Ancora su capitalismo e catastrofi (a proposito dei disastri che hanno colpito Emilia Romagna e Marche)

Pubblicato: 2024-01-15 14:58:55

Nel numero scorso di questo giornale, non abbiamo potuto fare a meno di commentare la disastrosa quanto tracotante gestione capitalistica di uno dei consueti eventi naturali che animano la vita del Pianeta. Pensavamo di poter lasciare in sospeso l'argomento, e invece eccoci costretti a tornarci su di nuovo...

Primavera 2023: l'Emilia Romagna e la parte settentrionale delle Marche vanno sott'acqua (nello stesso periodo, anche Afghanistan e dintorni vengono travolti). Riccione, Rimini, Cesena, Bertinoro, Forlì, Faenza, Imola, i loro territori collinari e montani, e poi molti paesi del Ravennate e del Bolognese, comprese gli stessi capoluoghi, subiscono, dopo due giorni di pioggia intensa, lo scempio dell'alluvione e di enormi frane: morti e feriti, e migliaia di persone sgombrate od obbligate a chiudersi in casa ai piani alti. Un vero cataclisma: a subire l'alluvione sono cinque provincie contemporaneamente! La macchina dei soccorsi è in panne e tutte le inefficienze del “Sistema Italia” vengono a galla. Se non fosse per la presenza di migliaia di volontari accorsi a centinaia, la situazione sarebbe ancora più grave. Decenni di incuria e abbandono del territorio presentano il conto.

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Gran parte del territorio pianeggiante dell'Emilia Romagna est si trova per ampi tratti sotto il livello del letto dei fiumi. Nel corso dei secoli, ma con maggior intensità dalla fine dell'Ottocento, quei fiumi sono stati imbrigliati con alti argini e un grande complesso di idrovore in cu si dovrebbe raccogliere l'acqua eventualmente sfuggita nei campi, per pomparla di nuovo dentro l'alveo, Si dovrebbe...

Questo sistema si è dimostrato insufficiente e in crisi, tant'è che ogni precipitazione, anche di poco sopra la media prevista ai tempi della costruzione, determina grandi catastrofi.

A che si deve?

A leggere le dichiarazioni di tecnici e politici dovremmo prendercela in primo luogo con gli istrici: una novità, visto che fino all'altro giorno colpevoli erano le nutrie... Secondo questi detrattori dello roditore, gli istrici, con indefessa perseveranza e gran lavorio diurno e notturno, rosicchiano costantemente gli argini, determinandone la rottura e le tragiche conseguenze del tracimare dell'acqua nei centri abitati e nelle campagne coltivate. Sembra una barzelletta, ma non lo è: sono dichiarazioni apparse sui mezzi di comunicazione proprio qualche giorno prima della tragedia.

Se quest'ultima spiegazione non soddisfacesse appieno i preoccupati interrogativi dell'“utenza”, menti ancora più eccelse delle prime la integrano con il fenomeno del riscaldamento globale e del conseguente cambiamento climatico: “purtroppo il clima è cambiato e questi eventi del tutto eccezionali sono e saranno sempre più frequenti, sempre più imponenti nelle dimensioni”. Ergo: nessun intervento immediato o a medio termine può metterci una pezza. Alcuni, inconsapevolmente più onesti degli altri, si spingono a dichiarare che “bisogna abituarsi a queste eventi”. Chi non la pensa così (raggiungendo così il livello più basso di capacità analitica), ci propina la solita solfa delle “responsabilità individuali” (che comunque non incappano quasi mai in una condanna penale o civile, alla fine delle indagini e dei procedimenti giudiziari: e come potrebbero, visto che costituzioni, leggi e tribunali son costruiti, con l'alibi del bene comune, per tutelare la proprietà e l'uso privato dei suoli!?), oppure da mancati atti politici e amministrativi; e pertanto, si potrebbe camminare verso un futuro più equilibrato e sicuro, apponendo l'apposita scheda elettorale con il nome del “giovane” di turno che, in virtù di volontà e onestà, rimetterà tutto a posto.

Ripetiamo: non sono barzellette, ma le “elucubrazioni” che la “classe dirigente” italiana abbozza ogni volta, nel tentativo di arginare la propria rotta.

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Il processo di inurbamento, accelerato dopo la Seconda guerra mondiale e prolungato per tutto il resto del secolo scorso, ha letteralmente spopolato le montagne, le colline e le campagne delle pianure: la progressiva scomparsa della popolazione e della relativa economia agricola ha determinato l'abbandono della manutenzione di quei territori. Il processo è poi continuato con lo sviluppo dell'attuale intensivo sistema agro-zootecnico che, sfruttando e impoverendo le campagne, non ha saputo né voluto creare un'alternativa “sostenibile” per la manutenzione del territorio rurale (ma neppure urbano, come si è visto). Gli enti locali sono stati a tal punto privati di risorse economiche che nessun comune (a esclusione, forse, dei grandi centri) oramai può assumere quei lavoratori cantonieri, che prima avevano garantito almeno un minimo di manutenzione e nemmeno di assegnare la manutenzione ai privati, se non in minima parte con il solito nefasto sistema degli appalti e subappalti.

La vegetazione cedua e ad alto fusto ha ripreso così in gran parte il sopravvento: le rive di fiumi e torrenti in territorio montano e collinare, quasi fin dentro gli stessi alvei, sono soffocati da questa massa enorme di vegetazione. A ogni alluvione, possiamo constatare il risultato con le tonnellate di legname strappate dalla furia dei corsi d'acqua e trascinate a valle, che contribuiscono a ostruire i piloni dei ponti e a impedire la tracimazione dei fiumi. Lo stesso discorso vale per i tanti chilometri di argini che si snodano nel territorio pianeggiante fino al mare: se, a mettere a serio rischio la tenuta dei terrapieni, fossero davvero gli istrici e le nutrie con la loro istintiva attività, questa sarebbe la dimostrazione proprio della necessità di un costante monitoraggio delle rive e dei canali, per renderne efficace la manutenzione.

L'inurbamento ha determinato anche un altro effetto, che mostra tutti i limiti e i danni degli ultimi 70 e più anni di “politiche di sviluppo urbano”. Città e cittadine si sono gonfiate di continuo, alla ricerca di nuovo terreno su cui costruire e alimentare il business dell'edilizia, e si è finito col costruire a fianco e spesso al di sotto dei fiumi, espropriando con i giardini “privati” senza alcun obbligo di manutenzione e cura i terrapieni degli argini. Se aggiungiamo poi i milioni di metri cubi di cemento e asfalto sversati a piene mani su tutto il territorio, con il conseguente “scivolamento delle acque” che si riversano nei fiumi senza più nessun ostacolo naturale, la frittata è fatta. Il tragico combinato disposto di questa redditizia incuria è sotto gli occhi di tutti.

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Non saremo certo noi a negare la realtà del cambiamento climatico.

A partire dall'avvento dell'industrialismo, cioè del modo di produzione capitalistico, con l'uso e l'abuso delle fonti energetiche di origine fossile, le condizioni del clima sono andate cambiando. Due secoli di capitalismo hanno prodotto tra l'altro enormi e crescenti emissioni di gas serra nell'atmosfera, contribuendo così a innalzare progressivamente la temperatura media del pianeta. Basta guardare il grafico delle temperature medie annue mondiali negli ultimi due secoli per constatare non solo che l'innalzamento della temperatura è costante, ma che ormai è in forte accelerazione, disegnando una parabola che assomiglia molto a un'iperbole. Il cambiamento climatico è reale, pericoloso, non si sa se a medio tempo reversibile, e insieme alla pressione antropica sul pianeta potrebbe contribuire alla sesta estinzione di massa della storia della Terra – la prima non soltanto naturale.

Solo gli sciocchi e gli interessati possono negare ciò che avviene sotto gli occhi di tutti.

Se le conseguenze non fossero nefaste, scapperebbe da ridere sentire i funzionari della classe al potere che negano e minimizzano il fenomeno, spesso dipingendo chi ne denuncia l’avvento e le conseguenze come cospiratori e/o vecchi hippies catastrofisti – quegli stessi funzionari che oggi, per i propri interessi, per giustificare la propria insipienza, per non mettere in discussione il sistema di cui sono servi ed espressione, vi si appellano per sgravarsi delle proprie schiaccianti responsabilità. Chi si autoassolve è la stessa classe che da almeno due secoli e mezzo ha contribuito con la propria scelleratezza e le proprie pratiche tecnico-economiche a inquinare l'intero pianeta. 

Se consultiamo uno dei tanti elenchi delle alluvioni avvenute in Italia dalla sua Unificazione, reperibili nei più svariati siti, vediamo che la questione è sempre la stessa: opere umane infrastrutturali e urbane interferiscono con i cicli della natura, compreso quello dell'acqua – una considerazione che non è comunque una attenuante per le gravi responsabilità di chi oggi regge le sorti del “sistema Italia”. Questo, in ultima analisi, per due motivi: economici e storico-temporali.

Sull’arco di almeno 70 anni, il nostro Partito ha identificato le cause economiche e le aggravanti politiche dei disastri ambientali prodotti dall'agire umano (1). Disordine nella produzione, ricerca perfino licenziosa del profitto a ogni costo, il tutto aggravato oggi dal tentativo di sopravvivere alla “crisi”, con il continuo sottrarre risorse alla manutenzione dei manufatti umani e con la cuccagna della ricostruzione. Ai fini del processo di accumulazione del capitale, è infatti più profittevole l'economia dei disastri che non quella della prevenzione!

Se per il giovane capitalismo “liberal-liberista”, ancora povero di ricchezza accumulata e di mezzi tecnici, poteva in parte essere giustificata l'incapacità di gestire “situazioni estreme naturali”, oggi il senescente capitalismo “monopolista” non si può più appellare a una mancanza di mezzi, senza rasentare, da criminale, il ridicolo quando non il patetico. La società attuale è non solo “ricca”, ma enormemente cresciuta nel proprio patrimonio tecnico-scientifico: eppure, opulenta com’è, crolla drammaticamente sotto i colpi degli eventi atmosferici, e naturali in genere, che  più o meno intensi ci sono sempre stati. Oggi, l'umanità avrebbe tutte le risorse per dedicarsi alla cura del territorio. Chi avrebbe dovuto occuparsi di manutenzione ha avuto non anni, ma decenni, per farlo: al contrario, poco e niente è stato fatto, a tal punto che, se a Firenze, nella tristemente epica alluvione del novembre del 1966, ci vollero 15 giorni di pioggia per creare l'onda di piena, la Romagna è andata sotto metri d'acqua nel giro di un giorno e mezzo: l'eccezionale pioggia solo in misura minima ha determinato il disastro...

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Se tutto questo non bastasse, dopo decenni e decenni di tragedie sulla “povera gente” (ma noi diciamo proletariato), a ogni dramma dobbiamo sorbirci anche la trita e moralistica novella della ricerca del responsabile o delle responsabilità. Lo diciamo non perché non bisognerebbe punire, anche in tempi borghesi, gli scellerati e i gabbamondo. Lo diciamo perché la favola del cattivo amministratore o del governante arraffone, a cui si troverebbe la soluzione con l'avvento del buon amministratore disinteressato ed onesto, è solo una stanca narrazione che la borghesia utilizza ormai da sempre, a ogni svolto drammatico di cui è responsabile. A quante nascite di nuove forze politiche paladine dell'“onestà” e del “buon governo” abbiamo assistito in tutti questi anni? Quanti individui “unti dal signore” ci hanno promesso un futuro radioso? Ognuno di loro, appena impugnata la cloche del comando, s’è immediatamente mutato in uno spietato rapace (se già non lo era fin dall'inizio!), non diversamente da quello che in passato occupava il suo posto. Questo è il modo di procedere di una società individualistica, dove vivere sfruttando milioni di persone non solo non è deplorevole ma è cool. Non distorsione, ma normalità: il ciclo che ogni nuovo potente compie da sconosciuto a demiurgo (e che con una certa frequenza finisce o in farsa o in tragedia), non è l'agire distorto di un singolo, ma il modo comune, normale, di procedere della società odierna. Dove, per di più, si assiste a una accelerazione della necessità del cambio della marionetta al comando, visto che in passato un politico poteva attendersi 50 anni di onorata carriera mentre oggi i giovani rampanti fanno fatica a doppiare il decennio.

La questione è al contrario un problema dell'intera società, un problema collettivo e dunque un problema di classe. Sintetizzando al massimo, possiamo tranquillamente affermare che il Capitale non è in grado di fare diversamente. L'estrema divisione sociale del lavoro e l’alienazione individualistica sempre più estesa e profonda, effetti del procedere stesso del Capitale, impediscono alla borghesia stessa di avere un quadro complessivo dell'evoluzione del suo stesso sistema; al contempo, il processo degenerativo genera una classe dirigente sempre più farlocca, ignorante e truffaldina. L'organizzazione disorganizzata, privatistica e senza ordine, del modo di produzione capitalistico non è in grado di evitare ciò che sta avvenendo – e non ne ha neanche l'intenzione.

(1) I lettori possono approfondire questi argomenti leggendo i nostri articoli, usciti fra i primi anni ’50 e la metà degli anni ’60 del ‘900, “Pubblica utilità, cuccagna privata”, “Specie umana e crosta terrestre”, “Spazio contro cemento”, e soprattutto “Piena e rotta della civiltà borghese”, “La leggenda del Piave”, e “Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l'alluvione delle Leggi Speciali”, tutti reperibili sul nostro sito www.internationalcommunistparty.org.