Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari

Pubblicato: 2023-12-28 16:41:31

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Necessità della lotta di difesa economica

Nella prospettiva comunista, l’obbiettivo storico della conquista del potere politico con l’insurrezione rivoluzionaria guidata dal partito per instaurare la dittatura del proletariato – unico passaggio possibile verso la società senza divisioni di classe – non è mai separato dalla necessità che i proletari lottino qui e ora per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro contro la quotidiana pressione del capitale. Anche in questa lotta, di difesa, il partito comunista deve intervenire, per indirizzarla e possibilmente dirigerla, per farla uscire dall’ambito grettamente economico in cui il capitale ed i nemici riformisti vorrebbero rinchiuderla, utilizzandola – con la sua caratteristica di quotidiana guerriglia – come un allenamento e una scuola per la guerra di classe.

L’azione dei comunisti sul terreno di queste battaglie difensive, di sopravvivenza, dispiega un ventaglio di rivendicazioni, prevalentemente economiche ma anche sociali, da perseguirsi con appropriati metodo di lotta. Per i comunisti, infatti, i metodi di lotta si accompagnano agli obbiettivi in un rapporto di reciproca fecondazione che va ad alimentare la preparazione rivoluzionaria della classe.

Nell’arco di ormai un paio di secoli, le esperienze delle lotte economico-sociali hanno dimostrato il limite della loro azione, se esse vengono condotte nella solitudine dello spontaneismo dei lavoratori: da soli, senza l’intervento del partito comunista, non solo i proletari non potranno mai arrivare a un’azione politica (agire cioè come classe per sé, con i suoi propri obbiettivi storico-politici), ma anche rimanendo in questo ambito (cioè come classe in sé, ovvero come mera forza-lavoro del sistema capitalista) cadono facile preda del riformismo, che li sacrifica uno dopo l’altro sull’altare del capitale, peggiorando l’insieme delle loro condizioni generali.

Naturalmente, in questo arco plurisecolare di storia proletaria, tra gli alti e i bassi delle esperienze organizzative, nei successi rivoluzionari e nelle sconfitte della controrivoluzione, le forme di queste lotte di difesa economica hanno subito evoluzioni e adattamenti che hanno accompagnato la trasformazione delle sovrastrutture della società borghese (per una più completa analisi di questi processi complessi, rimandiamo i lettori al nostro opuscolo Partito di classe e questione sindacale, 1994).

Ma, se l’esito di quest’evoluzione nell’ambito della moderna fase imperialista ha trasformato la tradizionale struttura sindacale in un vero e proprio organo di controllo economico e sociale del proletariato, con ciò non è certo scomparsa la necessità della difesa economica, come non è scomparso l’antagonismo radicale e potenziale del proletariato nei confronti del capitale: il procedere stesso della crisi economica, le contraddizioni che essa apre, le conseguenti derive sociali, risospingono inesorabilmente i lavoratori di ogni stato imperialista su quel terreno di lotta e li costringeranno a darsi nuovamente strutture stabili di difesa, che saranno anche uno dei terreni di scontro tra i comunisti e il fronte variegato del nemico riformista e borghese.

Il partito comunista non nega dunque le lotte economiche e sociali di difesa (magari – come vorrebbero alcuni – perché “ormai il capitale in crisi non può più concedere nulla”, o – come vorrebbero altri – perché “l’unica prospettiva è la presa del potere”: posizioni entrambe infantili e meccanicistiche), ma opera in esse proponendosi di organizzarle e dirigerle, spingendole oltre i loro inevitabili limiti, perché esse diventino elemento dialettico di uno sviluppo della lotta di classe in senso rivoluzionario.

 

La prospettiva comunista

Le rivendicazioni che esporremo più avanti sintetizzano le esperienze che i lavoratori hanno vissuto e affrontano quotidianamente: sono indicazioni di lotta ricorrenti e invarianti, perché invariante è il modo di produzione capitalistico. Ma per essere obiettivi realmente perseguibili devono darsi un metodo irrinunciabile di lotta, ed è questo metodo ad armare il nostro disfattismo nei confronti della solidarietà economica con la società del capitale ed il suo stato, a partire dalla solidarietà di ogni lavoratore con la sua azienda.

Ogni lotta economica ha una sua inevitabile origine “locale”, un fattore scatenante limitato e quindi immediato: ma per poter raggiungere un successo che sia quanto più possibile duraturo non può rimanere circoscritta alla sua origine. Il localismo (che non si limita all’isolamento “geografico”, ma che include il confine dell’azienda, della categoria, del settore produttivo), cioè la limitazione di una lotta economica al solo ambito della sua esplosione, si è dimostrato un mezzo primitivo e insufficiente (e proprio per questo è tanto amato sia dal riformismo operaista, esaltatore del consiglio di fabbrica o del comitato aziendale, sia dal riformismo corporativista, esaltatore delle caratteristiche di categoria). Il localismo è il principale mezzo con cui si alimenta la “naturale” divisione tra lavoratori (occupati, disoccupati, precari, indigeni, immigrati, giovani, vecchi, femmine, maschi, e soprattutto appartenenti a questa o quella “categoria” o “settore produttivo”) ed è una delle cause dell’indebolimento della capacità di lotta dei proletari. Al contrario, un fronte più compatto ed esteso può essere più resistente e combattivo, e dunque può infliggere maggiori danni alla controparte. Sostenere l’indipendenza delle categorie e delle federazioni, cadere nella trappola delle “professionalità”, è un sistema che mantiene la divisione nella classe: l’azione unitaria deve invece tendere al superamento di ogni tipo di localismo.

 

Metodi di lotta: Lo Sciopero

Lo sciopero è un mezzo di lotta e non un “diritto” graziosamente concesso e regolamentato dalla legge borghese: dunque, come mezzo di lotta va usato. Esso è anzi il principale mezzo di lotta che, bloccando la produzione e la distribuzione delle merci e dei servizi, paralizza la vita economica borghese e colpisce direttamente l’unica cosa cara ai padroni e ai dirigenti d’azienda: il guadagno immediato. Lo sciopero deve quindi mirare a estendersi sul territorio e a durare nel tempo: deve, cioè, porsi l’obiettivo di causare il più pesante danno economico alla controparte e, al fine di colpire la maggior parte delle aziende (e, possibilmente, lo stato borghese), deve coinvolgere inevitabilmente i più diversi settori dei lavoratori, superando tutte le artificiose divisioni create al loro interno. Poiché lo sciopero è l’arma principale nella lotta economica del proletariato, la borghesia, conoscendone gli effetti tremendi ha sempre tentato di bloccarne l’incisività trasformandolo in un “diritto civile”, che può essere regolamentato per legge o addirittura “temporaneamente” sospeso, ma soprattutto introducendo una pratica di autoregolamentazione gestita dagli stessi sindacati di regime.

È evidente che il proletariato dovrà rompere questa connivenza e collaborazione di classe con la borghesia e il suo Stato, se vorrà (e dovrà farlo) esprimere fino in fondo la sua volontà di difesa e di lotta.

Organizzazione, estensione, durata e conclusione della lotta non sono contrattabili a priori con la classe avversa, ma si articolano soltanto sulla base della forza che si riesce a dispiegare.

No, dunque, a ogni limitazione imposta per legge, ma soprattutto no ad una autoregolamentazione sindacale che pretenda preavvisi e informazioni sullo sciopero, la sua propaganda, la sua articolazione la sua durata.

Lo sciopero è un atto di guerra economica da cui dipendono le sorti immediate e future dei lavoratori. Non ha bisogno di “avvisi”: parte e si ferma solo in funzione dei risultati della lotta e del rapporto di forza esistente.

 

Le casse di sciopero e l’organizzazione sindacale

Un antico adagio sugli scioperi dichiara che bisogna “resistere un minuto in più dei padroni”. Per essere realisti, questa resistenza deve essere economicamente sostenuta, non solo dal recupero totale di quanto si è perso nel corso della lotta, ma soprattutto della solidarietà fattiva e organizzativa (economica) di tutti i lavoratori.

In previsione degli scioperi, l’organizzazione dei lavoratori si dovrà quindi dotare di fondi che si trasformeranno in casse di sciopero per sostenere collettivamente tutti i lavoratori (senza distinzioni arbitrarie) e tutti coloro che dal salario dipendono.

E’ questo il motivo per cui l’organizzazione di difesa economica deve avere un carattere di stabilità e continuità e non può essere improvvisata e organizzata all’ultima minuto.

L’adesione all’organizzazione implica dunque anche un sostegno di tipo economico, e questo sostegno deve essere gestito direttamente dai lavoratori fiduciari sul luogo di lavoro, nel distretto o nel comparto in cui si organizza la struttura sindacale territoriale, senza alcuna delega al “prelievo” automatico sulla busta paga di una quota da versare (come fosse una tangente!) al sindacato.

I fondi cosi raccolti serviranno a sostenere l’organizzazione stessa, che ha bisogno dei migliori tra i proletari che siano capaci di portare avanti non solo la sua attività ordinaria (struttura, propaganda, mobilitazione, ecc. ), ma soprattutto di sostenere i lavoratori in lotta ( preparazione e distribuzione) collettiva dei mezzi di sussistenza e sopravvivenza per gli scioperanti nel corso della lotta, difesa legale, sostegno diretto in tutte le forme a chi subisce la repressione della borghesia).

 

Orientamenti di lotta: Sul salario reale

Il salario è quanto il capitale deve pagare al lavoratore per garantirgli l’esistenza. Esso comprende quindi: i mezzi di sussistenza personali (alimenti e un minimo di soddisfazioni di altri bisogni); i mezzi di sussistenza per la sua famiglia (affitto, istruzione dei figli, ecc.); l’educazione professionale. La cifra reale che viene pagata al lavoratore sotto forma di salario, perciò dipende principalmente dall’andamento della domanda e dell’offerta della merce forza-lavoro, e quindi soprattutto dal rapporto di forza tra classe operaia e padronato. Ogni aumento di salario riduce l’ammontare del plusvalore ed è per questo che ogni padrone, ogni dirigente d’azienda, ogni deputato al parlamento, ogni ministro, lo teme e vuole controllarlo rigidamente.

Nient’altro che la lotta riesce pertanto a intaccare (temporaneamente) il profitto, permettendo alla classe di trovare un po’ di sollievo dalle pressanti esigenze imposte della produttività (che significa aumento del lavoro non pagato su quello necessario). Nessun aumento di salario garantisce dalla sua costante svalutazione, sia nei periodi di prosperità sia nel corso delle crisi periodiche a cui è soggetto il capitale. Nessuna legge (Costituzione, Statuto dei lavoratori), nessun contratto, nessuna Scala Mobile possono proteggere pacificamente il salario: tutt’al più, essi tendono a istituire una condizione stazionaria, alla lunga perdente per la classe. Non esiste altra possibilità che la lotta e l’unione dei lavoratori per contrastare l’attacco al salario e contrastare anche la concorrenza che gli operai sono costretti a farsi nelle diverse condizioni in cui vengono a trovarsi nella società capitalistica. Ogni aumento del salario non può quindi essere ristretto a qualche categoria o settore, ma deve essere conquistato per l’intera classe. Tutti gli aumenti devono coinvolgere il salario-base, perché tutti gli altri aumenti accessori sono funzionali all’aumento della produttività, della flessibilità, del rendimento produttivo. Gli aumenti massicci contingenti devono essere più forti per le categorie peggio retribuite, e questo non tanto per un malinteso senso di astratta e moralistica “giustizia” verso gli altri lavoratori, quanto per garantire l’unità dell’insieme dei lavoratori sia nel presente che nel futuro.

Oltre all’attacco diretto (attraverso tagli, ecc.) l’altra forma di attacco al salario utilizzato dalla borghesia per contenere il salario è la sua riduzione indiretta attraverso l’aumento dei costi di mezzi di sussistenza, delle tariffe, degli affitti, dei trasporti (riduzioni che non colpiscono solo i lavoratori, ma anche le classi medie e basse in via di proletarizzazione). Si tratta di quote di salario sottratte ai lavoratori, per cui l’aumento salariale deve integrarle, evitando la confusione con le rivendicazioni generiche e indifferenziate della cosiddetta “lotta al carovita”. La riduzione delle tariffe, degli affitti, dei trasporti, se è richiesta da sola e non è inserita in una più ampia prospettiva di rivendicazione salariale, non è una richiesta “di classe”, ma diventa un’indistinta “richiesta popolare”. Nella lotta per il salario, si deve tener conto anche delle trattenute: la nostra rivendicazione è la soppressione di ogni trattenuta, sia per malattia, sia per disoccupazione, pensione, assegni familiari: tutte le trattenute devono essere a carico della classe capitalistica e del suo stato. Allo stesso titolo, deve essere soppressa ogni imposizione fiscale che gravi sui lavoratori.

 

Sulla giornata lavorativa

La nostra rivendicazione è una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, senza nessuna diluizione nell’arco della durata del contratto: deve essere immediata, perché immediata deve essere la diminuzione della fatica psicofisica per consentire il recupero delle forze dei lavoratori senza mettere in forse il salario. Questa riduzione deve essere computata in ore lavorative giornaliere e in giorni di riposo settimanali.

Un’ulteriore drastica riduzione va riservata per chi è occupato in un lavoro usurante o pericoloso. Vanno naturalmente contrastate le ore di salario aggiuntive, festive o notturne, monetizzate in qualsiasi modo. Per i lavori a ciclo continuo e notturni, l’orario di lavoro deve essere ulteriormente ridotto fino ad andare incontro alla loro completa abolizione.

 

Sui contratti di lavoro

Poiché il contratto è una relazione a senso unico, che la controparte impone ai lavoratori per assicurarsi l’uso della forza-lavoro per un certo numero di anni nelle condizioni di produttività imposte dalla realtà capitalistica, impossibili da quantificare in anticipo, i lavoratori devono mettere in conto la rottura del contratto in caso di mutamenti sopravvenuti nelle condizioni medesime.

Esso deve essere quindi rescindibile in ogni momento da parte dei lavoratori (un’analisi approfondita del “nuovo contratto di lavoro” verrà effettuata in uno dei prossimi numeri di questo giornale).

 

Su licenziamenti e disoccupazione

Poiché la realtà capitalistica è instabile e senza regole per sua stessa natura, i lavoratori si troveranno sempre ad affrontare licenziamenti e disoccupazione. Non si tratta di processi temporanei, locali: l’esercito industriale di riserva, ovvero la massa di lavoratori di riserva (disoccupati o sotto-occupati) funziona come un invaso che si svuota e si riempie ciclicamente: di questa massa, il capitale fa buon uso come forza concorrenziale agli operai occupati.

Essa si compone di lavoratori immigrati (parte oggi crescente), di forza-lavoro in cerca di prima occupazione, di forza-lavoro femminile e, ultima in ordine di tempo, di forza-lavoro precaria. Le nostre rivendicazioni si basano non solo sulla lotta contro i licenziamenti, a cui la resistenza operaia di massa, generalizzata e nazionale, deve dare il suo apporto decisivo; ma soprattutto sulla difesa del salario, che deve essere integrale per tutti i licenziati, qualunque sia la causa del licenziamento a carico delle associazioni padronali e dello Stato borghese. Dunque, non cassa integrazione a tempo determinato e a salario ridotto, ma salario integrale fino a che non venga ripristinato il rapporto di lavoro. Anche nel caso di riduzioni dell’orario di lavoro (passaggio al part-time o a forme precarie di lavoro ridotto o flessibile), va mantenuto lo stesso salario. Per quanto riguarda il nostro rifiuto dei licenziamenti, va da sé che esso non assume un carattere morale e tanto meno di sostegno alla cosiddetta “cultura del lavoro”.

 

Di fronte alle ristrutturazioni

Poiché è impossibile impedire le ristrutturazioni (la sostituzione di macchine a operai per aumentare la produttività aziendale) che accompagnano la vita normale del Capitale, occorre combatterne gli effetti: cioè, l’aumento dello sfruttamento, l’intensificazione dei ritmi, la disoccupazione per manodopera in soprannumero. Alla parola astratta “no alla ristrutturazione”, priva di qualunque efficacia sul piano della lotta di difesa delle condizioni di lavoro, occorre rispondere con un drastico aumento del salario base e con la drastica riduzione dell’orario. Per non rimanere intrappolati nella monetizzazione della salute, (per gli effetti negativi che essa subirà a causa dell’aumento dei ritmi e della flessibilità produttiva), occorre lottare per la riduzione drastica dei carichi di lavoro, per imporre la riduzione della giornata lavorativa e per impedire i licenziamenti, che la ristrutturazione inevitabilmente metterà in conto.

 

Di fronte ai cottimi e agli incentivi

Nella dinamica capitalistica di estorsione del plusvalore, vengono escogitate le più varie forme di incentivi e di premi legati alla produttività, e a esse si aggiungono varie forme di cottimo e gli straordinari. In particolare, il cottimo permette in corso d’opera di ottenere il taglio automatico dei tempi a parità di produzione standard, soprattutto nei sistemi automatici industriali; a sua volta, la detassazione degli straordinari, viene utilizzata di recente come incentivo per recuperare parte del salario. Tutto ciò impone un aumento della produttività dei lavoratori, sia personale che di gruppo, sia continua che discontinua, a seconda delle esigenze produttive dell’azienda – pressione che mette in concorrenza fra di loro i lavoratori. A causa dei bassi salari, a causa di condizioni di lavoro stressanti, si è spinti ad accettare premi di produzione e incentivi, bonus e straordinari temporanei, e nello stesso tempo, per ridurre i tempi di permanenza al lavoro, li si intervalla con giornate di riposo. Contrattualmente, queste forme di incentivi sono legittimate dalle organizzazioni sindacali, che grazie a esse monetizzano la produttività spingendo al collasso le condizioni di vita dei lavoratori. Per parte nostra, le rivendicazioni devono tendere a far sparire ogni forma di incentivazione e si può agire in questa direzione imponendo la riduzione dei carichi a parità di salario, la riduzione dei ritmi e dell’intensità, il rifiuto della contrattazione dei carichi secondo parametri tecnico-organizzativi e infine l’aumento radicale del salario-base per ridurre al massimo l’area dei premi e degli incentivi, del lavoro a cottimo, di quello nero e di quello a domicilio.

 

Sulle qualifiche

All’interno dell’azienda, l’organizzazione del lavoro impone una divisione di ruoli, di mansioni, di parametri professionali, che solo in piccolissima parte sono dovuti alla divisione tecnica: rappresentano l’esaltazione ideologica del merito, della professionalità, della carriera. I contratti di lavoro ne portano impressi i caratteri attraverso l’ampio ventaglio dei livelli e delle suddivisioni in qualifiche, giustificati dai cosiddetti parametri tecnici. La divisione serve a mantenere un clima di concorrenza tra i lavoratori di un’azienda. Per combattere questi miti, che si esprimono con premi particolari, minimi, superminimi, la richiesta principale è quella dell’aumento del salario-base a parità di tempo di lavoro. Nello stesso tempo, deve essere imposta la riduzione immediata e drastica del numero di livelli, con un passaggio di categoria immediato, indipendentemente dal lavoro svolto.

 

Di fronte a omicidi sul lavoro, infortuni, nocività

La natura della produzione capitalistica è quella dell’appropriazione di pluslavoro e plusvalore in tutte le ventiquattro ore del giorno. Ciò significa usurpare il tempo indispensabile al corpo per la crescita, per lo sviluppo e per la sua conservazione sana, rubare il tempo per respirare l’aria libera e godere della luce del sole, lesinare sul tempo dei pasti per incorporarlo nello stesso processo produttivo, ridurre il sonno necessario per mantenere, rinnovare, rinfrescare le forze vitali. Al capitale non interessa quanto duri la vita della forza lavorativa: quel che gli sta esclusivamente a cuore è il massimo di forza lavorativa che può utilizzare in una giornata. E’ partendo da questi effetti distruttivi sulle condizioni fisiche e psichiche dei lavoratori che occorre imporre limiti drastici all’azione delittuosa del capitale. Al primo posto, una forte riduzione dell’orario, soprattutto nelle lavorazioni a ciclo continuo, nei lavori usuranti, nelle attività a contatto con materiali e sostanze tossiche, dannosi alla salute, in ambienti malsani, non ventilati, soffocanti, e una lotta senza quartiere contro l’introduzione di nuovi turni che comportino anche orario notturno. Ma, poiché una tutela effettiva delle condizioni di vita e di lavoro implica un costo di produzione che si sottrae al profitto, non sarà mai garantita una protezione adeguata, per cui non basta la riduzione drastica delle ore lavorative. Gli ambienti di lavoro saranno sempre pericolosi per l’integrità fisica e psichica dei lavoratori. Occorre quindi aggiungere l’azione di lotta organizzata e generalizzata degli operai volta a interrompere e bloccare in ogni istante la produzione, ovunque sia segnalata la condizione, anche teorica, di probabilità di rischio.

Non esiste fatalità negli incidenti sul lavoro: esiste un calcolo del rischio aziendale messo in preventivo. Pertanto, i lavoratori devono imporre un’azione unitaria dall’esterno, che scavalchi non solo la valutazione tecnica improvvisata in seno alla fabbrica, ma anche e soprattutto la valutazione della stessa direzione imprenditoriale, che si avvale di tecnici, di medici, di professionisti, di psicologi e avvocati ben pagati dall’azienda. Con il riconoscimento delle nuove malattie professionali, devono essere rivalutate le pensioni, l’assistenza medica, le ferie, mentre va imposta la gratuità completa delle cure e il pagamento a salario pieno dei giorni di malattia per tutte le categorie. I lavoratori non devono poi cadere nel tranello di farsi partecipi di iniziative aziendali e sindacali di “controllo sull’ambiente di lavoro”, iniziative che, sfruttando il sempre risorgente mito del “controllo operaio”, hanno l’unico obiettivo di renderli corresponsabili delle condizioni di lavoro dei loro compagni.

 

Contro le discriminazioni

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori immigrati fa tutt’uno con la difesa economica e sociale di tutti i lavoratori. La solidarietà attiva e militante nei confronti dei lavoratori immigrati è una necessità vitale per tutta la classe proletaria: senza di essa, non è possibile superare le divisioni paralizzanti introdotte dalla borghesia, non è possibile ricostruire l’unità immediata e futura dei lavoratori, non è possibile difendersi efficacemente contro il capitale. L’indicazione generale “contro ogni forma di discriminazione” deve mettere al centro della lotta lo stesso trattamento sul posto di lavoro e fuori (salari, orari, licenziamenti, disoccupazione, alloggi, pensione, malattia, ferie).

La stessa lotta contro le discriminazioni deve coinvolgere il proletariato femminile sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro, i salari (un loro maggiore aumento) e il tempo di lavoro (una sua più drastica diminuzione) sia per quanto riguarda le condizioni di vita (lavori usuranti, straordinari, lavoro notturno, nocività, ecc). Per i giovani, vanno aboliti i lunghi anni di apprendistato con la relativa riduzione del salario. Tutti i contratti a termine devono essere trasformati in contratti a tempo indeterminato, soprattutto per queste categorie più deboli: gli immigrati, i giovani, le donne, i salariati agricoli, gli edili, i lavoratori dei servizi di cura, e del pubblico impiego.

 

Le forme sindacali nell’epoca dell’imperialismo e la democrazia sindacale

Nell’attuale epoca imperialista, la trasformazione dei sindacati in strutture totalmente integrate nello Stato borghese ha trovato facile sponda nell’opportunismo di ogni colore e sfumatura (socialdemocratico, staliniano, “post-staliniano”, social-religioso, fascista e nazional-socialismo, operaista, e perfino -per quel poco che ne rimane- anarcosindacalista). Ha trasformato il finanziamento dell’organizzazione, che doveva rimanere un mezzo materiale di autodifesa, in un vero e proprio affare.

In tutti i paesi, vuoi con forme di sostegno diretto (un tot per ogni iscritto) o indiretto (il “volontario” versamento dalla busta paga alla sigla sindacale tramite l’azienda), o attraverso la gestione dei cespiti previdenziali e le compartecipazioni negli istituti che gestiscono le assistenze, i sindacati ufficiali vivono e prosperano come parassiti sull’insieme dei lavoratori. La loro funzione di burocrati servili si esercita poi al massimo grado durante gli scioperi, quando essi “redistribuiscono” in modo clientelare e interessato parte di quanto accantonato. In tutti i paesi, lo Stato sostiene economicamente le organizzazioni sindacali nazionali, mettendole al riparo dagli attacchi del proletariato, insofferente del continuo ripiegamento e delle ripetute sconfitte: è quindi lo Stato borghese ad esercitare cosi, in ogni modo, un controllo sociale sul proletariato e sulla massa degli iscritti sindacali.

Per spazzar via tale marciume non ci sono scope d’acciaio che bastino: solo la radicalizzazione delle lotte potrà distruggere queste vere e proprie borghesissime “agenzie del lavoro”.

Inoltre, la “democrazia sindacale”, ovvero le diverse forme di organizzazione interne che le tre confederazioni (Cgil, Cisl, Uil) si sono date, pesa come un macigno tremendo sulla spontaneità, sulla vitalità e sul futuro della classe proletaria. Se un tempo la composizione operaia del sindacato (Cgil) ci permetteva di guardare con interesse alla possibilità di conquistarne la direzione, “anche a suon di legnate”, oppure di recuperarne almeno il nucleo originario di classe (finalità, metodi di lotta, obiettivi), oggi questa possibilità è definitivamente chiusa ed esclusa.

Contenuto corporativo e forma hanno ucciso quello che un tempo collocava questo sindacato nella corrente del movimento operaio (non abbiamo mai tenuto in conto tale possibilità per i sindacati gialli e bianchi, Cisl, Uil e altri).

Tutte le federazioni di categoria si muovono nella stessa direzione: Fiom e componenti della cosiddetta “sinistra sindacale” servono solo da spalla e da copertura, e la “democrazia sindacale” di continuo agitata da costoro o le percentuali di opposizione esibite in un corpo dittatorialmente coeso hanno il compito di mostrare una facciata pluralista coltivando l’illusione che, con qualche restauro di “democrazia interna”, questa o quella organizzazione potrebbe essere rimessa a disposizione dei lavoratori.

Nostro obbiettivo è quello di svelare dall’interno e dall’esterno quella che non è più una tendenza, ma un’alleanza strategica con lo Stato borghese nella difesa aperta della sua economia.

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Un sintomo dell’attuale debolezza del movimento rivendicativo dei lavoratori è il continuo richiamarsi alla lotta così detta “democrazia operaia”, in modo strumentale sia da parte dei sindacati istituzionalizzati che da parte dei sindacati di base.

Certo, la strumentalizzazione non è identica. Il “sentimento democratico” dei sindacati istituzionali non fa altro che ricalcare i riti e gli istituti della democrazia borghese (referendum, scheda, voto segreto, ecc.), mentre quello dei sindacati di base si richiama demagogicamente all’assemblearismo: ma in ogni caso la “sensibilità democratica” dei lavoratori, a cui si rifanno sempre tutti i riformisti, è solo un riflesso conservatore tra le masse proletarie, una manifestazione dell’ideologia borghese mediata da luoghi comuni, demagogia e illusionismo.

La “democrazia operaia” intesa come un “principio di organizzazione e di lotta” è succube di troppe ambiguità: con l’inflazione delle categorie di lavoratori, di federazione, di comparti geografici, di aziende, si moltiplicano gli interessi artificialmente contrapposti, mediabili con il trucco democratico, ma difficilmente unificabili in un fronte unitario di obiettivi.

La “democrazia operaia” può essere tutt’al più utilizzata come un espediente attraverso il quale una minoranza di avanguardia può ratificare il successo di una lotta. Ben altri sono gli strumenti attraverso i quali i contenuti e i metodi della lotta rivendicativa si fanno organizzazione e azione collettiva capaci di trascinare e coinvolgere il grosso dell’insieme dei lavoratori: sono i picchetti, il blocco delle merci, le “spazzolate” dei crumiri – strumenti tutti che esulano da maggioranze quantitative, ma che dimostrano, con la scienza dell’azione di classe, la qualità operativa di una “maggioranza” in lotta; la forza dei lavoratori non può aspettare l’unanimità dei lavoratori, ma il suo dispiegamento organizza i lavoratori stessi in “maggioranza”, trascinando i riottosi e i titubanti e perfino quelli che di lotta proprio non vorrebbero neppure sentir parlare.

                                                                                                                                            

Dalla difesa all’attacco

Si tratta, è evidente, di indicazioni di massima – meglio, dell’ossatura di quelle che, nel corso delle lotte future, si delineeranno come ulteriori rivendicazioni possibili. Ma è da queste indicazioni (metodi, mezzi ed obiettivi) che si deve ripartire, scontrandosi con l’opportunismo di ogni colore e orientamento: non soltanto per passare (quando sarà oggettivamente e soggettivamente possibile) “dalla difesa all’attacco”, sotto la guida irrinunciabile del partito rivoluzionario, ma anche per porre in maniera corretta (dunque, a partire dai contenuti e non dalle forme o dai gusci vuoti della pura declamazione) il problema della rinascita di organismi di difesa economica e sociale, in grado di contrastare efficacemente la pratica anti-proletaria di sindacati divenuti ormai da mezzo secolo strutture portanti dello Stato borghese.

 

Il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla.