indagine sull’evoluzione storica del capitalismo mondiale, ci apprestiamo ora ad analizzare l’evoluzione del commercio estero mondiale dalla fine del secondo conflitto imperialistico a oggi. La ragione di questa successione è conseguente e al tempo stesso determinata dagli scopi della nostra indagine. Produzione e circolazione delle merci e denaro sono preesistenti al modo di produzione capitalistico. Non sono i suoi tratti caratteristici, ma a un loro certo grado di sviluppo costituiscono la base di partenza del capitale, i presupposti storici del suo nascere – proprio come la preesistente condizione di schiavitù del lavoratore (in maggioranza, servi della gleba) è la condizione del nascere tanto dell’operaio salariato quanto del capitalista, dunque del modo di produzione capitalistico che attua soltanto un cambiamento di forma a tale asservimento, trasformando lo sfruttamento feudale nello sfruttamento capitalistico.

Produzione e circolazione delle merci sono i due momenti – separati, autonomi, eppure inscindibilmente legati – che costituiscono l’unità del movimento complessivo del capitale. Nella produzione, si estrae dall’operaio il plusvalore che altro non è che lavoro non pagato. Ma tale surplus, questo dono della natura aggiunto e incorporato nel prodotto dal lavoro vivo (di cui si appropria il capitalista e a cui mirava fin dall’inizio) è solo potenziale. Solo immettendo la sua merce nella sfera della circolazione (nel mercato) e vendendola, il capitalista realizza il plusvalore, cui corrisponde integralmente il suo profitto se non avrà dovuto pagare rendita e interesse agli altri suoi allegri compari nella spremitura del lavoratore.

La produzione di merci, ossia la produzione per lo scambio, è effetto della divisione sociale del lavoro a un certo grado di sviluppo storico e «il “mercato” si forma dove e in quanto compare la divisione sociale del lavoro e la produzione mercantile. L’ampiezza del mercato è inscindibilmente connessa col grado di specializzazione del lavoro sociale […]. Questa specializzazione, per sua stessa natura, è infinita, precisamente come lo sviluppo della tecnica […] Il progresso della tecnica deve comportare la specializzazione delle diverse fasi della produzione, la loro socializzazione e, per conseguenza, l’espansione del mercato […] Nella produzione capitalistica l’equilibrio della produzione con il consumo viene raggiunto attraverso una serie di oscillazioni; quanto maggiore è la produzione, quanto più vasta è la cerchia dei consumatori ai quali è destinata, tanto più forti sono queste oscillazioni. Si comprende perciò che quando la produzione borghese ha raggiunto un alto grado di sviluppo, non ha più la possibilità di mantenersi nel quadro dello Stato nazionale: la concorrenza costringe i capitalisti a estendere continuamente la produzione e a cercarsi mercati esteri per la vendita in massa dei prodotti».[2]

Da un lato, la produzione industriale, l’economia di scala, l’orgia del macchinismo, inscindibili con l’esistenza sul mercato di un esercito di liberi schiavi salariati sempre più ampio, sono il tratto caratteristico del modo di produzione capitalistico; al contempo, «l’immenso incremento dell’industria e rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie» sono la base di partenza e di coltura del monopolismo e del dominio del capitale finanziario: in una parola, dell’imperialismo.

Dall’altro lato, il commercio mondiale, «che durante l’infanzia del modo di produzione capitalistico ne costituiva la base, nel corso ulteriore di sviluppo di questo modo di produzione ne è inoltre divenuto, per la sua necessità intrinseca, per il suo bisogno di un mercato sempre più vasto, lo specifico prodotto».[3] L’espansione del mercato va dunque di pari passo con l’espansione della produzione e con il progresso della tecnica finalizzata a tale espansione: ovvero, alla spasmodica ricerca di aumentare il saggio del profitto o perlomeno la sua massa. A tal fine, il commercio estero, nella fase imperialista, diviene prevalente sul mercato interno (vedremo tra breve le ragioni) e la ricerca dei mercati esteri diviene vitale lotta, aperta e dissimulata, “pacifica” e guerreggiata, per la loro conquista a danno dei concorrenti: per smerciare i propri prodotti, per accaparrarsi forza-lavoro a buon mercato, materie prime ed energetiche, per assicurarsene il monopolio, per dominare il mercato mondiale. [4] Tanto più la produzione si allarga, e cresce la sovrapproduzione, tanto più il mondo risulta già ripartito tra le grandi potenze imperialistiche, quanto più mutano la potenza economica e i rapporti di forza tra le stesse e le nuove potenze che si presentano a reclamare la loro parte di “mercato”, ossia di plusvalore.

 

Due parole su libera concorrenza e libero scambio

 

Il dominio del capitale è il presupposto della libera concorrenza, e la libera concorrenza non è altro che la libertà del capitale di muoversi secondo le proprie leggi ed entro i limiti di tali leggi. «Ciò che è implicito nella natura del capitale viene solo reso realmente esplicito, come una necessità esterna; e il mezzo è la concorrenza, la quale poi non è altro che questo: che i molti capitali si impongono reciprocamente e impongono a se stessi le determinazioni immanenti del capitale». Tutto questo presuppone un processo storico nel quale «la concorrenza, si presenta come dissoluzione di obblighi corporativi, disposizioni governative, dazi interni e simili nell'ambito di un paese, e come soppressione di barriere, proibizioni o protezioni sul mercato mondiale — e insomma si presenta, storicamente, come negazione dei limiti e degli ostacoli propri dei livelli di produzione che precedono il capitale». Il capitale, non appena inizia storicamente a presentarsi come principio regolare della produzione, abbatte gli ostacoli posti dai vecchi modi di produzione al suo movimento, sviluppo e realizzazione: getta via le grucce dei modi di produzione tramontati o che tramontano al suo apparire, cui si era appoggiato quando era ancora debole e incapace di muoversi secondo le proprio leggi. Tuttavia, nell’ulteriore suo sviluppo, il capitale «comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, subito cerca scampo verso forme le quali, mentre danno l'illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del modo di produzione che su di esso si fonda». [5]

Economisti, pennivendoli, revisionisti e falsi comunisti di ieri e di oggi, mezze classi senza storia agognanti l’onesta, pacifica, libera concorrenza, in queste poche scultoree parole, relative proprio a ciò che andate decantando come la forma suprema ed ultima della libertà umana (la cui negazione – da parte dello stesso capitale – equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale), è indicata la finitezza storica del modo di produzione capitalistico, di cui il trascrescere alla putrescente fase imperialista è il drammatico epilogo.

Il dominio del capitale è il presupposto della libera concorrenza. Ma nel suo ulteriore sviluppo la libera concorrenza determina la concentrazione della produzione in imprese sempre più grandi, e questa, a sua volta, conduce al monopolio, alla centralizzazione del capitale, al dominio del capitale finanziario, unione e fusione del capitale bancario col capitale industriale, completata dal totale assoggettamento a sé del governo e dello Stato.

Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta: però, non vi è più «la lotta di concorrenza tra aziende piccole e grandi, tra aziende tecnicamente arretrate e aziende progredite, ma lo iugulamento, per opera dei monopoli, di chiunque tenti di sottrarsi al monopolio, alla sua oppressione, al suo arbitrio.[6] Chi invoca la libera, onesta e pacifica concorrenza di un tempo è il piccolo capitalista, sono gli esponenti delle mezze classi, oppressi dal grande capitale e taglieggiati dallo Stato, prima di venire per ciò proletarizzati. Nella fase imperialista, la libera concorrenza subisce una trasformazione qualitativa, tant’è che «la conquista di mercati esteri, l'ingaggio di lavoratori stranieri, l'impor­tazione di materie prime, o infine l'esercizio di tutta l'impresa capitalistica in paese estero con elementi e fattori del posto, sono processi che non possono nel mondo capitalistico essere svolti con i puri mezzi economici, come il gio­co della concorrenza, ma implicano il tentativo di regolare e controllare prezzi di vendita e di acquisto, e mano mano i privilegi e le protezioni con misure di stato o convenzioni interstatali. Quindi l'espansionismo economico diviene coloniali­smo aperto o dissimulato, appoggiato con poderosi mezzi militari. E' la forza che decide le rivalità per l'accaparramento delle colonie e il dominio sugli sta­ti piccoli e deboli, si tratti di controllare i grandi giacimenti minerari, le mas­se da proletarizzare, o gli strati di consumatori capaci di assorbire i prodotti dell’industrialismo capitalistico». [7]



Dietro il palcoscenico dei burattini

 

Tutto questo è sotto gli occhi di tutti, nelle varie forme e nei vari gradi di lotta commerciale, diplomatica, militare, di guerre locali e mondiali, anche se nell’opera di continuo rimbecillimento generale viene divulgato con le storielle dell’«esportazione della democrazia, della libertà», della «civiltà borghese», delle tante campagne umanitarie, della lotta ai «cattivi» di turno, ecc.

Meno visibile è la circostanza (la causa immanente e cieca delle devastazioni che produce) che più il capitale si sviluppa, estende la sua dominazione ed è costretto ad accrescere la sua potenza mummificata, più il saggio del profitto tende storicamente a diminuire: tendenza che si trova riflessa in estrema sintesi nell’ineluttabile decrescenza dei ritmi di incremento della produzione, ossia dell’accumulazione. Ne consegue che tanto più diviene vitale il commercio estero: in quanto, in primo luogo, permettendo di allargare la sfera della produzione, e dunque «di rendere più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante, sia i mezzi di sussistenza necessari in cui si converte il capitale variabile, agisce nel senso di elevare il saggio del profitto, aumentando il saggio del plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante» [8], e dunque di contrastare, insieme ad altre cause, l’inesorabile caduta tendenziale del saggio medio o generale di profitto.

Ma non c’è solo questo.

A riprova del farneticamento sulle forme «imprevedute» e difformi del capitalismo modernissimo, che costringerebbero a rivedere le basi della «prospettiva» e quindi della teoria rivoluzionaria marxista, citiamo ancora da Marx.

«I capitali investiti nel commercio estero possono fornire un più alto saggio di profitto perché, prima di tutto, qui si è in concorrenza con merci prodotte da paesi con minori facilità di produzione [e dunque con costi di produzione più elevati, NdR], cosicché il paese più progredito vende le proprie merci al disopra del loro valore, benché più a buon mercato che i paesi concorrenti. Nella misura in cui il lavoro del paese più progredito viene utilizzato come lavoro di più alto peso specifico, il saggio del profitto aumenta, in quanto il lavoro che non è stato pagato come qualitativamente superiore si vende però come tale».

«Lo stesso rapporto – prosegue Marx – si può stabilire nei confronti del paese in cui si esportano o da cui si importano merci: avviene cioè che questo dia in natura più lavoro oggettivato di quanto ne riceve, e tuttavia ottenga la merce a un prezzo inferiore a quello al quale potrebbe produrla egli stesso, esattamente come il fabbricante che si avvale di una nuova invenzione prima che si sia generalizzata vende più a buon mercato dei concorrenti, pur vendendo al disopra del valore individuale della sua merce; sfrutta cioè come pluslavoro la specifica produttività superiore del lavoro impiegato, e così realizza un sovrapprofitto».

Inoltre, «per quanto, d’altro lato, riguarda i capitali investiti nelle colonie, ecc. essi possono fornire saggi di profitto più alti, perché ivi il saggio del profitto è più elevato a causa del più basso sviluppo industriale e, grazie all’impiego di schiavi, coolies, etc., vi è anche più elevato sfruttamento del lavoro». [9] Nello scambio tra paese avanzato e paese arretrato o tra paese con maggiore facilità di produzione e paese con minore facilità di produzione, sebbene il secondo acquisti merce a un costo inferiore a quello che dovrebbe sopportare se la producesse da sé, per effetto del suo minor elevato grado di industrializzazione o delle maggiori difficoltà di produzione, è sempre il primo che, sfruttando la superiore produttività del lavoro, realizza un sovrapprofitto: «due nazioni possono scambiare in base alla legge del profitto in modo da ottenere entrambe un profitto, ma una viene sempre avvantaggiata».

E questo avviene maggiormente nella misura in cui le produzioni, parti di esse o anche dei cosiddetti costi necessari (ad es. amministrazione, call centers) vengono delocalizzate all’estero, in paesi a basso costo della forza-lavoro ad elevato grado di sfruttamento sia estensivo (bassa composizione organica del capitale) che intensivo, o pur restando in patria vengono terziarizzate a prezzi calanti (salari calanti e orari e ritmi di lavoro crescenti), con il metodo sempre più diffuso dell’appalto e/o utilizzati in quantità operai immigrati di bassa specializzazione quanto a remunerazione, flessibili e ricattabili, il cui lavoro, non pagato come qualitativamente superiore, si vende però come tale, non solo all’estero ma anche nel mercato interno. [10] Tutto ciò, in particolare aumentando la concorrenza tra gli operai, riduce il salario, aumenta il profitto e la tanto agognata competitività nel mercato mondiale.

D’altro lato, per effetto dello sviluppo sperequato nel tempo e nello spazio del modo di produzione capitalistico e del conseguente continuo rivoluzionamento della divisione internazionale del lavoro, il capitale continuamente emigra da dove non trova più adeguate condizioni di valorizzazione. Da qui derivano i cosiddetti processi di deindustrializzazione: certe produzioni o addirittura interi settori industriali non strategici vengono smantellati nei paesi capitalisticamente avanzati, in quanto diventa più conveniente importare tali produzioni dai paesi meno sviluppati che continuare a produrle localmente. Lo si può ben notare, in primo luogo, con l’espansione della grande industria, nelle produzioni agricole, a cui vengono relegate e immiserite, dalle cricche imperialistiche in combutta con le asservite e corrotte borghesie locali, le popolazioni dei paesi capitalisticamente meno progrediti.

Così, attraverso il commercio estero, si allargano i ristretti limiti nazionali della sfera della produzione e dello scambio: il capitale ha la possibilità di consumare una maggiore quantità di plusvalore, «diviene distruttivo oltre ogni limite e riesce ad aggirare la natura». [11]

Infine, senza voler essere esaustivi, è da ricordare come abbia influenza sul saggio del profitto la riduzione del tempo di rotazione del capitale: per quanto riguarda la riduzione del tempo di circolazione, il mezzo principale consiste nel perfezionamento dei mezzi di comunicazione. Anche se, relativamente al periodo qui esaminato, tale perfezionamento non ha rappresentato una vera rivoluzione, come invece avvenne nel XIX secolo, esso ha indubbiamente ridotto il tempo di rotazione dell’intero commercio mondiale e la capacità di azione del capitale che vi partecipa è aumentata altrettanto, influendo positivamente sul saggio del profitto. E’ anche in relazione a ciò che si possono comprendere le dispute e le contese interimperialistiche sulle vie di comunicazione (ad esempio energetiche): ma ciò è materia che esula dalla presente analisi.

Tuttavia, se da un lato il commercio estero agisce come causa antagonista alla caduta tendenziale del saggio generale del profitto, frenandola o addirittura paralizzandola temporaneamente, e pertanto ne indebolisce soltanto l’azione senza però sopprimerla, dall’altro questa medesima causa, come le altre reazioni alle cause che determinano tale caduta, agisce ad un certo punto in senso opposto: ossia, accelerando l’accumulazione, accelera anche la diminuzione del capitale variabile rispetto al capitale costante, e perciò la caduta del saggio del profitto genera prima o poi sovrapproduzione in rapporto all’estero, e quindi la saturazione del mercato e l’esplosione della crisi.

 

Alla base dello sviluppo e dell’espansione del capitalismo e dunque del commercio estero come suo specifico prodotto

 

Il modo di produzione capitalistico nasce agrario (e poi statale e monopolista) e questa nascita è una storia tutt’altro che gloriosa e idilliaca, come il conseguente suo sviluppo. «L’espropriazione del produttore agricolo, del contadino, dal possesso del suolo, costituisce la base dell’intero processo [dell’accumulazione originaria del capitale, NdR]. La sua storia prende sfumature diverse nei diversi paesi e percorre le diverse fasi in ordini di successione diversi e in epoche storiche differenti» [12]. «Il furto dei beni ecclesiastici, la fraudolenta alienazione di terre demaniali, il saccheggio delle proprietà comuni, la trasformazione usurpatoria della proprietà feudale e dei clan in proprietà privata moderna, trasformazione praticata con terrorismo senza scrupoli: ecco altrettanti metodi idilliaci dell’accumulazione originaria. Essi hanno conquistato il campo dell’agricoltura capitalistica, hanno incorporato il suolo al capitale, e hanno fornito all’industria urbana la necessaria dotazione di proletari senza riserve»[13]. «Così il contadiname espropriato con la forza, scacciato dal suolo e reso vagabondo, fu costretto con leggi fra il grottesco e il terroristico, frustandolo, marchiandolo a fuoco, torturandolo, a sottostare alla disciplina necessaria al sistema del lavoro salariato» [14]. In una parola: il capitale è venuto al mondo grondando sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro. Il suo ulteriore dominio non è da meno, se non per un più alto tributo in sudore, sangue, miserie, sofferenze e devastazione della natura.

Tale espropriazione e parziale espulsione della popolazione rurale dalla terra, e dunque dai mezzi di sostentamento e di lavoro, sebbene muti o si presenti più o meno pronunciata o in diversa successione a seconda delle condizioni geo-storiche di paesi ed aree, non avviene una volta per tutte all’alba del sorgere storico del modo di produzione capitalistico. Essa prosegue col progredire dell’industrializzazione nei paesi avanzati e investe con violenza e squilibri economici e sociali di proporzioni inaudite i paesi arretrati che entrano nel vortice della sua espansione e dominazione. E’ ancora di pregnante attualità quanto avviene nel XX secolo, con proporzioni gigantesche (e processi più devastanti in quanto accelerati), nel Terzo Mondo, e in particolare in Cina e India.

L’espropriazione ed espulsione del contadiname dalla terra, che è al contempo distruzione dell’industria sussidiaria rurale, processo di separazione di manifattura e agricoltura, crea quanto necessario al capitalismo: da un lato l’operaio “libero”, che una volta creato, risulta inchiodato come classe al suo destino di schiavo salariato come Prometeo alla roccia; dall’altro, l’estensione e una salda consistenza del mercato interno. Espropriazione significa impoverimento, e «l’impoverimento della massa del popolo» (questo termine immancabile in tutte le argomentazioni populiste sul mercato) «non solo non ostacola lo sviluppo del capitalismo, ma, al contrario, è precisamente l’espressione del suo sviluppo, è una condizione del capitalismo e lo rafforza. Per il capitalismo è necessario l’“operaio libero”, e l’impoverimento consiste precisamente nel fatto che i piccoli produttori si trasformano in operai salariati. Questo impoverimento della massa è accompagnato dall’arricchimento di pochi sfruttatori; la rovina e il declino delle piccole aziende sono accompagnati dal rafforzamento e dallo sviluppo delle più grandi; entrambi i processi favoriscono l’espansione del mercato: il contadino “impoverito”, che prima provvedeva al proprio sostentamento con la sua azienda, ora vive di “occupazioni ausiliarie”, vale a dire della vendita della sua forza-lavoro; i beni di consumo necessari ora se li deve comprare (sebbene in quantità minore e di qualità peggiore); d’altra parte, i mezzi di produzione dai quali questo contadino viene liberato si concentrano nelle mani di una minoranza, si trasformano in capitale, e il prodotto con essi ottenuto va ormai sul mercato» [15].

Dal suo sorgere alla sua morte, ad ogni latitudine e longitudine del globo, che si travesta da “democratico”, da “fascista”o da finto “socialista”, da liberista o da monopolista, che si serva di Cristo o di Maometto, «il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia» [16]. Pertanto, non potrebbe esistere se il modo di produzione che ad esso corrisponde avesse come scopo la sola soddisfazione dei bisogni immediati e necessari storicamente della società: come non potrebbe esistere – al pari dei preti di ogni chiesa – se gli operai campassero d’aria. Tradotto in altri termini, il suo istinto immanente, la sua ragione di esistenza, è la produzione per la produzione, fine a se stessa, libera da ogni limite se non quelli che contraddittoriamente le sue leggi producono. Deve quindi svincolarsi il più possibile dal limite impostogli dalla soddisfazione dei bisogni immediati della società, con il risultato che, alla scala mondiale, tale soddisfazione è progressivamente inferiore e qualitativamente peggiore agli stessi bisogni primari, vitali, di una maggioranza sempre più ampia dell’umanità.

Le leggi immanenti che lo governano spingono ciecamente il capitale ad una crescente produzione minerale, che uccide ogni forma di vita per accrescere la sua parte fissa, mummificata, morta, mediante la quale si appropria dell’energia vitale di una massa crescente di umanità immiserita. La crescente produzione di acciaio da un lato e la degenerazione della nutrice agricoltura, dall’altro, ne sono il segno inconfutabile. Ed è qui il caso di sottolineare, anche se dovremo affrontare a suo tempo specificatamente la questione agraria e dell’alimentazione umana, che è già nelle premesse al suo sviluppo, ossia nella distruzione della precedente e migliore organizzazione della alimentazione umana per creare nuovi mille bisogni di cui intesse la sua pretesa civiltà, che il capitalismo decreta il suo completo fallimento per ciò che riguarda la soddisfazione del bisogno primo e sano della vita (cfr. al riguardo “L’insuperabile crisi dell’agricoltura nell’economia capitalistica”, in “Il programma comunista”, n.6/1959), e con esso la sua catastrofe e transitorietà [17].

Creatasi nella forma sopra accennata la moderna rendita fondiaria (e con essa il fittavolo capitalista), sottoposta la produzione agraria alle leggi della produzione capitalistica, da un lato il capitale ne accresce all’estremo la produttività riducendo al massimo la forza lavoro mediante l’introduzione di mostruose macchine iperproduttive, dall’altro accelera il processo produttivo con l’impiego di concimi chimici, varietà ibride di pessima qualità, diserbanti che mineralizzano la terra e la vita sviluppatasi in milioni di anni; e adultera il raccolto mediante processi conservativi che vanno a ulteriore danno del valore nutritivo. In sostanza, rovina l’alimentazione umana e la terra, da un lato, per risparmiare forza lavoro (in modo che un unico produttore nutra un numero crescente di operai, di forza lavoro sociale da sprecare), dall’altro, producendo un’incessante gamma di articoli di lusso e di morte e altrettanti vizi idioti.

Il commercio estero è il coronamento di questo processo, man mano che la grande industria e il capitale finanziario si sviluppano, concentrano e centralizzano nelle metropoli imperialistiche sottomettendo a esse ogni angolo della Terra. In sostanza permette al capitale di “aggirare la natura”, di disporre cosa i paesi più deboli e dipendenti devono produrre, non per le loro popolazioni ma per l’esportazione, e accresce oltre ogni limite il potere distruttivo del capitale [18], mentre il militarismo e la guerra calda sorreggono sempre più la produzione e il commercio mondiale.

Le ipersviluppate metropoli imperialiste possono dunque prosperare con le loro industrie (“ad alto valore aggiunto”, come si dice) dell’armamento, degli articoli di lusso e di tutta la crescente paccottiglia sfornata per la soddisfazione di bisogni artificiali, trasformandole in produzioni dell’agricoltura e della terra, ossia tagliando i mezzi di sussistenza, materie prime ed energetiche ai paesi del cosiddetto Terzo mondo, sommersi, in cambio, da tutta la loro produzione minerale, distruttrice e omicida. Insomma, chi ha del ferro ha del pane! Mediante il credito, l’esportazioni di capitale e il commercio estero, le metropoli imperialiste si nutrono dei paesi meno forti, anche se la parte del leone, in questo giugulamento, spetta all’imperialismo egemone, che sempre più imputridisce e declina nel parassitismo e nella reazione. E, detto di passaggio, mentre a un polo si accumula la ricchezza e all’altro la misera, in modo analogo il capitale conduce la sua guerra nascosta contro il proletariato mondiale: ogni anno, senza spender nulla, con l’arma alimentare (che nelle sue mani diviene un’arma micidiale), elimina una massa enorme di sovrappopolazione che vagabonda dalle campagne alle megalopoli, s’ammucchia e abbrutisce nelle bindovilles o nelle fogne urbane, in attesa del proprio destino.

Il nuovo colonialismo (che non si esprime solo nei confronti delle nazioni meno sviluppate, ma anche tra gli stessi briganti imperialistici: come esempio eclatante ricordiamo gli Stati Uniti nei confronti dell’Europa e del Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale) è quello dell’aggiogamento economico, e questo avviene in particolare con il sistema del credito, poi sorretto a garanzia del creditore dalla forza militare. Altra forma prevista dal marxismo dell’attualissimo sistema di relazioni che sostituisce la cosiddetta onesta, pacifica, libera concorrenza, è poi quella per cui «la cosa più frequente nella concessione di crediti è [...] di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegata nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito, specialmente di materiale da guerra, navi, ecc. L’esportazione di capitale all’estero diventa un mezzo per favorire anche l’esportazione delle merci. In tale campo i contratti, specialmente tra i grandi imprenditori, sono di natura tale da “rasentare i limiti della corruzione”» [19]: e anche di oltrepassarli, non disdegnando alla bisogna il ricatto, l’omicidio, il fomentare, finanziare e condurre per interposte borghesie guerre fratricide, ecc. [20]

Ben si comprende, quindi, l’importanza e il significato, per la grande industria, per il grande capitale e dunque per le metropoli imperialiste, del tanto decantato “libero” commercio, portatore di libertà, benessere e civiltà secondo la propria insaziabile sete da vampiro: che, tolte di mezzo le rivoltanti menzogne create per nascondere la vera natura, si fonda unicamente sulla libertà di conciare al meglio la pelle della classe operaia mondiale e di distruggerne l’eccedenza in rapporto alle esigenze della sua valorizzazione. Questa è la sostanza della “impreveduta” concorrenza mondiale: “globalizzazione” o “competizione globale” come oggi la si vuol chiamare. Tanto impreveduta che, in relazione alla tendenza costante del capitale di ridurre al minimo il salario dell’operaio (tendenza che gli è innata, in quanto più basso è il salario più alto è il profitto, e che la caduta tendenziale del saggio medio del profitto, determinata dall’incessante incremento della produttività del lavoro, gli impone come necessità d’esistenza, mentre appare agli agenti del capitale come conseguenza della competizione globale), Marx annota sarcasticamente: «Il membro del parlamento Stapleton, dichiara ai suoi elettori: “Se la Cina diventa un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia europea possa sostenere la lotta senza scendere al livello dei suoi concorrenti” (Times, 3 settembre 1873). Il fine auspicato dal capitale inglese non è più il salario continentale, ma il salario cinese» [21].

Nota bene: settembre 1873! Ma non sono forse le stesse parole degli Stapleton di ieri e di oggi, che il “pericolo giallo” è divenuto pregnante realtà? Realtà che per decifrare (e tracciarne a grandi linee il processo futuro), dopo aver esposto queste brevi considerazioni per un miglior inquadramento e comprensione dell’argomento e di tutto il complesso, caotico sviluppo capitalistico, dobbiamo ora andare ad analizzare nello specifico della dinamica storica di questi ultimi sessant’anni, di cui è il dialettico prodotto.


 

Dalla temporanea grande espansione del 2° dopoguerra imperialistico al ritorno alla decrescenza.

 

Trattando della produzione industriale, abbiamo visto come, per effetto della seconda guerra imperialistica e per tutto un insieme di altri fattori che non stiamo qui a ripetere, il capitalismo mondiale riceva un nuovo poderoso impulso espansivo, un relativo ringiovanimento, da un lato nelle vecchie metropoli imperialiste, dov’è crollato miseramente dopo circa un trentennio con la crisi del 1975, e dall’altro nell’impetuosa espansione di quel che abbiamo chiamato per comodità “Resto del Mondo”, in cui si sono venute a definire aree e giovani capitalismi a sviluppo accelerato di sempre più relativo peso specifico, in via di altrettanto rapido invecchiamento.

L’orgia produttiva del secondo dopoguerra non può che generare e richiedere una ancor più ampia espansione del mercato mondiale e dunque del commercio internazionale, che nel periodo tra le due guerre ha subito un vero e proprio tracollo, in particolare dal 1929 (ancora nel 1950, il volume del commercio internazionale di quell’anno non risulta ancora superato).

L’espansione del mercato mondiale, al di là delle ragioni fondamentali su accennate che ne sono alla base, richiede a sua volta la riduzione progressiva di tutti quei lacci protezionistici, dazi, barriere, contingentamenti, sovvenzioni all’esportazione, che in particolare la Grande Depressione aveva imposto a tutto il mondo industrializzato. E tale richiesta (ovvero, necessità) non può che essere espressa, sulla scena mondiale, in primis dal capitalismo imperialista che la seconda guerra mondiale ha consacrato egemone anche sul piano politico, quello statunitense [22]. Tuttavia, ciò non è che il prodotto necessario e imposto dalla spinta propulsiva del sottosuolo produttivo che, se trae alimento in prima battuta dalle immani distruzione del conflitto, è poi determinato da ben altre forze, come abbiamo esposto, per sommi capi, nel capitolo precedente. Del resto, data la natura antitetica del capitale, il decantato libero mercato (che il grande capitale persegue a scapito del piccolo e lo stato potente a scapito del debole, e che non di meno il piccolo reclama quando è oppresso e fagocitato dal grande) non era e non è che una faccia della medaglia: non in negazione, bensì in commistione con la faccia protezionistica, a seconda della congiuntura economica e dei mutevoli rapporti di forza fra i singoli capitali, fra le singole fazioni della classe capitalistica e fra gli Stati [23].

Di conseguenza, alla poderosa accelerazione produttiva del secondo dopoguerra (che in termini di incremento medio annuo raggiunge il 7,14% nel periodo 1949-1974) corrisponde un altrettanto formidabile incremento delle esportazioni mondiali, che nello stesso periodo si attesta al medio annuo del 9,11%. Al successivo rallentamento dei ritmi di incremento della produzione industriale mondiale, determinata dai paesi occidentali e dal Giappone (che nel periodo 1974-2003 si riduce al 2,97%) corrisponde la decrescenza al 4,7% dell’incremento medio del commercio estero – decrescenza che, per l’insieme dei big six (il nostro G6, esclusa l’Urss/Russia e inclusa l’Italia), risulta più marcata, passando, per gli stessi periodi, dal 8,94% al 4,06%.

La dinamica sopra esposta viene evidenziata nella Tabella 12 [24], composta sulla base della sequenza annuale degli indici delle esportazioni dal 1948 al 2005, di cui alla Tabella 11, sebbene gli incrementi annui siano riferiti a due periodi diversi dalla suddivisione sopra operata per un mero raffronto con la produzione industriale. Come termine del primo periodo sono stati scelti gli anni di massimo degli indici precedenti alla crisi degli anni ’80: ciò perché in tali anni si verifica una crisi commerciale generalizzata, forte e prolungata, che investe sia tutti i paesi industrializzati che l’Urss e, se non tutto, almeno la maggior parte del Resto del Mondo, mentre così non avviene in concomitanza della crisi di sovrapproduzione del 1975. In tale anno, a differenza della caduta produttiva, la battuta di arresto nel commercio estero avviene per un solo anno e solo, significativamente, nei due paesi industrializzati con maggiore e continuativa crescita dall’inizio del secondo dopoguerra (la Germania e il Giappone), tocca limitatamente la Gran Bretagna e pure gli Usa (che però non vanno a segno negativo), mentre Francia e Italia, in diversa misura, incrementano. Dal 1980-81, per i membri del G6, ad esclusione del Giappone, la crisi commerciale perdura a seconda dei casi da 3 a 5 anni consecutivi e con riduzioni apprezzabili: - 26,1% per gli UK, -27,4% per la Francia, - 24,1% per la Germania; - 19,2% per gli Usa, -21,7% per l’Italia. Per il Giappone, la battuta di arresto si verifica nel 1979 (- 7,5%) per poi ripresentarsi nel 1982 (- 10,5%) riportandolo sotto il livello del 1978. Per l’Urss, che, ben immersa da tempo nel mercato mondiale, ne subisce i poderosi contraccolpi nell’ambito del suo spazio vitale in progressivo sgretolamento, il 1981 rappresenta, dal lato che stiamo esaminando, il punto di esplosione in superficie del suo inesorabile quanto verticale declino, dopo il 1987, verso la ben nota catastrofe economica e politica.

In sostanza, per il commercio estero, l’anno di svolta del ciclo ascendente avviatosi alla fine della seconda guerra mondiale appare dunque, con qualche anno di ritardo ma quale diretta conseguenza, il 1980 più che il 1975. In tale fase espansiva, sono il Giappone e la Germania e poi l’Italietta che mettono a segno le migliori performances, sebbene siano poi solo i primi due imperialismi e soprattutto la Germania, come vedremo in seguito, a tallonare e contendere sempre più da vicino la supremazia commerciale statunitense in progressivo declino. Tanto è vero che nel 1971, anche se, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, non solo per questo fattore e per la grande espansione commerciale mondiale verificatasi, gli Usa, non più in grado di sostenere la parità del dollaro con l’oro sancita con gli Accordi di Bretton Wood appena 25 anni prima, ne decretano unilateralmente la fine, con il ritorno al sistema o non-sistema dei cambi flessibili a partire dal 1973.

Il periodo successivo, dal 1980 al 2005, mette in evidenza, per quasi tutti i grandi e vecchi imperialismi, un calo del ritmo di incremento ancor più vistoso di quello medio mondiale. In termini di puro rapporto tra il tasso del secondo periodo e quello del primo, la graduatoria, partendo dal massimo decremento, è la seguente: Giappone –74,60%; Germania –67,10%; Italia –66,26%; Francia –60,30%; UK –46,36% e USA –40,13%. E’ significativo che la tale graduatoria in negativo corrisponda a quella degli massimi incrementi del periodo precendente, salvo l’inversione degli ultimi due Stati che restano sulla media del decremento mondiale.

Scomponendo quest’ultimo periodo in sottoperiodi, si osserva che: 1) gli Usa nel anni 1990-2000 mettono a segno una temporanea inversione di tendenza, le cui ragioni vedremo in seguito, con un tasso medio del 5,7%, per poi piombare a – 0,44% medio dal 2000 al 2005. Pure l’Inghilterra e l’Italia negli anni 1992-1998 invertono modestamente la traiettoria discendente, che per la prima, maggiormente legata agli Stati Uniti, nel periodo 1998-2004 si attesta all’1,53%, sempre medio; 2) il Giappone mostra anche qui di essere giunto al capolinea verso la fine degli anni ’80: il decremento dei suoi ritmi è progressivo e non raggiunge l’1% negli anni 2000-2005. La Francia ha invece un blando ritmo di decrescenza. L’andamento della Germania si presenta inverso e in particolare rispetto a quello del suo più diretto concorrente mondiale: negli anni ’90, per gli effetti della riunificazione e anche per il crollo sovietico e della grande crisi che investe tutto l’ex “blocco socialista”, subisce un calo significativo, quasi quanto quello giapponese, mentre i restanti imperialismi, a parte la Francia, crescono. Ma negli anni 1998-2005, dopo la grande ristrutturazione avvenuta e la conquista di nuovi mercati, in particolare dell’Europa dell’Est, a danno dei concorrenti, mentre gli altri grandi diminuiscono anche vistosamente, di pari passo alla maggior vitalità produttiva la Germania mette a segno un bel 5,08%, tra l’altro superiore di circa mezzo punto all’incremento medio del periodo 1979-1990.

Per la Cina, il processo è al momento in fase ascendente: una volta gettate le basi dello sviluppo capitalistico al proprio interno, e sviluppatosi questo tanto impetuosamente quanto in maniera squilibrata, altrettanto prorompente è stata l’accelerazione progressiva del commercio con l’estero: 1981-1995, +12,67%; 1995-2005, +15,03%.

Anche a livello mondiale, il periodo 2000-2005, significativamente per il contributo di Germania e Cina (vedi Tabella 14), è in temporanea controtendenza alla decrescenza mostrata fino a quel momento dall’inizio del secondo dopoguerra, come mostrato dai seguenti risultati: 1980-1992, incremento medio annuo del 5,87%; 1992-2000, 5,33%; 2000-2005, 6,44%.

Tuttavia, ciò non viene a contraddire quella che è la traiettoria di lungo periodo; anzi, l’insieme di quanto fin qui constatato mette in evidenza e conferma ciò che abbiamo già riscontrato esaminando l’andamento della produzione industriale: pertanto, anche il rallentamento assai marcato del commercio mondiale è ulteriore conferma dell’attuale fase di crisi storica del capitalismo mondiale apertasi dal 1975. L’impetuoso sviluppo di aree e paesi cosiddetti emergenti, sebbene rappresenti una ulteriore proroga di vita alla forma capitalistica storica mondiale, non permette di invertire la rotta, non solo in quanto il tasso di incremento della produzione mondiale ciò nonostante declina storicamente, ma anche perché, come abbiamo già anticipato – e qui troviamo ulteriormente confermato – , non vi sono le possibilità materiali capitalistiche per tale inversione: ossia, per un’ulteriore poderosa espansione del mercato mondiale, ad esempio pari o simile a quella della cosiddetta golden age. E’ sufficiente considerare che, affinché il tasso di incremento medio del commercio estero del periodo 1980-2020 eguagli quello del periodo 1949-1980 (e cioè l’8,20%), il mercato mondiale dal 2006 al 2020 dovrebbe crescere alla media annua del 14,85%: cioè, senza che si verifichi alcuna crisi, a un grado quasi doppio del periodo espansivo del secondo dopoguerra, in cui esistevano condizioni opposte a quelle attuali (vale a dire, quelle stesse che tale espansione ha irreversibilmente determinato). Se dunque questo è da escludere, in quanto ciò potrebbe verificarsi solo per effetto di una poderosa crescita della produzione manifatturiera (la quale per verificarsi abbisogna di una distruzione massiccia dell’attuale crescente sovrabbondanza di capitale e di merci rispetto alle sue possibilità, relativamente più ristrette, di impiego adeguato nell’industria), potrebbe invece proseguire per i prossimi anni, salvo accelerazioni della crisi, il trend ascendente di quest’ultimo periodo 2000-2005, oppure mantenersi stabile, in quanto espressione non di una “nuova era” di accumulazione – per cui si avrebbero elevati tassi di incremento produttivo mondiale – , ma di crescente sovrapproduzione che il mercato estero deve assorbire, e dunque a sua volta come fattore di accelerazione verso l’esplosione catastrofica del processo di sovrapproduzione cronica in atto da oltre un trentennio. Tale processo non è solo determinato dalla quantità esuberante di capitali e di merci, ma da un insieme di fattori contrastanti, fra i quali il rapporto di forza tra i vecchi e nuovi imperialismi, che tra breve andremo ad esaminare riguardo all’argomento qui trattato.

 

Rimando ad ulteriori approfondimenti

 

Come è desumibile da quanto abbiamo premesso, l’analisi che andiamo svolgendo prende in considerazione il solo commercio estero dei beni, e non anche quello dei servizi, in quanto non solo e non tanto di gran lunga superiori come valore (non potrebbe essere altrimenti, alla faccia della cosiddetta fase “post-indutriale”), ma anche perché esso è direttamente connesso con la produzione di beni, base reale su cui poggia la ricchezza materiale, la potenza economica degli Stati e i rapporti di forza fra gli stessi. Inoltre, in tale ambito prendiamo in considerazione le sole esportazioni, tralasciando le importazioni, in quanto a livello generale o complessivo non vi sono andamenti differenti e un’esposizione relativa a quest’ultima sarebbe ripetitiva a livello globale, fatta salva la particolarità per singoli paesi (tra cui meritano attenzione gli Usa). Ma, al riguardo, si rimanda alle successive trattazioni sia sulle materie prime, energetiche e agricole, sia sulla Bilancia commerciale e dei pagamenti, onde meglio individuare anche su questo fronte i punti di debolezza o di forza delle singole potenze in competizione, la dinamica degli attriti e dello sgretolamento dell’instabile equilibrio mondiale. Tuttavia, non possiamo che annotare qui brevemente alcune considerazioni, del resto ben conosciute, riguardo agli Usa e ai rapporti monetari, base su cui avvengono gli scambi commerciali.

Sul fronte delle importazioni, gli Stati Uniti d’America ne incamerano, nel 1950, il 15% del flusso mondiale, e sono esportatori netti in crescita, ad esclusione del 1959, fino al 1967. Dal 1968, il trend si inverte irrimediabilmente (una delle cause della fine del Gold Standard e degli accordi di Bretton Wood). Da allora, la loro Bilancia commerciale dei beni è in progressivo deficit, a parte il 1970 e il 1975, e nel 2005 tocca, per tale anno, la cifra astronomica di 825 miliardi di dollari. Se gli Usa assorbono il 16,2% delle importazioni mondiali (toccando il massimo storico nel 2000 con circa il 19%), il deficit commerciale rappresenta circa 8% delle esportazioni mondiali (detto di passaggio, l’altro parassita in deficit crescente è l’alleato inglese). Ora, quale incidenza avrà questo deficit sull’incremento della produzione industriale mondiale è difficile dire: ma senza ombra di dubbio, se gli Usa da grandi creditori sono divenuti il più grande debitore del mondo e continuano a consumare più di quanto producano vivendo da parassiti, al tempo stesso, assorbendo una quantità sempre più ampia di beni, scremano la sovrapproduzione mondiale, attenuano e posticipano il prorompere della crisi e così accrescono, loro malgrado, il potenziale produttivo altrui, soprattutto dell’Asia orientale (Cina in testa), verso la quale hanno il debito maggiore. D’altra parte, rinviando gli approfondimenti al riguardo alla futura indagine specifica sulla questione monetaria, basti dire qui che il deficit americano è sorretto unicamente dalla posizione preminente del dollaro, come valuta mondiale di scambio e di tesaurizzazione (riserve), dietro cui stanno il capitale finanziario e il pilastro principe della forza militare. Così, gli Usa non solo battono carta straccia per consumare più di quanto producano, ma ricevono nuovamente i loro dollari provenienti sia dai paesi produttori di petrolio (come depositi nelle loro banche che per acquisto dei loro beni, in particolare armamenti) sia dai suoi maggiori creditori (come Giappone e Cina) sotto forma di finanziamento del loro debito pubblico. Il dollaro, dunque, in particolare quando è forte nei confronti delle altre monete, ha un movimento tendente ad autonomizzarsi rispetto al proprio valore, alla competitività delle merci americane, alla bilancia dei pagamenti in progressivo deficit. Ricordiamo che la base che determinata i rapporti di cambio è la produttività del lavoro (e la bilancia commerciale americana mostra quanto questa in generale sia inferiore ai concorrenti); poi, intervengono altri fattori, quali la domanda/offerta della moneta nazionale come mezzo di scambio internazionale, di tesaurizzazione, di speculazione, e non ultima la potenza militare, a sostegno di tutto il resto. Per gli Usa, è questo secondo insieme di fattori che prevale sul primo, falsificando tutti i rapporti (allo stesso modo, la legge del valore, su cui si basa il modo di produzione capitalistico, appare “non reale” per effetto della concorrenza e, nella fase imperialistica, sembra addirittura scomparire per effetto della predominanza del capitale finanziario, della droga del credito e di tutto quello che questo dominio comporta). Tuttavia, questi fattori gli Usa non sono in grado di falsificarli costantemente, in quanto alla base vi sono pur sempre le condizioni economiche reali e i conseguenti rapporti di forza che alla fine dicono l’ultima parola. Il trend declinante, in senso relativo, della potenza economica americana, a cui gli Usa oppongono tutta la propria forza extraeconomica, si riflette nelle ricorrenti fasi di debolezza del dollaro, di cui l’attuale è in corso dal 2001-2002. La debolezza del dollaro è teoricamente favorevole alle esportazioni e alla riduzione delle importazioni e quindi all’esposizione debitoria statunitense: e ad esempio, dato che è l’unica valuta su cui si regolano e avvengono gli scambi petroliferi 25 [xxiv], si riflette in un aumento del prezzo del petrolio (a parte i movimenti speculativi che lo investono) permettendo quindi agli Usa di sfruttare i propri pozzi petroliferi precedentemente fuori mercato e ai concorrenti con valute agganciate al dollaro o svalutatesi di riflesso di subire un aumento della loro “bolletta” energetica, ossia dei costi di produzione. D’altra parte, ciò non è favorevole per i Paesi creditori, tesaurizzatori e investitori in dollari, produttori di petrolio che vedono i loro portafogli assottigliarsi mano a mano che il biglietto verde perde valore – perdita che, se diviene consistente e repentina, per determinate cause in rapida evoluzione (quali una forte crisi finanziaria in terra americana) può determinare una fuga in massa dal dollaro e quindi innescarne il crollo – un crollo che sarebbe la catastrofe americana e, con effetto a catena, mondiale. Nessuno, e tanto meno i maggiori detentori di dollari e i maggiori creditori degli Usa, ha interesse a che il dollaro crolli, ma nessuno è in grado di evitarlo.

Rimandando quindi a specifici approfondimenti su tale argomenti, torniamo al nostro tema, che come vedremo mostra, nel dipanarsi della serie storica delle quote di ripartizione del commercio estero mondiale, i dialettici rapporti con quanto ora accennato.


L’evoluzione delle ripartizione delle quote del commercio mondiale

 

a) I sei grandi e la Russia

Osserviamo in primo luogo, dalla Tabella 13, il peso complessivo dell’insieme dei sei paesi più industrializzati della terra in rapporto al mercato mondiale, ponendo a confronto i due anni estremi del periodo 1948–2005. Il trend è declinante e già questo è significativo. Ma a ben guardare, la traiettoria discendente è tutt’altro che una linea costante prima del 1992.

La fine della guerra impone un forte ridimensionamento soprattutto agli Usa e secondariamente all’Inghilterra. Il 1950 rappresenta il punto più basso da cui risalire la china. La traiettoria è ascendente, in concomitanza con la grande espansione produttiva, fino a toccare il punto massimo nel 1970 e preannunciando a partire dall’anno successivo la crisi del 1974/75, i cui effetti si riverberano fino al 1976. Il recupero è però breve. Nel 1979, si ha nuovamente un calo che segna il riproporsi della crisi degli anni 1980: come insieme, i sei briganti restano più o meno stazionari per i successivi quattro anni, recuperando però fino alla crisi del 1991, anno in cui toccano il punto massimo di tutto il periodo in esame, con circa il 49% dell’esportazione mondiale. Da tale punto massimo, la quota del G6 lentamente quanto progressivamente, senza soluzione di continuità, decresce fino al 2005 e, perdendo dal 1991 ben oltre 13 punti percentuali, si attesta col 35,41% sotto la quota del 1950. Per converso, è il “Resto del mondo” che guadagna quanto perdono i big six. Ma, per quanto riguarda il “Resto del mondo”, classificato sviluppato (Australia e Nuova Zelanda) e in via di sviluppo, mentre Oceania, Africa e America Latina perdono progressivamente posizioni (nel 1948, detengono il 25,09% delle esportazioni mondiali, mentre nel 2005 il 9,56%, in lieve recupero rispetto al punto minimo del 7,88% toccato nel 1995), è l’Asia in via di sviluppo che accresce progressivamente la sua quota, dall’11,65% nel 1948 al 27,58% nel 2005 – crescita che è poi dovuta essenzialmente all’Asia Orientale (sempre Giappone escluso), che nello stesso periodo aumenta di quasi tre volte, passando dal 5,74% del 1948 al 20,97% del 2005. Tuttavia, la grande riscossa dell’Asia avviene dopo il 1970, anno che segna il punto minimo e di svolta della traiettoria discendente continua dalla fine del secondo conflitto imperialistico. La grande espansione del secondo dopoguerra dei paesi occidentali vede conseguentemente aumentare la loro quota fino al 1970, mentre è soprattutto l’Asia Orientale che, anche a causa delle lotte nazionali contro il giogo imperialistico e dello sviluppo del capitalismo nel suo stesso seno, subisce il dimezzarsi della sua quota rispetto al punto massimo del periodo, registrato nel lontano 1951. Lo sviluppo impetuoso del capitalismo asiatico si riversa a partire dagli anni ’70 anche nel mercato mondiale. Dal punto minino del 1970 al 2005, la quota dell’Asia Orientale quasi quadruplica, mentre l’insieme dei Sei Grandi, dopo il colpo di coda degli anni ’80, decresce progressivamente a partire dal 1992, confermando chiaramente quanto abbiamo già indicato in precedenza: da un lato, la fasce discendente dell’Occidente e, dall’altro, la contemporanea ascesa dell’Oriente. Due traiettorie irreversibili, fonte del mutamento dell’equilibrio mondiale uscito dal secondo conflitto imperialistico, che prima o poi devono entrare in collisione. Ma fin qui siamo rimasti a livello di grandi insiemi o aree e, per quanto sia questa l’indicazione di carattere generale, occorre scendere al livello particolare, ai singoli stati capitalistici, in quanto l’equilibrio capitalistico, che non è un equilibrio statico, bensì dinamico, fatto di continue oscillazioni con insanabile tendenza alla rottura, è determinato dai rapporti di forza tra i maggiori capitalismi nazionali tra loro concorrenti per la spartizione del bottino mondiale. Tali rapporti sono determinati dalla potenza economica, finanziaria, politica e militare che ogni imperialismo mette in campo: ma tale potenza muta e conseguentemente mutano i rapporti di potenza, in quanto nel capitalismo non può darsi sviluppo uniforme sia a livello di tutte le singole imprese, sia a livello di rami d’industria, monopoli, trust, e di singoli paesi ed aree, e «non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?» [26].

Rivolgiamo dunque l’attenzione in primo luogo all’imperialismo egemone anche politicamente, uscito dal secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti d’America, e per converso ai suoi diretti, vecchi e nuovi, concorrenti. Nel 1948, gli Usa detengono circa il 25%del commercio mondiale, e ciò grazie alla guerra imperialistica che ha innalzato loro e ridotto al lumicino vinti e vincitori (vedi precedente nota 213). Tuttavia, tale quota è ben al di sotto del 50% e oltre della produzione industriale detenuta: il che mostra che al commercio mondiale concorrono anche paesi meno sviluppati industrialmente. Nel 1950, con la ripresa economica (che per i paesi europei supera in tale anno, dal lato produttivo, il livello pre-guerra), la quota mondiale americana si ridimensiona notevolmente, non tanto per effetto di una diminuzione significativa del volume delle esportazioni (che a parte la contrazione nel 1950, dal 1948 al 1951 resta invariato, mentre l’attività produttiva è sostenuta dalla guerra di Corea), quanto invece per il maggior aumento delle esportazioni degli altri paesi e conseguentemente del volume mondiale – ridimensionamento che, con il progredire dell’espansione economica, prosegue inesorabile verso il basso, mentre al contempo gli Usa devono assistere al risorgere della concorrenza dei vecchi paesi europei e in particolar modo della Germania e del Giappone.

Se nel 1973, a ridosso della crisi del 1975, gli Usa perdono quota passando dal 16,16% del 1950 al 12,14% del commercio mondiale (il che non è poco dal punto di vista assoluto), essi perdono assai più nel rapporto relativo, in quanto nel frattempo la Germania e il Giappone hanno grandemente aumentato il loro mercato estero: il Giappone ha allargato la sua fetta di mercato di quasi 4 volte e la Germania di oltre 2,5 volte, ed è soprattutto quest’ultima che soffia sul collo al sempre più traballante primato americano, detenendo l’11,58% del commercio estero mondiale, massimo storico mai più successivamente raggiunto fino ad oggi.

La crisi del 1975 interrompe temporaneamente il trend da un lato di diminuzione degli Usa (che restano più o meno stabili per molti anni a venire grazie ad aver preceduto i concorrenti in forti ristrutturazioni, concentrazioni e soprattutto nella compressione del salario, oltre ad avere un dollaro debole) [28], e dall’altro di crescita della Germania, che subisce maggiormente la successiva crisi degli anni ’80, mentre il Giappone continua la sua espansione industriale e con essa quella commerciale (la sua quota cresce ininterrottamente fino al 1986, anno in cui USA, Germania e Giappone si fronteggiano più o meno in egual misura, sebbene sia la Germania a strappare per la prima volta, anche se di poco, il primato agli Usa, mentre il Giappone raggiunge la quota massima del 9,82%).

Dal 1986 al 1990, con la sola eccezione del 1989, la Germania mantiene il primato mondiale delle esportazioni (ricordiamo qui l’effetto sull’apprezzamento del marco sul dollaro perdurante fino al 1995, dovuto non soltanto all’Accordo del Plaza nel 1985), mentre il Giappone decresce lentamente, sia per la forte rivalutazione subita rispetto al dollaro con l’Accordo sopra citato, determinante una stagnazione delle esportazioni verso gli Usa che sono il suo principale cliente e debitore, sia per l’avvicinarsi della crisi del 1991 e della fine del tanto osannato e copiato “modello” di sviluppo.

Con la caduta del muro di Berlino e dell’impero sovietico e la crescita drogata americana degli anni ’90, gli Usa si riprendono e mantengono il primato delle esportazioni mondiali per il restante periodo dell’ultimo decennio del XX secolo. La Germania è senza dubbio quella che subisce maggiormente gli effetti sia della sua riunificazione sia del crollo dell’Urss, sia infine del più marcato rallentamento dell’economia europea, verso cui si rivolge oltre il 60% della sua esportazione, a cui va ad aggiungersi una diminuzione già iniziatasi dal 1987 delle esportazioni verso l’America del nord (di cui una concausa è qui probabilmente il marco forte, come sopra accennato). Mentre gli Usa, dal 1991 al 2000, sono nuovamente i primi esportatori mondiali, mantenendosi mediamente sul 12% con un recupero di circa due punti percentuali rispetto al punto più basso del 1987, la Germania dal 1995 scende sotto quota 10% toccando il punto minino di quest’ultimo periodo nel 2000 con l’8,57%.

La stagnazione-recessione che colpisce il Giappone dal 1991 trova sul fronte del commercio estero una progressiva diminuzione relativa delle sue esportazioni. La quota del 9,60% del 1993 si riduce progressivamente al 7,05% nel 1998 e, con la crisi del 2001, va in caduta libera fino al 2005, riducendosi di oltre un terzo rispetto a 12 anni prima.

La Russia risale lentamente la china dalla dissoluzione dell’impero sovietico, dal tracollo degli anni ‘90 e dalla crisi del 1998. La sua quota è di gran lunga la più bassa rispetto ai Sei Grandi e anche ad altri paesi minori (Corea del Sud, Belgio) e sia la sua fetta di mercato che la lenta risalita del suo peso relativo sono legate principalmente agli armamenti e in particolare alle esportazioni energetiche, su cui gioca favorevolmente in questi anni la crescita del prezzo del petrolio. Tuttavia, pur restando relegata a queste produzioni, l’essere la Russia il secondo e il primo produttore/esportatore mondiale di idrocarburi liquidi e gassosi, il più grande (per estensione) stato mondiale e la seconda potenza militare (più come forza deterrente che effettiva, se si esclude la potenza atomica), per citare i fattori principali e senza approfondire ulteriormente i collegati aspetti geo-storici ed extraeconomici, permette alla sua relativamente limitata potenza economica di avere un peso maggiore nei rapporti di forza interimperialistici, come sta mostrando in questi ultimi anni, e così di influenzare la contesa tra i grandi competitori sul mercato mondiale.

La crisi del 2000, che colpisce in primo luogo gli Usa, segna anche la fine del cosiddetto secondo miracolo economico statunitense. Dopo tale anno, gli Usa riprendono la traiettoria di discesa o di declino, frenata dalla reaganomics degli anni ’80 e interrotta temporaneamente dagli eventi dell’ultimo decennio del XX secolo. A differenza della prima guerra del Golfo, la seconda non apporta alcun temporaneo benefico alla loro Bilancia dei pagamenti in caduta libera. Nel 2005, la loro quota, con l’8,69%, è al punto più basso dal 1950, mentre la Germania, digerita la riunificazione e attuate le imponenti ristrutturazioni e delocalizzazioni, torna a recuperare progressivamente e dal 2003 al 2005 è nuovamente il primo esportatore mondiale. Tuttavia, anche la quota tedesca non è più, nel suo valore assoluto, quella raggiunta in passato e ciò vale ancor più per Inghilterra, Francia e Italia, che dal 1990 vedono progressivamente ridurre le loro quote: ciò in quanto, sulla scena mondiale, i principali storici attori non devono fare i conti soltanto fra loro, ma anche con i nuovi paesi emergenti, in particolare dell’Asia Orientale, tra i quali sempre più si fa largo il gigante cinese.

b) La Cina

Osservando sia la Tabella 11 che la Tabella 13, si può bene riscontrare come l’andamento delle esportazioni cinesi sia significativamente collegato con quanto abbiamo evidenziato a proposito della produzione industriale. La quota del commercio estero regredisce in concomitanza con gli avvenimenti del “Grande Balzo in avanti” (sul finire degli anni ’50) e della “Rivoluzione Culturale” (nella seconda metà degli anni’60), e dal 1968 al 1980 resta al livello più basso della sua storia, mentre il capitalismo cinese è ancora dedito a rafforzarsi al suo interno e soffre della mancanza di capitali. Nel 1977, con l’annuncio delle “quattro modernizzazioni”, dietro cui sta la spinta del capitale cinese a scrollarsi di dosso quei vincoli che erano stati prima necessari per formarsi le ossa, la Cina si avvia a fare il suo “nuovo” ingresso sempre più prorompente nel mercato mondiale. A partire dal 1978: riforma agraria con smantellamento delle improduttive comuni; accelerazione dello sviluppo capitalistico nella campagna con conseguente aumento della produttività ma anche liberazione di forza-lavoro per l’industria; liberalizzazione dell’economia con politica della “porta aperta” per attrarre capitali stranieri (legge 1979 sulle “imprese miste”) [29]; creazione a tal fine nel 1980 di quattro zone economiche speciali nel sud costiero, designate come motori dello sviluppo, ecc. – tutto ciò è espressione dello sviluppo del capitalismo in Cina e al contempo della necessità di espandersi nel mercato mondiale, al prezzo di notevoli squilibri interni.

Dal 1981 al 1995, il ritmo annuo di incremento delle esportazioni è del 12,67%, quasi triplicando rispetto al periodo 1959-1980, e la quota mondiale aumenta di oltre tre volte rispetto al livello minimo del 1977. Dopo la battuta d’arresto del 1996, per effetto dell’approssimarsi dell’esplosione della crisi asiatica, la marcia cinese continua inarrestabile e, dal 2001 (anno di ingresso nel WTO dopo circa 15 anni dalla richiesta avanzata nel lontano 1987) al 2005, mette a segno un incremento medio annuo del 25%, distanziando notevolmente la Germania (incremento medio di circa il 10%) e soprattutto gli Usa (un misero 1,5%). Così, dal 2000, brucia posizioni su posizioni sul mercato mondiale e nel 2004 soppianta il Giappone, portandosi al terzo posto nella graduatoria mondiale e sempre più a ridosso degli Usa e della Germania.

La Tabella 14 riassume da un altro punto di vista chi scende e chi sale. Dal 1980, la Cina contribuisce progressivamente e a grandi balzi all’espansione delle esportazioni mondiali e nell’ultimo periodo 2000-2005 determina 1/6 della crescita mondiale, raggiunge il peso del 28% di tutto il Resto del Mondo industrializzato e in via di sviluppo, supera la stessa Germania (che pure concorre con un buon 11%), mentre i cinque grandi regrediscono, con gli USA che addirittura flettono negativamente.

La lotta per il primato è appena cominciata.

 

Il collimare delle coordinate tracciate

 

Posto che il trend produttivo dell’Asia orientale e in particolare quello del Celeste Impero si mantenga ancora sui livelli medio-alti di questi ultimi anni (e ciò è probabile che avvenga ancora per un certo periodo), condizione essenziale perché questo avvenga è che la Cina incrementi ulteriormente a grandi passi le sue esportazioni e dunque la sua quota mondiale. Ora, la Cina non esporta soltanto gadgets e cotillons; non detiene soltanto nel 2001-2003 il 20% dell’esportazione mondiale dell’abbigliamento. Dal 1987 al 2003, la quota delle sue esportazioni di beni primari sul totale delle esportazioni è diminuita dal 38% al 9%. La quota dei beni a cosiddetta alta intensità di lavoro (per noi, bassa composizione organica del capitale) è diminuita dal 36% al 28% sempre sul totale esportato, mentre è quasi raddoppiata quella a debole e media intensità tecnologica (dal 10,4 al 19,3) e soprattutto è decuplicata passando dal 3% è al 30% la quota dei prodotti elettronici (communications equipment, computer and office machines, parts and components) [30].

Sempre più la Cina sarà costretta a invadere il mercato dei prodotti cosiddetti ad alto valore aggiunto che sono ancora prerogativa dei maggiori paesi industrializzati e, in primo luogo, come diretto concorrente del Giappone, il quale dovrà riarmarsi, dismettendo dapprima la maschera pacifista impostagli alla fine della seconda guerra mondiale. E’ indiscutibile che ben presto la Cina sarà il primo esportatore mondiale, accelerando, con il contributo degli altri principali attori (tra cui la Germania), la disgregazione dell’equilibrio capitalistico già progressivamente incrinato nel corso degli ultimi 30-40 anni. Questo processo di disgregazione dell’economia mondiale, con i conseguenti prolungamenti politici e militari, in pari tempo ha e avrà i suoi effetti sui rapporti di classe all’interno dei singoli paesi capitalistici. Se l’Asia orientale e la Cina sono stati e sono un fattore di sostegno del mercato mondiale, via via che al loro interno si accentueranno le contraddizioni economiche e la lotta di classe, sempre più saranno al contempo un fattore disgregativo dell’instabile ordine mondiale e di accelerazione della crisi generale – non solo incrementando la sovrapproduzione e la competizione mondiale, ma anche provocando accelerati rimescolamenti della divisione internazionale del lavoro: aggiungendo ad esempio alla delocalizzazione sempre più spinta ampi processi di deindustrializzazione nelle metropoli imperialiste, con un aumento, da un lato, della disoccupazione industriale e della precarizzazione di vasti strati del proletariato e, dall’altro, della proletarizzazione di ampi strati della piccola e media borghesia intraprenditrice e non. Questo contesto di spogliazione e pauperizzazione generale si accompagna alla necessità del capitale di comprimere progressivamente, con forme dirette e indirette (riduzione delle guarentigie del welfare state), le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia occidentale verso i livelli della classe operaia dei paesi in via di sviluppo, sottoposta a uno sfruttamento che oltrepassa in ampiezza, e forse anche in profondità, quello dell’Occidente ottocentesco. Forme che vanno a sommarsi a ciò che il capitale ottiene senza ingaggiare alcuna lotta: ciò che i libero-scambisti borghesi riconoscono ad esempio nelle esportazioni cinesi come benefico contribuito a mantenere bassa l’inflazione nelle metropoli imperialistiche in realtà maschera quello che è sempre stato il portato del “libero commercio”, e cioè: riduzione del prezzo della forza-lavoro abbassandone il costo dei mezzi di sostentamento, compressione del salario medio al minimo, aumenti dei ritmi e dell’orario di lavoro.

 

***

Gli auspici di Stapleton, di cui parlava Marx nella citazione riportata agli inizi, sono dunque sempre più in via di realizzazione. Ma al contempo si verificheranno anche altre situazioni: l’aristocrazia operaia (creata dall’imperialismo arraffando sovrapprofitti dal resto del mondo) si va e andrà ad assottigliare come quota in rapporto al resto della classe proletaria delle metropoli imperialistiche ancora alla mercè dell’oppio opportunista, e le diversità delle condizioni di vita e di lavoro delle varie parti della classe operaia mondiale tendono e tenderanno a ridursi, uniformandosi al peggio.

Un buon lavoro svolge dunque il cosiddetto neo-liberismo, il capitalismo selvaggio, il libero movimento del capitale, che ovviamente si attira gli strali delle mezze classi del mondo intero! Mentre il protezionismo è conservatore, il libero commercio è distruttivo: non solo dissolve gli antichi modi di produzione, sgombra il campo dai residui del passato, ma spinge all’estremo l’antagonismo fra borghesia e proletariato.

La globalizzazione del capitale è la globalizzazione del suo nemico e affossatore e solo il modo di produzione capitalistico è in grado, obtorto collo, di creare le condizioni oggettive per il risorgere politico del suo becchino.

 

 


 

Tabelle:


 

Tab. 11 - Indice delle esportazioni mondiali, dei 6 grandi, Urss/Russia e Cina 1948-2005

Tab. 12 – Decrescenza dei ritmi di incremento del commercio mondiale 

Tab. 13 – Quote di ripartizione del commercio mondiale (export) 

Tab. 14 – Contributo all’espansione del commercio mondiale (export) 

 

Note:


1. Cfr, “Introduzione – L’espansione storica del volume della produzione mondiale - Ia parte”, in “Il programma comunista”, n.1/2005.

2 Lenin, “A proposito della cosiddetta questione dei mercati”, in Opere complete, vol. I°, Editori Riuniti, pagg. 69 e seguenti.

3 K. Marx, Il Capitale, Libro III, Utet, pag.304.

4 «Come tutto è diventato monopolio, vi sono ai nostri giorni [1848!!! - testa di legno d’un fariseo dell’economia borghese! NdR] anche alcuni rami industriali che dominano tutti gli altri e che assicurano ai popoli che li sfruttano di più l’impero del mercato mondiale» K. Marx, “Discorso sulla questione del libero scambio”,  Opere complete, Vol. VI, Editori Riuniti, pag. 482

5 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Vol. II, pagg. 332-334.

6 Lenin, L’imperialismo, Opere in sei volumi, vol II, pag. 467. Ancora Lenin: «Ricordiamo su che cosa è basata la sostituzione della moderna epoca imperialista alla precedente epoca "pacifica" del capitalismo: sul fatto che la libera concorrenza ha ceduto il posto alle unioni monopolistiche dei capitalisti e che tutto il globo è stato ripartito. E' chiaro che questi due fatti (e fattori) hanno effettivamente un significato mondiale:  il libero commercio e la concorrenza pacifica erano possibili e necessari finché il capitale poteva ampliare senza ostacoli le sue colonie e conquistare in Africa e altrove delle terre non ancora occupate, fino a quando la concentrazione del capitale era ancora debole e inoltre non esistevano imprese monopolistiche, imprese così grandi da dominare completamente un dato ramo dell'industria. Il sorgere e lo svilupparsi di tali imprese monopolistiche rendono impossibile la passata libera concorrenza, poiché le minano il terreno sotto i piedi, mentre la spartizione del globo costringe a passare dall'espansione pacifica alla lotta armata per una nuova divisione delle colonie e delle sfere di influenza» (Lenin, “Il fallimento della II Internazionale”, Opere in sei volumi, vol. II, pag. 348).

7 Da “Proprietà e capitale”, uscito a puntate su quella che allora era la nostra rivista Prometeo, tra il 1948 e il 1950.

8 K. Marx, Il capitale, Libro III, cit., pag. 304. Esso rappresenta una delle cause antagoniste alla caduta tendenziale del saggio generale del profitto indicate nel Cap. XIV del Libro III del Capitale.

9 Idem, pag. 304-305.

10 Ciò inoltre permette con più facilità la cosiddetta pratica del “dumping” utilizzata per entrare nel mercato interno di un paese estero a danno sia dei concorrenti esteri sia in particolare per estromettere e distruggere i produttori locali.

11 «Ramsay ed altri economisti pongono giustamente una differenza tra l’aumento della produttività che si verifica nelle branche industriali che sviluppano il capitale fisso, e naturalmente i salari, e quello che si verifica in altre industrie, per esempio nelle industrie che producono articoli di lusso. Queste ultime non possono ridurre il tempo di lavoro necessario [in quanto tali articoli non entrano nel consumo immediato dell’operaio ossia nel costo di produzione della merce forza lavoro - NdR]. Ma possono farlo mediante lo scambio con i prodotti agricoli di paesi esteri, e allora è come se la produttività fosse aumentata nell’ambito dell’agricoltura. Dunque l’importanza del libero commercio del grano per i capitalisti industriali» ( K. Marx, Lineamenti fondamentali dell’economia politica, cit, Vol.II, pagg. 465-6).

12 K. Marx, Il Capitale,  Libro I, cit., pag. 899.

13 Idem,  pag. 919.

14 Idem, pag. 923.

15  Lenin, “A proposito della cosiddetta questione dei mercati”, cit., pagg. 69 e seguenti.

16 K. Marx, Il capitale, Libro I, cit., pag. 267.

17 Al crescere della potenza produttiva del mostro meccanico, decresce la qualità e il tenore nutritivo dell’alimento, ne decresce la quantità pro capite e ne aumenta il prezzo. E il capitale sa bene come agire affinché questa quantità pro capite non sia mai in eccesso.

18 Vadano come esempi tutta la “gloriosa “ storia della Banca Mondiale e del FMI e le cosiddette “ristrutturazioni” del debito dei Paesi del Terzo Mondo.

19 Lenin, L’imperialismo, cit., pag.499.

20 La lista sarebbe assai lunga e comunque incompleta perché in continuo aggiornamento. In essa, gli Usa hanno un posto in prima fila, a cominciare da ciò che hanno sempre considerato il loro giardino di casa: l’America centro-meridionale.  Detto di passaggio, trovano posto in questo sistema di “buone relazioni” e di concorrenza tra imperialisti i cosiddetti “aiuti umanitari”, che hanno tutt’altro fine che  il disinteressato aiuto.

21 K. Marx, Il capitale, Libro I, cit., nota d) alla 3° edizione, pag. 767-8.

22 Assai prima della fine del conflitto, la superpotenza emergente, gli Usa, e quella in declino, la Gran Bretagna, dietro i quali stava il debito corollario di Stati minori (o meglio satelliti) poco dopo aderenti agli accordi, si preoccuparono di disegnare i piani del  nuovo ordine mondiale. Al di là delle beffarde enunciazioni della Carta Atlantica (14/8/1941), poi Dichiarazione delle Nazioni Unite (1/1/1942), di liberare l’umanità per sempre dalla paura e dal bisogno mentre si continuava a massacrare e affamare milioni di proletari, al di là del cosiddetto diritto all’autodeterminazione dei popoli rispetto alla forma di governo sotto la quale vogliono vivere, della rinuncia all’impiego della forza, al di là di tutto ciò, una volta distrutta la tirannia nazista, un posto ben più concreto occupavano la ricostruzione economico-finanziaria, la libertà di commercio e di accesso alle materie prime del mondo. Libertà di commercio e dei capitali che per gli Usa, alla fine del conflitto, sarebbe divenuta imperiosa necessità, determinata dalla loro grande espansione produttiva causata dalla guerra e dalla riconversione di parte del mastodontico apparato industriale-militare in produzione civile: per evitare che la loro potenza economica subisse un tracollo, il resto del mondo e in particolare l’Europa e il Giappone dovevano aprire le loro frontiere alle merci e capitali americani. Ma soprattutto, nell’immediato, occorreva che tali dissanguate economie e con le bilance dei pagamenti in profondo rosso potessero assorbire a piene mani le merci americane: necessità che gli Accordi di Bretton Wood (1944), con cui gli Usa ottennero/imposero la loro moneta come valuta di riferimento per gli scambi internazionali soppiantando definitivamente la sterlina, e l’Accordo Generale sulle tariffe e il commercio (GATT), in cui i rapporti commerciali tra USA ed Europa rappresentavano la sostanza, non potevano risolvere. D’altro lato, le disastrate economie europee potevano offrire al capitale americano, pletoricamente gonfiatosi durante la guerra, occasione di investimento a un saggio di profitto assai più elevato di quello realizzabile in patria. Così, nel 1947, con il Piano Marshall, dietro l’ipocrisia degli aiuti e prestiti disinteressati, dopo aver tenuto le economie europee ed extraeuropee nell’incertezza distribuendo “gratuitamente” viveri, gli astuti finanzieri americani si apprestarono a comprare le industrie europee in fallimento, con i quattro soldi che stampavano a ripetizione, e ad assicurarsi così elevati tassi di profitto (che soltanto economie che partivano da zero potevano produrre) e il mercato di sbocco alle loro merci. Chiudendo questa breve parentesi, tutta la successiva evoluzione in estensione dei contenuti del Gatt (poi WTO), passando per l’Uruguay Round, e tutta la proliferazione sia delle cosiddette aree di libero scambio, dalla Ceca, CEE, e UE, fino al Nafta, all’Asean, al Mercosur, all’Apec, ecc., sia degli accordi bilaterali, mentre da un lato sono il prodotto della necessità di espansione del mercato, sempre più ristretto e saturo, e della lotta tra concorrenti  e gruppi di concorrenti, dall’altro non sono che la superficie sotto la quale stanno ben altre forme e strumenti di penetrazione e lotta senza quartiere tra i maggiori briganti imperialisti per mantenere ed estendere il proprio mercato, la propria fetta di plusvalore mondiale, da cui dipende la propria potenza economica e militare, il proprio peso specifico nella competizione globale. Vi sono le forme tipiche dell’imperialismo, che Lenin mette ben in evidenza nel suo “opuscolo popolare”, e a cui in parte abbiamo accennato in precedenza.

23 Se da un lato, le tariffe doganali applicate dai paesi industrializzati, in base agli accordi susseguitesi in seno al Gatt, si sono ridotte mediamente al 4% nel 1990  rispetto al 40% del 1946, dall’altro di sono moltiplicati i cosiddetti diritti di “compensazione” nell’ambito delle procedure antidumping, mediante il proliferare di restrizioni non tariffarie e in particolare  del contingentamento delle importazioni con la pretesa di compensazioni imposte ai paesi fornitori. “Secondo un studio realizzato nel 1986 dalla Banca Mondiale, quasi l’80% del commercio internazionale sfuggirebbe alle disposizioni del GATT: un quarto degli scambi è sottoposto a quote o ad accordi di limitazione; un altro quarto corrisponde ai movimenti fra case madri e filiali delle multinazionali  e un altro quarto è oggetto di accordi di baratto”. La Banca dei Regolamenti Internazionali , nel suo 62° Rapporto Annuale (1992), annotava: “In questi ultimi anni la politica di molti paesi industrializzati  si è sempre più allontanata da quell’ideale di libero scambio che aveva motivato la liberalizzazione progressiva e multilaterale del commercio dopo la guerra e che era stata ricompensata da decenni di prosperità senza precedenti” (cit. in André Gauthier, L’economia mondiale dal 1945 al oggi, Il Mulino, pag.118-119). Senza accennare alle ripetute dispute, controversie, ritorsioni (ad esempio, tra i grandi Usa-Giappone-UE a cui poi si è aggiunta la Cina), il Doha Round, annunciato nel 2001 come il più grande negoziato commerciale a favore dello sviluppo, al di là del suo ripetuto fallimento, in particolare nel settore agricolo, mette in esemplare evidenza come libero mercato e  “sviluppo” siano soltanto forme di brigantaggio e di asservimento da parte dei più forti a discapito dei più deboli, e come liberoscambismo-protezionismo sia intercambiabili o perseguiti contemporaneamente, a seconda della bisogna.

24 Nota metodologica. La fonte dei dati su cui sono elaborate la Tabella 11 e le tabelle seguenti è il database dell'UNCTAD. La serie storica per il Mondo e i singoli paesi e aree è in dollari correnti e parte dal 1948, sebbene in tale anno e nel successivo vi siano alcune lacune. Abbiamo quindi trasformato tale sequenza in dollari costanti, utilizzando lo stesso metodo applicato nel 1957 per la composizione del “Prospetto VIIa”, pubblicato nel “Programma comunista”, n.22/1957, ossia rapportando i valori annui correnti all’indice generale dei prezzi alla produzione USA (Producer Price Index, da cui l’acronimo PPI), con base 1982=100, reperibili dal database del Bureau of Labor Statistics americano. In nulla influisce, ai fini della determinazione delle serie degli indici del commercio, il ridurre i valori correnti a prezzi costanti del 1934 piuttosto che del 2000. Tenuto conto che i due prospetti (VIIa e VIIb) del 1957 riguardano purtroppo solo il Mondo e non i singoli paesi, non abbiamo provveduto all’aggiornamento degli stessi, pur potendolo fare. Pertanto, a differenza della produzione industriale, abbiamo qui la sequenza storica a partire dal 1948-50: ma ciò basta e avanza.

25 Essendo proprio questo uno dei puntelli della sua preminenza, dietro tutte le panzane che sono state raccontate e ancora si racconteranno circa l’intervento americano in Iraq non c’è solo il controllo strategico delle zone di produzione e trasporto dell’oro nero, ma anche la strenua difesa del dollaro come unica moneta di transazione.

26 Lenin, L’imperialismo, Opere in sei volumi, vol II.  pag.524

27 E’ da sottolineare che il dato risulta sopravvalutato, in quanto i dati dell’Unctad, come è visibile dalla stesse tabelle, sulla cui base esse sono elaborate, sono mancanti per parecchi Stati, tra cui la Germania, l’Urss e la Cina, della stima delle loro esportazioni per gli anni 1948 e 1949. In ogni modo, la sovravalutazione non dovrebbe essere significativa, dato che è ipotizzabile uno  scarso volume delle parti mancanti.

28 Dagli anni della crisi del ’75, la classe operaia americana, fino ad allora la meglio pagata al mondo, diviene progressivamente quella peggio retribuita in rapporto alla classe operaia degli altri maggiori imperialismi, e ancora oggi il salario medio orario reale è inferiore al massimo registrato nel 1973.

29 Nel 1978, venne concluso il primo accordo commerciale di lungo periodo con il Giappone, principale mercato di sbocco fino al 1992: con esso, la Cina si impegnava a fornire petrolio e carbone in cambio di acciaio, fabbriche “chiavi in mano “ e tecnologie avanzate per la petrolchimica e la metallurgia. E’ invece del 1979 l’accordo con gli Usa, con cui questi ultimi attribuivano alla Cina la clausola di nazione più favorita, clausola mai messa in discussione nonostante le farse sul non rispetto “cinese” dei diritti umani ed altre idiozie del genere.

30 Unctad, Trade and Development Repo

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2008)