La guerra nella concezione borghese e in quella marxista

Pubblicato: 2021-09-23 16:49:36

La guerra è certamente un fenomeno essenziale della storia. Ma che cosa ci hanno saputo dire gli storiografi di tutti i tipi intorno alle cause e agli effetti del fenomeno bellico? Quale analisi approfondita è stata compiuta per valutare il significato della guerra, la sua natura, e le leggi che governano il suo svolgersi nelle varie epoche?

La risposta è assolutamente deludente: si sono dette molte cose, ma una visione unitaria, generale ed unica non esiste nel mondo della “scienza” borghese, benché un ramo di questa si inte­ressi esclusivamente del fatto bellico e gli studiosi di cose militari siano, specie negli ultimi tempi, andati aumentando.

A noi marxisti ciò non desta meraviglia, si sa. Forse che esiste una definizione del valore della moneta nella “scienza” economica borghese? La risposta è ancora la stessa: ne esistono cento tutte fasulle, e non una e unica come nella dottrina economica di Marx. Data la sua natura di classe sfruttatrice, e le contraddizioni in cui essa è destinata a muoversi, la borghesia ha una incapacità storica a comprendere i fatti umani e sociali nel loro divenire. Il “fatto guerra” è ritenuto di esclusiva competenza dei militari. I teorici della guerra sono infat­ti tutti provenienti dall'esercito e relative accademie. Forse che è stata una libera scelta questa? No di certo; la borghesia vi è stata determinata dalla natura stessa della struttura economica capitalistica che – come si sa – ha spinto all'estremo la divisione del lavoro, la specializzazione, in ogni settore della produzione e quindi anche in quello della produzione scientifica. Sono così sorti gli esperti, gli specialisti di questo o quel ramo della scienza, ognuno autorizzato a ignorare tut­to ciò che non sia la "sua materia". Al pari dell'operaio spe­cializzato, lo scienziato borghese è spesso, se non quasi sem­pre, un mutilato e deformato mentale. L'economista è un “econo­mista-puro”. Lo storico uno “storico-puro”. Fra loro, essi non si conoscono affatto, o quasi.

Non fa quindi meraviglia che le interpretazioni del “fenome­no guerra” siano tanto unilaterali e fuori della realtà e, per­tanto, irrazionali e assurde.

Dire per esempio che la guerra rappresenta il conflitto delle forze del Bene e del Male e la si può evitare con la propa­ganda pacifista, significa solo fare della morale da quattro soldi e nulla più. "Questo appello alla morale e alla giusti­zia non ci aiuta ad avanzare di un passo nella scienza" (Engels).

Assurdo poi pensare che la guerra sia un castigo di Dio, e che, di conseguenza, la preghiera sia l'adatto rimedio. Seguono infine le interpretazioni cosiddette biologiche della guerra e altre ancora più ridi­cole e strane.

Ma, fra tutte queste "spiegazioni", la più insidiosa perché più generalmente accettata è quella individualistica e volontaristica, che considera la guerra come un possibile "sfizio" o "capriccio" di questo o quel Grande, politico o militare che sia, il quale "liberamente" la promuove per una più o meno in­nata sete di dominio territoriale o di prestigio. A questa “spiegazione” si rifà la definizione data da Karl von Clausewitz (1780-1831), ufficiale prussiano la cui scuola fu la prima a cercare di indagare e conoscere perché l'esercito francese poté vantare tante gloriose vittorie contro tutti gli eserciti europei (tra parentesi riferiamo che questa scuola "attribuisce le vittorie napoleoniche alla presenza di fattori morali", mentre la scuola che ha come esponente E. Jomini, già ufficiale di Napoleone, le considera "il frutto di un tecnici­smo perfetto"). La definizione del Clausewitz è la seguente (e famosa): "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".

Registriamo anzitutto il fatto che, in tale formula, il pa­cifismo piccolo borghese esce battuto, perché – logicamente – gli "altri mezzi" non sono quelli pacifici, propri della politica, invocati dagli opportunisti per risolvere i problemi so­ciali.

Noi respingiamo anche il preteso "libero arbitrio" dei politici – perché, in una società divisa in classi in cui gli uomini sono dominati totalmente dalle forze produttive e dall’ideologia espressione della classe al potere, nessuna libe­ra scelta di mezzi è a essi lasciata. Secondo il marxismo, la guerra nasce da determinazioni economiche e sociali e svolge un ruolo che trascende la volontà degli uomini al potere che l'hanno dichiarata. Ciò è tanto vero che gli scopi enunciati da costoro non solo non vengono raggiunti con la guerra ma ne sono addirittura sconvolti insieme ai più minuziosi piani tat­tici e strategici. Classico esempio è la guerra del 1870-71 che, iniziata come guerra difensiva per la Prussia, si trasformò in guerra civile di classe con la Comune di Parigi, e terminò come guerra di rapina imperialista: l'annessione alla Germania dell'Alsazia-Lorena – come Marx previde – costituì infatti uno dei germi della guerra mondiale nel 1914.

Dunque, la guerra non è uno "strumento" che passivamente si lascia adoperare da questo o da quel Bismark. Non fu Bismark a imporre la propria politica, ma fu la politica borghese a imporsi a Bismark, che fu poi licenziato non appena non fu più capace di comprenderla e di eseguirla. Marx ha sempre mostrato la piccolezza di questo "Grande".

A seconda delle condizioni generali di maturità delle strutture economiche esistenti nel dato periodo storico in cui essa si svolge, la guerra può modificare di molto il corso storico favorendo la violenza rivoluzionaria di classe. A queste "guerre di progresso", fanno riscontro quelle in cui l'inerzia storica delle forze sociali dà partita vinta alla violenza delle forze controrivoluzionarie di classe: in tal caso, le guerre hanno carattere conservatore e reazionario.

Come si vede, il giudizio marxista e l'atteggiamento prole­tario e rivoluzionario di fronte alle guerre non hanno nulla a che vedere con quelli di ogni altra corrente di pensiero.

I risultati – di sviluppo o di regresso cui conduce la guerra – non stupiscono, purché si pensi alle profonde trasformazioni cui essa da luogo nel campo della produzione economica e della sua distribuzione.

Il marxismo ha tratto il suo sapere dalla realtà sociale del capitalismo che ha creato il proletariato. E' dalla realtà to­tale di questa società che esso analizza i fatti, non dalla vi­sione delle attività e delle scienze alla quale la borghesia è condannata con tutti i suoi uomini politici e militari ultra-gallonati.

Contro il capitalismo, il proletariato rivoluzionario impie­gherà i suoi mezzi generali e totali tanto sul piano del sape­re teorico, quanto su quello della violenza. A ciò il proleta­riato è determinato dalla sua stessa natura di classe rivolu­zionaria, cui la storia affida la missione di distruggere tultte le altre classi, compresa la sua.

A questi dati importanti, che – ripetiamo – ci differenziano da ogni altra forza politica, vanno aggiunti i dati sul come le nostre conoscenze ci permettono di impiegare i mezzi a disposizione.

Nello studio delle forme successive di produzione – cioè lo sviluppo crescente delle forze produttive – vedremo che ogni forma superiore di produzione conferisce alla classe rivoluzionaria che ne è l'agente una sicura superiorità militare contro la forma precedente e inferiore. Da questa analisi trarremo la conclusione che il proletariato, lungi dall'appellarsi ai supe­riori "valori" di una astratta giustizia e di una falsa morale, utilizzerà tutti i suoi mezzi superiori di lotta armata.

Questo concetto che il proletariato farà uso per i suoi fi­ni di tutti i mezzi di lotta a sua disposizione non è applica­to dal marxismo solo sul terreno delle grandi manifestazioni di violenza, come le guerre fra stati e le guerre civili, ma anche su quelle delle modeste lotte quotidiane per la difesa del salario e la diminuzione della giornata lavorativa. E come potrebbe essere diversamente, quando la borghesia approfitta di ogni circostanza per lo scopo opposto di sfruttare ancora più gli operai?

Ci ricorda Marx: "Durante il XVI secolo ed anche durante i primi due terzi del XVII la giornata di lavoro normale fu di 10 ore in tutta l'Inghilterra. Durante la guerra contro i Giacobini, che fu in realtà una guerra dell'aristocrazia inglese contro le masse lavoratrici inglesi, il Capitale, celebrando i suoi baccanali, prolungò la giornata di lavoro da 10 a 12, da 14 a 16 ore" (Salario, prezzo e profitto).

Un partito che permettesse ai sindacati di seguire le teorie degli opportunisti secondo i quali il salario dipende unicamente dalle leggi economiche e dal loro gioco avulso da ogni altro avvenimento politico e militare, o comunque impastato di violenza, questo partito sarebbe esso stesso opportunista. Quelle "teorie" non sono che una sporca giustificazione dell'appoggio ai capitalisti.  

La dimostrazione di Marx, secondo la quale il saggio del salario dipende dal rapporto di forza fra le classi antagoniste, sbaraglia tutte le teorie degli economisti-puri che pretendono far dipendere il salario solo da astratte e inviolabili leggi economiche. Il proletariato può e deve quindi adoperare in ogni caso tutti i mezzi di lotta: legali e illegali, pacifici e violenti.

All'opportunismo degli economisti-puri fa riscontro nel campo borghese quello dei violentisti-puri alla Proudhon e alla Dürhing.

La scuola del signor Proudhon insegna che "la proprietà è un furto". Egli fa partire la dominazione di classe da un abu­so della forza da parte di individui più robusti che mantengo­no un tale dominio solo impiegando la violenza, in luogo di far partire le successive dominazioni di classe nella storia dalle strutture economiche e produttive. Proudhon trova ingiusto questo abuso della forza e pone dunque la giustizia sociale – cioè un ideale utopistico – come scopo da realizzare.

La "teoria della violenza" del sig. Dühring è ben nota: per lui la forza è "il fatto fondamentale della storia", il fine e non il mezzo per tenere in piedi un determinato ordine economico o per rovesciarlo; per lui la forza politica è la ba­se e il fatto originario della divisione in classi, e non viceversa. Ma facciamo parlare l’Engels dell’Antidühring: "E' nell'ar­mamento navale che si vede nel modo più tangibile come la vio­lenza politica immediata che, presso il sig. Dühring, è la causa decisiva delle condizioni economiche esistenti, è al contrario interamente assoggettata alle condizioni economiche; come non soltanto la produzione, ma anche il maneggio degli strumenti della violenza sul mare, le navi da guerra, è diventata es­sa stessa un ramo della grande industria moderna. Se le cose prendono sempre più questa piega, nessuno può farci niente, e non vi è alcuno più contrariato della violenza dello stesso Stato, che deve rassegnarsi a considerare già invecchiate, dunque deprezzate, queste navi così costose prima ancora di aver preso il mare e che deve sentire lo stesso disgusto del sig. Dühring di fronte al fatto che l'uomo dell'’ordine economico’, l'ingegnere, è diventato più importante a bordo dell'uomo della ‘violenza immediata’, il capitano".

A maggior chiarimento e provvisoria conclusione, circa la posizione marxista sui rapporti fra economia e violenza conviene ascol­tare ancora Engels: "Quello che qui importa stabilire è che dappertutto il dominio politico ha avuto a suo fondamento l'esercizio di una funzione sociale e che il dominio politico ha continuato ad esistere per lungo tempo solo laddove ha mantenuto l'esercizio di questa sua funzione". E più avanti: "E' chiaro di conseguenza quale funzione abbia la forza nella storia, di fronte allo sviluppo economico. In primo luogo, ogni forza politica è fondata originariamente su una funzione economica, sociale, e si accresce nella misura in cui, con la dissoluzione delle comunità primitive, i membri della società vengono tra­sformati in produttori privati e quindi vengono estraniati ancor più da coloro che amministrano le funzioni sociali comuni. In secondo luogo, dopo che la forza politica si è resa indipendente di fronte alla società e si è trasformata da serva in pa­drona, essa può agire in duplice direzione. O agisce nel senso e nella direzione del regolare sviluppo economico: in questo caso fra i due non sussiste alcun conflitto e lo sviluppo economico viene accelerato. O invece agisce nel senso opposto e, in questo caso, salvo poche eccezioni, soggiace interamente allo sviluppo economico".

"Queste poche eccezioni sono casi isolati di conquista, in cui i conquistatori, più rozzi, hanno sterminato e cacciato via la popolazione di un paese e ne hanno guastate o distrutte le forze produttive […] Laddove invece il potere statale interno di un paese è entrato in opposizione col suo sviluppo economico, come a un certo grado di sviluppo è capitato a ogni potere politico, la lotta ogni volta è finita con la caduta del potere politico. Senza eccezione e ineluttabilmente, lo svi­luppo economico si è aperta la via: abbiamo già ricordato l’ultimo e più lampante esempio di questo fenomeno: la grande Rivoluzione francese [...] Per il sig. Dühring, la forza è il male assoluto, il primo atto di violenza è per lui il peccato originale, tutta la sua esposizione è una geremiade sul fatto che la violenza, questa potenza diabolica, ha infettato tutta la storia fino a ora con la tabe del peccato originale e ha vergognosamente falsificato tutte le leggi naturali e sociali. Ma che la violenza abbia nella società ancora un'altra funzio­ne, una funzione rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice di ogni società gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte, di tutto questo nel sig. Dürhing non si trova nemmeno una parola".

Tanto basti, per il momento. Ma torneremo sul tema, che – come sappiamo anche solo guardandoci intorno – è di urgente e drammatica attualità.

22/09/2021