Lo stalinismo: non patologia del movimento operaio ma aperta controrivoluzione borghese

Pubblicato: 2021-02-26 16:19:24

 
 
 

La “bolscevizzazione”

Come si è già detto, la contrapposizione tra la Sinistra e l’Internazionale nacque so- prattutto sul fatto che la prima non voleva permettere che le questioni tattiche “locali”, cioè nazionali, fossero affrontate e risolte nel senso federativo (“ciascuno per sé”). Proprio questa prassi non solo aveva portato al fallimento della II Internazionale e alla sua adesione alle difese nazionali nella guerra mondiale, ma era quanto di più lontano dalle necessità rivoluzionarie, che richiedevano centralizzazione organizzativa e chia- rificazione su tutti gli aspetti dell’azione, in stretta aderenza con i principi del mar- xismo. Sbandamenti ed errori in quel campo (fu sottolineato di continuo) avrebbero provocato in primo luogo il risorgere di localismi e frazionismi, e alla lunga l’impos- sibilità di far fronte in modo corretto alle crescenti difficoltà che la controrivoluzione stava preparando su scala mondiale.

Era un problema di tattica il tentativo di non perdere il contatto con le masse: ma la politica del “fronte unico”, invece di rivolgersi alle masse operaie, cercò di coinvol- gere partiti non comunisti, e quindi non rivoluzionari, e finì col generare la politica del “governo operaio” – una tattica completamente sbagliata che ebbe l’effetto di disarmare ciò che restava dei partiti comunisti europei, reintroducendo nei fatti (a parole i vertici dell’Internazionale non vollero ammetterlo) la formazione di blocchi social-comunisti, ai quali si spalancassero le porte di questo o di quel parlamento. Ciò che l’Internazionale impose da Mosca alle sezioni nazionali col nome di “bol- scevizzazione”, pallida simulazione del tipo di organizzazione del partito bolscevico pre-rivoluzionario, voleva essere la soluzione dello stesso problema tattico – strin- gere più forti legami con la classe. In sostanza, partiti che fino ad allora si erano dati un’organizzazione fondata su basi territoriali dovevano, secondo le nuove direttive del 1925, riplasmarsi sull’organizzazione per cellule di fabbrica. Ciò significava met- tere in discussione tutta la vita interna dei partiti, sia riguardo all’organizzazione di base, sia al modo in cui le direttive politiche emanate dagli organi centrali del partito avrebbero potuto e dovuto essere discusse alla periferia.

Non entreremo ora nell’analisi di dettaglio delle ragioni per cui la Sinistra si oppose a una organizzazione per cellule di fabbrica, se non per ricordare che un partito autenti- camente comunista deve superare ogni limite imposto dall’organizzazione del lavoro capitalistico (entro tali limiti si muovono invece le organizzazioni economiche per rivendicazioni immediate e di carattere settoriale, ciò che tra l’altro impedisce loro di giungere a una visione realmente rivoluzionaria) e che la sua azione deve svilupparsi in tutti i settori della società a prescindere dalla divisione sociale del lavoro. Ma con la “bolscevizzazione” la ormai deragliante Internazionale volle imporre alle direzioni comuniste locali un metodo ben più pericoloso, che si sviluppa già in piena sintonia con lo stalinismo trionfante e che la Sinistra seppe individuare immediatamente: la nuova forma di organizzazione si esplicitava in una “onnipotente rete dei funzionari, selezionati col criterio dell’ossequio cieco ad un ricettario che vorrebbe essere il leninismo; in un metodo tattico e politico che si illude di realizzare il massimo di rispon- denza esecutiva alle disposizioni più inattese, e in una impostazione storica dell’azio- ne comunista mondiale in cui l’ultima parola debba sempre trovarsi nei precedenti del partito russo interpretati da un gruppo privilegiato di compagni”24. In questo modo, la direzione di sinistra del PCd’I – i cui dirigenti erano in carcere – fu sostituita con un nuovo centro; allo stesso modo e nello stesso anno (1923), in Sassonia, la tattica di lotta fu fissata dagli organi centrali dell’Internazionale, solo per addossarne poi la colpa, a sconfitta consumata, al centro tedesco.

 

Tortuosi percorsi nella politica dell’Internazionale

Le oscillazioni a 180° sul piano tattico furono, d’altronde, una costante della politica dell’Internazionale in quel decennio drammatico, apertosi con la marea montante dei moti rivoluzionari in Ungheria, Germania e Italia e conclusosi con la pratica delle espulsioni, dei processi interni ai partiti, delle sostituzioni di “sinistre” con “destre” e viceversa, quando più sembrava conveniente “per ragioni tattiche”. Da alcune sezioni dell’Internazionale, al suo III Congresso del 1921 (tra queste, la delegazione italiana per bocca di Terracini, che rappresentò le posizioni della Sinistra in modo assoluta- mente erroneo), fu prima proclamata la “teoria dell’offensiva”, che invitava i partiti comunisti, da poco formatisi in Europa, a spingere a fondo il processo rivoluzionario, for- mulando il principio dell’azione violenta diretta e frontale. Di questa posizione realmente infantile (cui giustamente si oppose Lenin nel corso dei dibattiti di quel Congresso, così come si oppose la stessa direzione del PCd’I nelle sue “Tesi di Roma” del 1922), l’Inter- nazionale stessa si appropriò solo un paio di anni dopo, come si è visto, nella questione tedesca. La Sinistra comunista proseguì la lotta contro questa deviazione infantile “di sinistra” da sola dopo la morte di Lenin, nel 1924 e nel 1926, così come aveva fatto nel 1922, sulla base del fatto che, se la “teoria dell’offensiva” doveva servire a “conquistare le masse” o a mantenere al partito una qualche maggioranza in esse, allora questa politica introduceva un’ulteriore storpiatura in senso democratico nell’azione rivoluzionaria, che sarebbe andata affiancandosi a quella (poi vincitrice) dei fronti unici e delle alleanze con la socialdemocrazia. In quel frangente, noi sviluppammo la previsione che “se la situa- zione oggettivamente diviene non più rivoluzionaria il partito deve accettare di divenire meno influente e meno numeroso, pur di non snaturarsi”25. Era proprio contro il pericolo che nell’Internazionale si cercassero delle soluzioni tattiche per ovviare a deficienze sul piano della compattezza teorica, che la Sinistra lottò incessantemente, in posizione via via più minoritaria ma sempre in aderenza ai principi marxisti, per la difesa del patrimonio rivoluzionario, e non ad essa apparteneva l’idea che, appena fatto, il partito si sarebbe lanciato armi in mano per la lotta aperta e per la conquista del potere. Come scrivemmo in seguito, “Della frase del fare la rivoluzione non abbiamo stima maggiore che della frase di costruire il socialismo […]. Il socialismo non si costruisce, la rivoluzione non si fa, il partito non si fonda, ma tutti questi processi della storia determinante si difendono contro le insidie inesauribili del mondo capitalista, e il rivoluzionario vero è quello che esprime la sensibilità proletaria contro le insidie peggiori. Distingue la Sinistra la certezza che la peggiore insidia non è (nei tempi) il prete, il barone, il fascista, il monopolista, o chi diavolo inventano, ma la democrazia pacifista e piccolo borghese”26. Allo stesso modo si dovrebbe dire che anche la questione, così a lungo controversa nelle massime assise dell’Internazionale, della “conquista delle masse” da parte del partito, era evidentemente mal posta, non essendo esse un “oggetto di conquista”: sarebbe meglio dire piuttosto che le masse, nel corso del dramma storico, si spostano a destra o a sinistra sotto l’incalzare di diversi e contraddittori processi, per la facilità con cui sono penetrate dall’ideologia do- minante, dalle lusinghe del riformismo sociale, dai condizionamenti della vita materiale e delle crisi, e possono infine cadere, in parte più o meno pronunciata, sotto l’influenza delle parole d’ordine del partito, almeno nella misura in cui questo ha saputo individuare e precisare con chiarezza il percorso storico della rivoluzione ed ha potuto operare cer- cando di difendere, con le unghie e con i denti, il contatto con la classe stessa.

Non passarono cinque anni da questi primi zigzag che, nel 1928, l’Internazionale, gettando a mare tutte le critiche di cui si era servita, con il pieno appoggio della nuova direzione gramsciana nel PCd’I schierata contro la Sinistra, lanciò su masse comple- tamente disorientate la parola d’ordine del “socialfascismo”. I tempi erano cambiati, ed ormai in Russia lo stalinismo aveva preso il sopravvento su ogni forma di opposi- zione al regime: ma, come si vede, l’incoerenza tattica era quella ereditata dagli anni precedenti. Si volle dunque sostenere la necessità di lottare tanto i fascisti quanto i so- cialisti democratici, in quanto espressioni di forme diverse di potere di classe borghe- se, tra cui i comunisti non avevano da fare alcuna scelta. Mentre in Germania la dire- zione staliniana nulla faceva in realtà per lottare contro il fascismo montante, Trotsky appoggiò vigorosamente e nuovamente la formula del blocco antinazista, restando coerentemente fermo sulle precedenti posizioni delle alleanze antifasciste in Italia. Altrettanto fermamente, la Sinistra ribadì la necessità di non cedere di fronte alle lusinghe dei fronti unici, prevedendo in anticipo sui tempi che anche lo sbandamento “a sinistra” dello stalinismo avrebbe inevitabilmente concluso la propria corsa nei blocchi nazionali e nei fronti popolari, precursori delle rinnovate sante alleanze con le “proprie” borghesie in difesa dei “propri” sacri confini nella nuova guerra mondiale.

 

Il “socialismo in un solo paese”

Le esitazioni che caratterizzarono anche i migliori anni dell’Internazionale non erano frutto del caso. Se si leggono i rapporti dei primi Congressi, si osserva come non passi anno in cui non sorga una particolare “questione” locale: quella italiana, quella tedesca, quella russa, quella coloniale, ecc. Per quale ragione, già dopo due anni dalla sua for- mazione, si presenta tutta una serie di problemi legati a questa o quella sezione nazio- nale? I comunisti di allora erano perfettamente consapevoli delle ragioni della fragilità della Seconda internazionale, delle sue carenze sul piano tattico-organizzativo, delle sue spiccate proprietà federative, delle sue tendenze autonomistiche a livello locale: aspetti che ne determineranno la fine ingloriosa, con la corresponsabilità al macello mondiale che iniziava nell’agosto 1914. È grande merito dei comunisti di quegli anni di aver cercato una soluzione organizzativa centralizzata mondiale che non ripetesse gli errori precedenti. Se non fu possibile ottenere quella auspicata saldezza che tutti allora speravano, ciò si deve in un certo senso alla fretta con cui si attuò in molti casi la separazione dai tronconi democratici che erano radicati nei vecchi partiti socialisti una fretta che non permise quel processo di progressiva, dura chiarificazione nei programmi del partito che era stato invece possibile all’interno del partito socialdemo- cratico russo prima, e bolscevico poi. Fu questa fretta a impedire il formarsi di una vera unità organizzativa, e ciò si risolse, con il rapido esaurirsi delle spinte rivoluzionarie in Europa, nel concentrare le forze direttive dell’intero movimento in Russia, che appari- va ancora, dopo l’esito drammatico del fallimento tedesco del 1923, come il luogo da cui si poteva ripartire per l’assalto finale alle borghesie mondiali.

Abbiamo già visto27 come la Russia vivesse in quegli anni un momento di gravissima crisi interna, politica ed economica. Alle difficoltà economiche cercò di rispondere la NEP, suscitando tuttavia una serie di nuovi problemi relativamente alla “forbice” che si apriva tra la produzione agricola e quella industriale. Alle difficoltà politiche corrispose da quel momento una cristallizzazione di posizioni che presto divennero antagoniste, dando luogo a schieramenti contrapposti: dalla cosiddetta “opposizione operaia” recla- mante maggiore democrazia nel partito, alla “sinistra” di Trotsky, cui più tardi si aggrap- parono Zinoviev e Kamenev, dalla “destra” di Bucharin a un “centro” mal definibile in quanto privo di una politica chiaramente espressa. In un tale contesto, il rimettere a Mo- sca l’incarico di prendere decisioni di ordine strategico internazionale significò, da parte dei partiti europei, caricarla di una responsabilità che più non le spettava: “la piramide an- dava rovesciata”, come non mancò di richiedere con urgenza la Sinistra nel V Congresso dell’Internazionale: nel senso che l’enorme aiuto che la Russia aveva dato fino ad allora al movimento internazionale nel quadro del processo di chiarificazione dei partiti comunisti ora le andava restituito da parte dei partiti europei, facendosi carico essi stessi dei nuovi insidiosi pericoli che la minacciavano all’interno.

Tali pericoli erano contenuti nell’enorme squilibrio tra un proletariato cittadino e indu- striale in grande difficoltà a causa del collasso dell’industria, conseguente alla guerra mon- diale e alla guerra civile, e un’immensa massa contadina che, alleata per il breve tempo della conquista del potere, si trasformava rapidamente e necessariamente in nemico. È in questo contesto “locale” che lo “stalinismo” si enuclea per la prima volta e in modo chiaro come dottrina controrivoluzionaria. Alla tesi da sempre sostenuta dai comunisti, e cioè che nessun socialismo sarebbe stato possibile nella Russia accerchiata e arretrata senza l’apporto decisivo della rivoluzione proletaria in Occidente, esso sostituì quella di una Russia saldamente in mano al partito comunista, e pronta ad affrontare un processo di superindustrializzazione che avrebbe dimostrato, attraverso i ferrei piani quinquennali, la superiorità di questa economia rispetto a quella occidentale: il “comunismo” stalinista avrebbe vinto la sfida col capitalismo imperialista a colpi di tassi di incremento produttivo. Fu nel corso della riunione del VI Comitato Esecutivo Allargato dell’Internazionale, nel febbraio 1926, che lo scontro della Sinistra comunista con Stalin portò alla luce con estrema chiarezza il fatto che si era giunti ormai, sulla questione dei rapporti Russia-In- ternazionale-rivoluzione mondiale, a un punto di non ritorno. Nel corso di una seduta28, Stalin avanzò una serie di posizioni non marxiste che caratterizzeranno tutto il corso della controrivoluzione che da lui prende il nome:

  1. chi ha il potere può orientare lo sviluppo o in senso socialista o in senso capitalista (un’autentica bestialità in termini marxisti!)29;
  2. lo sviluppo dell’economia russa e lo sviluppo della rivoluzione in Europa sarebbero coincisi (il che non aveva alcun senso, se non come giustificazione della nuova dottrina del “socialismo in un solo paese”);
  3. delle “questioni russe” si doveva occupare solo il partito russo, per la strana ragione che “i Partiti occidentali non sono ancora preparati a discutere di esse” (il che suonò come sinistra conferma del fatto che, da quel momento, l’unità rivoluzionaria internazionale era definitivamente spazzata via dai superiori interessi dello Stato e dell’economia russi). Ma tutto ciò che avvenne non era inevitabile: il corso della storia non doveva essere necessariamente quello che fu, con la tragedia che si abbatté sul corso della rivoluzione Con la presa del potere da parte del Partito comunista in Russia, erano aperte due strade: “la degenerazione interna dell’apparato di potere (Stato e Partito) che si adattava ad amministrare forme capitalistiche dichiarando di abbandonare l’attesa della rivoluzione mondiale (come è stato), o una lunga permanenza al potere del partito marxista, direttamente impegnato a sostenere la lotta proletaria rivoluzionaria in tutti i paesi esteri, e che, con il coraggio che ebbe Lenin, dichiarasse che le forme sociali inter- ne restavano largamente capitaliste (e precapitaliste)”30. Ciò che divenne inevitabile fu, a partire dall’abbandono della bandiera dell’internazionalismo da parte dei partiti ormai stalinizzati, la bancarotta di tutto il movimento, l’estirpazione violenta e il massacro di chi cercò di resistere, la trasformazione della lotta contro ogni borghesia capitalistica in lotta a favore di una Russia avviata sulla strada dei forsennati ritmi di accumulazione capitalistica che essa avrebbe vergognosamente spacciato per “comunismo”.


I primi anni rivoluzionari

Dobbiamo dunque occuparci di come lo “stalinismo” si impose nell’economia rus- sa, cioè nei rapporti di classe e nei rapporti dello stato russo (che di sovietico ormai aveva perso qualsiasi connotato) con i paesi a capitalismo avanzato, nel corso di un bestiale processo di accumulazione di capitali che avrebbe dovuto portare la Russia, negli intendimenti delle sue sfere dirigenti, a occupare la prima posizione in termini di produttività mondiale: cosa che non riuscì né nell’industria né, tanto meno, nell’agri- coltura, e che in ogni caso avrebbe dimostrato non la superiorità di un’economia co- munista su quella imperialista, ma semplicemente che in Russia non si era pervenuti a nessun tipo di economia comunista 31.

Un primo punto da fissare è che, dopo la presa del potere da parte del partito bolsce- vico, si pose con assoluta urgenza il problema di gestire l’economia in un contesto drammatico di guerra civile. Gli aspetti dominanti evidentemente non potevano es- sere quelli di una riorganizzazione graduale dell’economia disastrata dalla guerra e arretrata in quasi tutti i settori vitali, soprattutto quelli agricoli. Erano invece quelli militari, e tutti gli sforzi economici della neonata Repubblica dovevano tendere a sostenere le fragili strutture statali e soprattutto le necessità dell’Armata rossa; in secondo piano passava il sostegno alla classe operaia delle città. Benché tutto ciò non contenesse nessun elemento tipico di quella che sarà la società comunista, esso fu, in seguito, definito col nome di comunismo di guerra, dando origine a una leggenda che verrà ripresa, anni dopo, dai dirigenti russi stalinisti 32.

Terminate vittoriosamente le operazioni militari, tutto il problema della ristrutturazio- ne economica si pose in maniera diversa e con assoluta urgenza, e venne impostato da Lenin con le coraggiose dichiarazioni sulla NEP, una politica economica che in nessuno dei suoi famosi cinque punti si prefiggeva di “costruire socialismo”, ma, nella migliore delle ipotesi, di riuscire gradualmente a gettare le basi del socialismo, che (spiega Lenin in Sull’imposta in natura, 1921), non possono essere altro che il supe- ramento delle enormi resistenze opposte dal piccolo proprietario artigiano e contadino al controllo operato dallo stato. Si trattava perciò di lottare per superare la forma della piccola produzione mercantile, dominante in larghi strati sociali, e spostare via via l’economia verso una forma di capitalismo di Stato – almeno in certi settori – sotto saldo controllo politico del Partito. Fu dunque questa la preoccupazione principale nel quadro della riorganizzazione economica di quegli anni: il superamento della pic- cola produzione mercantile, anche a vantaggio del capitalismo privato. Entrambi sono nostri nemici, nelle parole di Lenin, ma il primo è un avversario ben più insidioso del secondo, perché è storicamente ancora più lontano dal socialismo, riflettendo un mon- do precapitalistico. “Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medievale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori”33. Sviluppare dunque il capitalismo contro la piccola produzione, afferma Lenin nel 1921, è il compito primario dei comunisti, e ciò è perfettamente coerente con quanto da sempre è stato sostenuto dal marxismo nei paesi a sviluppo capitalistico incom- pleto, quale, ad esempio, la Germania del 1848 (“Il partito comunista lotta insieme colla borghesia, ogni qualvolta questa prende una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reazionaria”)34. In Russia non si trattava più di appoggiare in modo autonomo la lotta di classe che la borghesia muoveva al regime feudale, poiché il potere era ormai saldo nelle mani comuniste; l’enorme problema che sorgeva allora, per la prima volta nella storia del movimento comunista, era: in che modo si sarebbe potuto lottare contro quelle classi arretrate e nemiche, senza correre il rischio di perdere il potere? L’unica risposta, da tutti condivisa in quegli anni, era: soltanto attraverso la conquista del po- tere nei paesi avanzati, la cui economia sviluppata avrebbe dato alla Russia quanto le serviva per superare rapidamente le tappe storiche della propria arretratezza.

Contro le chiare formulazioni di quegli anni, iniziarono grandi discussioni sul modo in cui realizzare la NEP. Alcuni vedevano in essa cedimenti di fronte all’ideale di un socialismo pienamente sviluppato, altri protestavano in nome delle libertà democra- tiche, altri ancora ritenevano che essa fosse un attacco alla classe operaia, la sola che avrebbe dovuto gestire il potere senza concessioni.

 

Contrasti nel Partito russo

La prima di queste discussioni fu alimentata dalla cosiddetta “Opposizione operaia”, che rappresentava una tendenza allora assai diffusa in Europa e che si ripresenterà a ostacolare l’azione del partito nelle rivoluzioni future. Secondo la teoria da essa sostenuta, la direzione dell’economia spetta al congresso di produttori e ai sindacati di produzione: come si vede, una formula di sapore chiaramente proudhoniano, che potrebbe essere sostenuta oggi da certe correnti anarchiche senza-partito o anti-partito. Essa mette al centro dello sviluppo dell’economia l’azienda, cioè proprio quella cellula produttiva che il socialismo dovrà ab- battere per sempre, nel quadro di una gestione realmente collettiva dei produttori associati35. Contro questa “opposizione operaia” si ribadì, e converrà sempre tenerlo a mente, che è errato rimettere il potere nelle mani di produttori salariati, tra i quali si trovano elementi argomento che trovò l’immediata e articolata dura replica in senso marxista da parte della Sinistra “astensionista” del PSI, sulle pagine del suo organo, il Soviet. di avanguardia e altri che sono invece legati a concezioni piccolo-borghesi, di difesa di interessi locali o, appunto, aziendali. L’organizzazione partitica, riunendo tutti coloro che hanno superato i limiti angusti delle singole condizioni di lavoro, è l’unica a permet- tere la formulazione e a decidere l’esecuzione di un piano generale di attacco o di difesa, in rapporto con la situazione storica e in accordo con le prospettive finali di classe.

La seconda, ampia discussione, si aprì sul tema delle “forbici”, sollevato da Trotsky quando ormai Lenin era impossibilitato a intervenire a causa della malattia che, nel gennaio del 1924, l’avrebbe portato alla morte: mentre i prezzi dei manufatti industria- li continuavano a crescere, quelli dei prodotti agricoli scendevano. Ciò metteva in evi- denza il conflitto tra i due principali settori dell’economia; era indispensabile bloccare quello scarto, in modo da riavviare la disastrata produzione agricola. Su questo tema, si scontrarono tre tendenze del partito, che dovevano precisarsi sempre più nel grande conflitto politico degli anni immediatamente successivi. Molto sinteticamente, e senza entrare nel dettaglio delle discussioni allora sorte, le posizioni erano le seguenti.

La sinistra, il cui primo esponente era Trotsky, e alla quale poi aderirono anche Kame- nev e Zinoviev, era favorevole a uno sviluppo industriale controllato mediante un piano quinquennale, mentre la produzione agricola avrebbe dovuto essere sostenuta dalla for- mazione di imprese statali, limitando progressivamente i vantaggi dei contadini ricchi. La destra, con Bucharin, era contraria sia all’industrializzazione, sia alla nazionaliz- zazione delle aziende agricole, lanciando la parola d’ordine “Contadini, arricchitevi!”. Il centro di Stalin, non avendo una propria politica, appoggiò le posizioni della destra nelle campagne, deridendo quelle della sinistra nell’industria, bollate come “superin- dustrializzazione”. Fa parte della storia il fatto che, destri e sinistri, finirono poi sotto i colpi dei plotoni di esecuzione.

Come si vede, destra e sinistra affrontavano in realtà il grave problema delle cam- pagne secondo un comune metro marxista: dal momento che ciò che rappresentava un ritardo storico della Russia era la piccola economia contadina, si sarebbe dovuto superarne i limiti stimolando la formazione di aziende a pieno sviluppo capitalistico – secondo gli uni, sotto controllo statale; secondo gli altri, non ostacolando lo sviluppo di una classe imprenditoriale (“contadini ricchi”) in grado di rilanciare l’economia agricola. Per tutti, la terra doveva essere nazionalizzata (misura utile in prospettiva, ma di per sé non socialista).

Non ripercorreremo ora le tappe del processo che portò alla catastrofe l’economia agricola russa, né il complesso delle vicende dei rapporti tra industria e campagna; tutto ciò è stato analizzato in modo molto approfondito in innumerevoli lavori del partito36. Bisogna tuttavia ricordare che la “questione agraria” è un problema che, storicamente, sono le forme capitalistiche di produzione a dover risolvere, nel senso di un passaggio dalla minima proprietà parcellare – o peggio ancora, da forme più antiche di servaggio – all’azienda capitalistica con partecipazione di capitale agrario e di lavoro salariato: essa allora è omologabile all’azienda industriale e i rapporti di classe sono perfettamente chiari. I più profondi economisti classici borghesi del XIX secolo avevano perfettamente compreso la questione, e avevano sostenuto la necessi- tà che lo Stato avocasse a sé tutta la rendita fondiaria. Marx dimostrò che ciò, entro i limiti dell’economia mercantile, non sarebbe mai avvenuto, e infatti ciò non ha potuto essere realizzato neppure nella Russia stalinista, che ha lasciato al colcosiano, oltre al ruolo di capitalista (in quanto possessore di almeno parte della strumentazione) e di salariato (in quanto possessore della propria forza-lavoro), anche quello di fondiario: “Il colcos come azienda collettiva è il vero padrone della terra in grande: vende allo Stato i prodotti, non gli paga un affitto agrario. Il colcosiano è il padrone del suo cam- po: mangia o vende i prodotti e non paga affitto né al colcos né allo Stato” 37.

La gestione dell’intera questione agraria da parte del partito bolscevico stalinizzato si risolse in un ibrido – passato impropriamente col nome di “collettivizzazione” – tra aziende nazionalizzate e piccola proprietà privata: la forma del kolchoz. Ai contadini, spinti dalla fame a entrare in massa nelle nuove strutture statali, veniva riconosciuta la proprietà privata di larga parte dei mezzi di produzione (compreso il bestiame) e parte anche del prodotto. Questo compromesso di fatto avrebbe ostacolato la formazione delle grandi cooperative statalizzate invocate da Trotzky e Bucharin, favorendo inve- ce quella piccola proprietà contadina che sarebbe stata tanto più difficile da combat- tere. Se il compromesso con i kulaki (i “contadini ricchi”) si muoveva all’interno di una logica marxista, il cedimento nei confronti dei colcosiani segnò la capitolazione finale del movimento rivoluzionario in Russia.

 

Il mito del “socialismo” russo

Per sopravvivere per i pochi anni che – nelle speranze di tutti i marxisti dell’epoca, russi e occidentali – sarebbero passati prima di una rivoluzione europea e quindi mon- diale, il nuovo Stato doveva dotarsi di una struttura industriale che riuscisse almeno a ricostituire mezzi di produzione, materie prime, manufatti, che erano stati distrutti nel corso della guerra. È evidente che ciò non poteva avvenire se non nell’ambito di uno scambio mercantile interno ed estero. I primi difficili anni furono dunque dedi- cati a questo compito, e Lenin stesso non riteneva grave il fatto di cercare prestiti esteri (concessioni). Vedere in ciò, come è stato talvolta sostenuto, una abdicazione ai principi internazionalisti e un ripiegamento della Russia su se stessa fin dai primi anni, significa non voler considerare la realtà della situazione: la rivoluzione andava difesa anche con questi mezzi, ben sapendo che alla lunga tutto ciò non sarebbe più stato sostenibile. Il soccorso non doveva venire dalla Russia arretrata, ma dall’Europa percorsa dalle fiammate della rivoluzione. In nessun bolscevico – è bene ribadirlo con forza – c’era l’idea che una Russia isolata potesse cominciare a “costruire socia- lismo”. A tutti era chiaro che una qualche auspicabile ripresa economica interna si sarebbe sviluppata in un contesto pienamente capitalistico, basato sullo scambio di merci, sulla formazione di capitali e di plusvalore operaio. Dieci anni dopo, invece, con i successi dei piani quinquennali, si proclamerà che “la Russia è socialista”.

In realtà, bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che gli indici annuali della produzione industriale, che per un certo tempo crebbero a ritmi rapidi, dipendessero dalla socializzazione dell’economia russa e dal fatto che la “pianificazione socialista” mettesse i dirigenti in condizione di organizzare la produzione secondo un piano cosciente. Quei ritmi dipendevano dal fatto che il punto di partenza di tutti gli indici economici – coincidente con la guerra – era estremamente basso. L’analisi degli au- menti medi annui per i sei piani quinquennali dimostra infatti che questi avevano va- lori relativamente alti se confrontati con quelli delle economie europee o americane, ma che confermavano perfettamente, nella loro sequenza, la legge marxista della diminuzione dei tassi di crescita annua, esattamente come per tutti gli altri paesi a sviluppo pienamente e maturamente capitalistico.

Secondo il catechismo staliniano, in Russia si svilupparono in quegli anni due forme diverse e simultanee di economia. Un’economia comunista si svolgeva nello “scam- bio” all’interno, tra campagna e città; ma, quando la Russia entrava in commercio con paesi stranieri, allora si verificava vendita di merci: la legge del valore non funzionava all’interno, ma solo nei rapporti con l’esterno. Per la critica marxista, lo “stato a eco- nomia socialista” è un falso già solo a partire dalla considerazione del fatto che esso si pone fin dai suoi inizi all’interno della concorrenza mercantile mondiale; non può, per vivere, isolarsi ermeticamente dal resto del mondo.

Gli stalinisti hanno sostenuto che l’economia russa era socialista perché la produzione industriale aumentava a un tasso annuo secondo ritmi superiori rispetto al prodotto totale dell’anno precedente, in confronto a tutti gli altri paesi e a tutte le precedenti epoche storiche. I nostri lunghi studi sull’argomento (per esempio, il già citato Dialo- gato con Stalin) sono serviti a chiarire che:

  1. anche se ciò fosse vero, non proverebbe in nessun modo che si tratti di una econo- mia socialista;
  2. è falso che quei ritmi elevati fossero esclusivi della Russia;
  3. è falso che non ci siano stati altri casi simili nella

L’iperproduzione caratterizza solo l’accumulazione capitalistica, la produzione per la produzione che nasce dall’economia mercantile. Per noi, l’unità di misura tra capita- lismo e socialismo non è il ritmo di incremento produttivo, ma il tempo di lavoro che deve essere ceduto da ogni lavoratore alla forma sociale della produzione. Nel socia- lismo, il tempo di lavoro per la produzione diminuirà enormemente. Oggi, qualcuno dei vecchi stalinisti, ormai da tempo convertiti alla democrazia borghese, potrebbe davvero sostenere qualcosa del genere per la Russia stalinizzata?

Tuttavia, più che gli aspetti specifici della storia russa, interessa qui stabilire dove e su cosa lo stalinismo tradì le aspettative della rivoluzione. Esso aprì la strada a tutti quei “socialismi reali” che da allora sono stati invocati ai quattro angoli della Terra, e che in effetti non rappresentavano altro che il vigoroso tentativo di avviarsi, entro una cornice nazionale e anche armi in pugno, verso uno sviluppo industriale capitalistico. Ma mentre in Stalin vi fu un tentativo di giustificare il tradimento mediante il ricorso a tesi provenienti da una lettura falsificata della teoria di Marx, gli epigoni odierni non si pongono più il problema: basterà l’affermazione che “tutto è nazionalizzato” per garantirsi il privilegio di sventolare qualche bandiera rossa, sempre accompagnata dai colori nazionali, e gridare al “socialismo realizzato”. A corto di qualsiasi argomento che non sia basato sulla peggiore forma di demagogia, capi e capetti nazionali che ieri e oggi sbandierano i propri “socialismi nazionali”, sono privati giustamente anche del diritto di richiamarsi alle tesi economiche di Stalin (il quale, quanto meno, faceva ancora ricorso a un vocabolario marxista, per quanto distorto o svuotato di significato). Una prima tesi stalinista è quella secondo cui si può avere produzione di merci entro una società socialista a condizione che i mezzi di produzione restino nelle mani pub- bliche, quindi dello Stato. La tesi si smonta da sola, perché “nell’analisi marxista ogni volta che una massa di merci appare è perché i proletari privi di ogni riserva hanno dovuto vendere la forza di lavoro, e quando in passato vi furono quei (limitati) settori di produzione di merci, fu in quanto la forza di lavoro non era venduta ‘spontaneamen- te’ come oggi, ma estorta colle armi a schiavi prigionieri o a servi legati da rapporti di dipendenze personali” (Dialogato con Stalin, Giornata prima). Inoltre, la teoria stali- nista (oggi condivisa da tutti i democratici) secondo cui lo Stato è il rappresentante del popolo, è dimostrata falsa dal marxismo, che anzi ne rivendica il ruolo classista nella rivoluzione comunista contro le altre classi sociali, così come ne riconosce la funzione antiproletaria nella società borghese. È nell’abc del marxismo il concetto che, se la società è socialista, lo Stato non esiste più, perché le classi sono scomparse.

Una seconda tesi che Stalin è quindi costretto ad affermare – in quanto discende dalla prima – è che in Russia socialismo e legge del valore possano coesistere. La legge del valore, e quindi lo scambio mercantile, vige, secondo lui, nell’economia agricola. Sulla legge del valore si regge lo scambio mercantile; si regge quindi sul concetto di equivalenza tra merci, in particolare nell’acquisto di quella merce particolare che è la forza-lavoro. Noi sappiamo che è proprio dietro la non-equivalenza in questo scambio che si cela la “falsa facciata di ‘libertà, uguaglianza, e Bentham’ che Marx abbatté, mostrando che il capitalismo non produce per il prodotto [e quindi per l’uomo, o per la società umana, ndr] ma per il profitto” (Dialogato con Stalin, ibid.).

Una terza tesi caratteristica dello stalinismo affermava che la Russia era socialista sul- la base dell’assenza di una classe borghese chiaramente definita. A questa affermazio- ne, il marxismo aveva risposto con alcuni decenni di anticipo, dimostrando che tutto il percorso storico del capitalismo doveva necessariamente portare all’abolizione della figura fisica del capitalista, e perciò alla formazione di società anonime controllanti interi settori della sfera di produzione e di scambio. “In un modo o nell’altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione […] Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive […] Lo stato moderno è l’organizzazione che la società capitali- stica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno stato dei capitalisti, il capitalista col- lettivo ideale”38. In queste poche, chiarissime e decisive righe, troviamo la condanna sia di quel “comunismo” che si votò alla causa dell’antifascismo in nome della difesa dello Stato democratico; sia di quello stesso “comunismo” che, in seguito, si votò alla causa dell’antistalinismo sempre in nome della democrazia; sia infine dello stesso stalinismo che, sotto le bandiere dell’economia nazionale statizzata, aveva gabellato il pieno sviluppo del mercato e della produzione di merci in atto in Russia – e in una del- le sue forme più spietate – per socialismo, sulle rovine e sulle ceneri della Rivoluzione d’Ottobre. Per giungere a tanto, si dovette procedere alla distruzione fisica, in Russia, di una generazione di militanti rivoluzionari e al pieno appoggio, in Occidente, di partiti ex comunisti disposti ad abbracciare ogni compromesso con il nemico di classe.

 

Bancarotta dello stalinismo, trionfo del marxismo rivoluzionario

Nel corso del terzo decennio dello scorso secolo si è assistito alla bieca saldatura tra la prassi, in corso di consolidamento in Russia, e la teoria, più volte denunciata con largo anticipo dalla Sinistra comunista, dell’interclassismo gradualmente filtrato attraverso la politica dell’unità popolare. Questa saldatura inaugurò da una parte la elementare strategia dei plotoni di esecuzione contro i vecchi capi bolscevichi; dall’altra, il pieno appoggio ai fronti popolari e ai fronti nazionali, la combutta con le proprie borghesie da parte di ampi settori di un movimento operaio ormai sbandato, oppure l’appoggio al capitalismo di Stato russo da parte di ciò che restava delle sezioni nazionali dell’In- ternazionale comunista. La teoria del “socialismo in un solo paese”, facendo leva su mai sopiti pruriti nazionali e locali, era la pietra tombale sui pochi anni in cui la rivo- luzione aveva fatto sentire la sua voce formidabile in tutta Europa. Ma la vittoria dello stalinismo, attuata col terrore e con la falsificazione, è una vittoria condannata dalla storia. Infatti, questa vittoria ha avuto sicuramente l’effetto di ritardare il crollo della società borghese, prolungando per decenni i tormenti dell’umanità sotto il dominio del capitale, nelle crisi croniche e nelle guerre mondiali o regionali. Lo stalinismo è stato l’elemento cementante delle rivolte di ex colonie contro le metropoli, non in nome di una doppia rivoluzione nel quadro di un’alleanza col proletariato di queste, ma in nome dello sviluppo di forze produttive nazionali – almeno entro i limiti loro imposti dall’imperialismo – in un quadro pienamente capitalistico. Il terrore stalini- sta, esercitato per decenni contro il comunismo rivoluzionario, è stato il puntello delle democrazie borghesi occidentali, e non vi è storico borghese che oggi, dopo essersi battuto il petto in nome delle libertà violate e degli eccessi di violenza praticati in Russia, non sia pronto a riconoscere il ruolo fondamentale che la Russia stalinizzata ha giocato nella guerra mondiale e, poi, nella ricostruzione degli “equilibri” impe- rialistici mondiali. È chiaro che tutto ciò ha causato un grave ritardo nel processo di riorganizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria.

Tuttavia, il processo storico non parla a favore dello stalinismo, cioè della politica de- gli equilibri fra imperialismi; esso parla il linguaggio della crisi e della guerra che sta al termine di ogni ciclo di accumulazione; esso parla il linguaggio della ripresa delle lotte di classe a scala non più locale ma mondiale. Sono le basi materiali, oggettive, del procedere storico a imporre la rinascita dell’internazionalismo e la sconfitta del nazionalcomunismo”. Certo, decenni di lavaggio di cervelli – quanto più “colti” o impegnati nelle “sofferte decisioni” degli stalinisti pentiti, tanto peggio – non sono passati invano; i catechismi antimarxisti cacciati a forza in teste non più pensanti di due o tre generazioni hanno prodotto danni duraturi, e il riorientamento verso la lotta di classe e la ripresa dell’organizzazione rivoluzionaria possono richiedere ancora parecchio tempo. Ma le voragini che si stanno aprendo in tutti i settori del Capitale sono la condanna finale di coloro che, sotto la menzogna organizzata a sistema e il terrore fisico ed ideologico, sono riusciti a rendere alla borghesia mondiale l’immenso servizio di fare apparire odioso ai proletari il nome stesso di comunismo.

 

Due costituzioni a confronto

La Russia, ripiegata su se stessa e non potendo più contare su moti di classe vit- toriosi in Europa, iniziò un tumultuoso processo di accumulazione di capitali (na- zionali e internazionali) che, nel giro di due decenni (grazie ai cosiddetti “piani quinquennali”), la portarono al livello dei paesi industriali più avanzati. Questo processo, basato interamente su un vertiginoso sfruttamento di forza-lavoro e sulla rapida concentrazione di capitali nelle mani dello Stato, fu da Stalin definito “so- cialismo”. Il nostro partito ha dimostrato, nel corso di lunghi studi, come in realtà la Russia non solo non abbia mai avuto un’economia socialista (per definizione, senza lavoro salariato e senza denaro), ma sia riuscita a raggiungere il pieno ca- pitalismo solo nel settore industriale: nel campo agrario, infatti, l’organizzazione delle cooperative non privava i membri di un’effettiva proprietà su parte dei mezzi di produzione e parte del prodotto39.

È dunque negli anni Trenta che la teoria del “socialismo in un solo paese” si con- solida in Russia e viene rapidamente assimilata dai partiti “comunisti” europei. Da questa teoria, si passa presto a quella delle “vie nazionali” e al pieno riconosci- mento della lotta contro il fascismo, che ora sostituisce quella, sempre propugnata dai marxisti autentici, contro il capitalismo. Il tumultuoso procedere dell’economia russa stalinizzata verso il pieno capitalismo, pur tra le difficoltà in cui essa dovette dibattersi soprattutto nell’ambito agrario, doveva infine trovare la sua piena espres- sione ideologica nella Costituzione “sovietica” del 1936.

Pochi mesi dopo la presa del potere, la prima Costituzione aveva dichiarato senza esitazioni gli immensi compiti che stavano di fronte alla rivoluzione: nel campo po- litico e sociale, la necessità di pervenire, come obiettivo, a una società senza classi e di proseguire pertanto la lotta contro le classi sfruttatrici, che ancora rappresen- tavano una forza economica su tutto il territorio; nel campo economico, tutta una serie di misure non socialiste, quali la nazionalizzazione della terra, la creazione di una banca di Stato, l’annullamento del debito estero. Il contenuto dittatoriale e antidemocratico era chiaramente espresso nel diverso peso del voto operaio (che valeva 5) rispetto al voto contadino (che valeva 1): era del tutto conseguente al pro- gramma rivoluzionario comunista il fatto che il vecchio alleato ora dovesse trovarsi in condizioni subordinate rispetto alla classe dei salariati – quella che, storicamente, deve guidare il processo rivoluzionario verso l’esito finale, la scomparsa delle classi e dello stato. D’altra parte, se la redazione di una costituzione nel 1917-18 poteva rappresentare una necessità formale, il suo contenuto sostanziale non poteva essere se non quello che, da decenni, i bolscevichi avevano proclamato davanti a tutte le classi della società. Pertanto, anche storici borghesi non troppo disonesti possono ri- conoscere che non è necessario attribuire eccessiva importanza a questo documento, sia perché ben altri problemi dovevano essere urgentemente risolti in quegli stessi anni tanto nella politica interna quanto in quella estera, sia perché i capi bolscevichi consideravano la repubblica sovietica “come qualcosa di transitorio, che avrebbe dovuto in breve condurre a una repubblica – o federazione di repubbliche – socialista mondiale. Non si riteneva – in altre parole – che quella costituzione dovesse servire a lungo”40.

Ben altro significato avrebbe avuto invece la Costituzione del 193641. In essa, si espri- mono infatti tutte le categorie della repubblica borghese, ma dichiarando falsamente che la società è, nel frattempo, diventata socialista. Il suffragio, contrariamente alla prima costituzione, è dichiarato universale, unico, diretto, segreto: dunque, in tutti que- sti aspetti, esattamente il contrario di quello voluto da Lenin, cioè dalla formidabile, esplicita espressione di dittatura di classe. In campo economico, la Costituzione del 1936 afferma che, essendo la società ormai pienamente socialista, esistono due forme di proprietà (per i marxisti, il socialismo abolirà la proprietà): quella statale e quella colcosiana. Abbiamo visto come nella terra la presenza statale sia stata, in quegli anni, molto limitata rispetto al ruolo effettivo svolto dalle piccole cooperative indipendenti. Ed anche se dessimo per buona l’affermazione staliniana che nell’industria le classi non esistono più e la proprietà è passata tutta nelle mani dello stato, non per questo ci troveremmo davanti ad un’economia socialista. Al contrario, i prodigiosi incrementi industriali di quegli anni ci dimostrano solo che “questo capitale di Stato investe tanto più, quanto meno consuma una borghesia ormai come persone dateci per assenti. Il plusvalore non si divide tra consumo della classe possidente e reinvestimento nella produzione, è tutto, salvo quelle ville, quei quadri e quelle collezioni, nuovo inve- stimento. Resta, per tale motivo, inchiodato il tenore di vita e il tempo di lavoro del proletariato”42.

 

Una parola falsata: comunismo

Non c’è dubbio che otto decenni di controrivoluzione abbiano sradicato dal cuore e dal- la mente di almeno due generazioni proletarie il significato del termine “comunismo”. Hanno cioè eliminato o capovolto il senso delle lotte che furono combattute, spesso armi in pugno, per la conquista del potere da parte delle avanguardie rivoluzionarie.

 Dopo il 1926, con il termine “comunismo” si sono sistematicamente indicati, come forma di lotta o come sistema sociale, i suoi opposti: economia statizzata, nazional- comunismo (una variante peggiore del nazionalsocialismo), democrazia dal basso, governo operaio, democrazia operaia, teoria del benessere, antimperialismo, antimo- nopolismo, antiliberismo, pacifismo ecc.

In tutto questo guazzabuglio, ci si è sempre, sistematicamente, dimenticati che il co- munismo moderno, scientifico per definizione e per necessità, nasce come supera- mento, all’apice del loro sviluppo, delle forze economiche scatenate dall’economia capitalistica; che esso non nega tale sviluppo (che anzi considera indispensabile alla propria realizzazione), ma che tuttavia sa che il suo superamento può avvenire solo con la demolizione totale di tutto l’apparato che su di essa si fonda.

Si può pensare che il comunismo restituirà all’uomo tutte le sue piene facoltà (che il lavoro capitalistico gli limita o gli sottrae), si può pensare al comunismo come la società in cui esisterà la libertà assoluta (naturalmente, grazie al pieno inserimento dell’indi- viduo entro la società): ma solo e in quanto sarà abolita una volta per sempre la legge del valore, la trasformazione di ogni prodotto di lavoro umano (e non solo) in merce, la produzione di capitale mediante l’uso di forza-lavoro. Prima di definire il comunismo da un punto di vista ideale (ciò che non ci rifiutiamo certo di fare!), dobbiamo capire quali sono le basi materiali su cui esso deve poggiare, che costituiscono perciò gli autentici obiettivi per i quali un partito comunista degno di questo nome deve lottare – e non altri. Lo lasceremo dire con queste due citazioni da Marx (non potendo, per ragioni di spazio, riportarne migliaia), che prima e più lontano ha visto tutto il processo storico.

La prima citazione basterebbe da sola come manifesto universale per la liberazione dell’umanità dai millenari orrori della storia di società divise in classi:

“Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, e quanto più si abbrevia la giornata lavorativa, tanto più l’intensità del lavo- ro può crescere. Da un punto di vista sociale, la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia, che comprende non solo il risparmio dei mezzi di produzione, ma an- che l’esclusione di ogni lavoro inutile. Mentre il modo di produzione capitalistico im- pone economia in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza provoca il più smisurato sperpero dei mezzi di produzione e delle forze lavoro sociali, oltre a un numero enorme di funzioni oggi indispensabili ma, in sé e per sé, superflue. “Data l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria alla produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività mentale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà proporzionalmente distribuito fra tutti i membri della società in grado di lavorare, quanto meno uno strato sociale potrà scaricare dalle proprie spal- le su quelle di un altro la necessità naturale del lavoro. Il limite assoluto dell’abbre- viamento della giornata lavorativa è, in questo senso, la generalizzazione del lavoro. Nella società capitalistica, si produce tempo libero per una classe, trasformando tutto il tempo di vita delle masse in tempo di lavoro”43.

La seconda citazione ci mostra il carattere parassitario del capitalismo e l’ineluttabili- tà del socialismo (che la crisi mondiale attuale mette in luce meridiana!):

“Con ciò [cioè, con l’affermazione di un sistema bancario o capitale finanziario che esercita un enorme potere sul commercio e sull’industria] è data bensì la forma di una contabilità generale e di una ripartizione su scala sociale dei mezzi di produzione, ma anche solo la forma. Abbiamo visto come il profitto medio del singolo capitalista, o di ogni particolare capitale, sia determinato non dal pluslavoro che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla quantità di pluslavoro totale che il capitale totale si appropria, e da cui ogni capitale particolare trae i suoi dividendi solo come parte pro- porzionale del capitale totale. Questo carattere sociale del capitale è mediato e inte- gralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario [...] Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso. Grazie al sistema bancario la ripartizione del capitale viene sottratta come attività particolare, come funzione sociale, alle mani dei capitalisti privati e usurai. Ma banca e credito diventano così, nel tempo stesso, il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là delle sue barriere, ed uno dei più efficaci veicoli delle crisi e degli imbrogli.

“Infine, non c’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato; ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti organici del modo di produzione stesso... Non appena i mezzi di produzione hanno cessato di trasformarsi in capitale (nel che è anche implicita la soppressione della proprietà privata), il credito in quanto tale non ha più nessun senso”44.

La rivendicazione socialista consiste dunque nell’abolizione del salario: solo essa permette la distruzione dell’economia basata sul capitale. Ciò significa però l’eli- minazione dell’economia mercantile, cioè – nell’epoca attuale – l’economia basata sulla forza del denaro. Solo quando si saranno superati questi tre elementi portanti dell’economia attuale (la proprietà privata, l’economia di mercato e l’economia di azienda), solo allora inizierà per l’umanità una storia realmente sociale.

 

I fronti popolari

Abbiamo visto come, a una prima fase di oscillazioni tattiche da parte dell’Internazio- nale (1923-26), ne seguisse una caratterizzata dalla cosiddetta “svolta a sinistra” e dalla teoria della “classe contro classe” (1928-32). Esposta alle basi di partiti ormai decimati dall’ondata controrivoluzionaria seguita alle sconfitte degli anni precedenti, questa teo- ria – che riprendeva, ma in astratto, alcuni dei punti sollevati dalla nostra Sinistra – non faceva che rendere ancora più confusa la politica dell’Internazionale e delle sue sezioni locali. A essa seguiva pertanto, come conseguenza logica di uno sbandamento che di- ventava ormai incontrollabile, una “svolta a destra” che rovesciava le indicazioni sul “socialfascismo” (cioè, la socialdemocrazia intesa come alter ego del fascismo, e quindi come un nemico altrettanto spietato che questo), trasformandole in collaborazione con le democrazie antifasciste (1934-38): ciò che si doveva realizzare nei cosiddetti Fronti popolari antifascisti.

Naturalmente, questa inversione di rotta era abilmente mascherata da un linguaggio che sembrava non ammettere cedimenti: l’Internazionale si dichiarava sempre per la ditta- tura del proletariato (a parole), per la rivoluzione violenta e l’abbattimento del potere borghese (a parole), per la lotta autonoma di classe (a parole). Si dichiarava che la poli- tica del Fronte popolare era un adeguamento tattico, e solo tattico, per fronteggiare una situazione che avrebbe precipitato l’umanità in una guerra mondiale; e, soprattutto, per scongiurare il rischio di un’aggressione nazista alla Russia stalinista che avrebbe messo in pericolo le conquiste del “socialismo in un solo paese” e la sua diffusione nel mondo. Nella realtà, si imponevano ai singoli partiti tutti quei punti tattici e teorici contro cui nei due decenni precedenti si era sviluppata la battaglia da parte dei nascenti partiti comuni- sti: autonomia sul pianto tattico e teorico, necessità di troncare per sempre ogni legame con i partiti democratici, riarmo non solo teorico del partito e delle sue organizzazioni di classe. La conseguenza della nuova politica dell’Internazionale poteva significare sol- tanto, agli occhi dei marxisti superstiti, che presto la lotta contro il fascismo avrebbe trascinato i partiti che se ne facevano promotori a diventare strenui difensori dello Stato borghese, in nome di una democrazia che, come il fascismo, avrebbe continuato ad usare le armi (polizia, esercito e corpi speciali) in funzione imperialista all’esterno, anticomu- nista all’interno. Quegli stessi marxisti superstiti dimostrarono, dati storici alla mano, come l’appoggio dato a uno schieramento imperialistico (quello “democratico”) contro un altro (quello “fascista”) non era che la tragica riproposizione della politica collabora- zionista della II Internazionale alla vigilia del 1914, contro cui Lenin aveva ferocemente combattuto; che, quindi, questa politica non avrebbe potuto in alcun modo scongiurare lo scatenarsi della guerra (ed anzi, l’avrebbe accelerato), mentre avrebbe sancito il defi- nitivo trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

La “dottrina” del Fronte popolare si basa inequivocabilmente sulla rivendicazione, da parte di partiti operai, della difesa della “democrazia” (blocco di partiti e classi) contro il “fascismo”. Che cosa fosse quest’ultimo era spiegato nel 1934 da uno dei massimi dirigenti dell’Internazionale stalinizzata, Dimitrov (e da allora ripetuta in coro fin dalle scuole elementari): “Il fascismo, rappresentando gli elementi più imperialisti, più scio- vinisti della grande borghesia nella sua ricerca di soluzione alla crisi per una nuova divisione del mondo […] vuole riunire le forze più reazionarie del mondo borghese per una aggressione all’Unione sovietica” (“La lotta per il fronte unico”, Correspondance Internationale, n.102-103/1934).

Ciò che rimaneva del marxismo di sinistra in Europa si oppose con tutte le forze alla cata- strofe dell’abbandono totale del comunismo internazionalista, e ciò anche contro Trotsky ribadendo che l’unico modo per affrontare la questione sarebbe stato quello della lotta disfattista contro ogni Stato borghese, non l’appoggio a questa o a quella “democrazia”. Lo stalinismo riusciva a inoculare nei partiti occidentali l’equazione “democrazia = pace = difesa del socialismo (cioè della Russia)”: il che non solo era una bestemmia in bocca a co- munisti, ma era criminale nei confronti del proletariato internazionale, in quanto non sareb- be riuscito in nessun modo a evitare il macello mondiale che si avvicinava, e avrebbe defi- nitivamente legato il destino delle lotte a quello di ogni singolo stato nazionale borghese, frantumando tutti i programmi stabiliti, non più di dieci anni prima, dall’Internazionale. Quando, nel maggio-giugno 1936, la più grande mobilitazione di massa della sto- ria francese fece scendere nelle piazze milioni e milioni di proletari che la crisi economica rendeva sempre più combattivi, l’“unità nazionale”, la “difesa della democrazia”, il “senso di responsabilità” furono la risposta che la tattica del Fronte popolare diede contro ogni tentativo di rinascita di un movimento di classe rivolu- zionario autonomo. Ridotto il proletariato al seguito delle sorti della “propria” bor- ghesia nazionale, si spalancava la porta ai venti di guerra che, dall’Africa (1936) alla Spagna (1936-38), si sarebbero presto abbattuti sull’intera Europa.

 

Esercitazioni per futuri massacri: Spagna 1936

La politica del Fronte popolare servì in Francia per arginare l’ondata di lotte che per- corse il paese tra il 1935 e il 1936. In Spagna, questa stessa politica servì a uno scopo diverso, ma per gli stessi obiettivi. Qui, all’offensiva del grande capitale sotto le ban- diere dichiarate del fascismo, si rispose con l’insurrezione operaia armata. La politica antifascista del Fronte popolare venne a costituire la terza via, quella che serve alla borghesia per attenuare il pericolo di una svolta rivoluzionaria, disarmando dal loro in- terno le organizzazioni che si rivoltano contro il regime borghese. Anche qui, lo stali- nismo giocò la funzione di incanalare le lotte in un ambito esclusivamente locale, cioè spagnolo; di trasformare la lotta per rovesciare il potere del capitale in lotta per sosti- tuire un governo borghese con un altro; di indicare, come unico obiettivo della lotta, l’instaurazione della repubblica borghese contro la monarchia. È per questi obiettivi, e non per altri, che migliaia di proletari spagnoli furono mandati al macello in nome di un “comunismo”, che altro non era che la restaurazione dell’ordine borghese.

Nel 1930, la crisi economica e sociale che da anni attanagliava la Spagna di Alfonso XIII aveva richiesto un intervento drastico. Per prevenire un grande sciopero nelle fer- rovie, una coalizione di partiti aveva chiesto la testa del re, che fu fatto fuggire in tutta tranquillità nel febbraio del 1931. Le elezioni del novembre 1933 avevano segnato il crollo del partito socialista, che aveva animato i precedenti governi di coalizione. Era subentrato un governo orientato a destra, contro cui si erano dirette immediatamente azioni sindacali “per il ripristino delle libertà democratiche”. Come già in Italia nel 1922, così in Spagna si agitò subito lo spettro del pericolo fascista; e, come in Italia si vollero manipolare le masse per lotte in funzione di un governo “migliore” (Turati- Modigliani), così in Spagna si cercò di manovrare per una rinnovata coalizione social- repubblicana. E, mentre la socialdemocrazia si impegnava nei giochi parlamentari, il governo spediva, senza tante discussioni, l’esercito contro i rivoltosi delle Asturie per schiacciarne il movimento, restato completamente isolato, con migliaia di morti. Chiuso in questo modo il 1934, l’anno successivo era stato un attacco continuo contro una classe operaia disorientata. È in questo quadro che, all’inizio del 1936, la Spagna celebrava il trionfo elettorale del Fronte Popolare, e vedeva subito dopo l’esercito franchista pronto all’intervento militare: tutto lo schieramento del Fronte Popolare non esitava a scendere in campo in nome della difesa della libertà e della democrazia, trovando prontamente appoggio in tutta l’Europa antifascista: pochissimi, inascoltati marxisti tennero allora ferma la consegna del disfattismo rivoluzionario all’interno di ogni stato borghese. Tutti, anarchici compresi, invocarono invece l’invio di armi e soldati da parte dei governi europei per contrapporre a Franco l’antifascismo militante e la conservazione dell’apparato statale democratico.

In questo quadro, l’appoggio dato al Fronte popolare dall’Internazionale e dalla Russia stalinista non fu altro che la prosecuzione della politica controrivoluzionaria di quello stato, ansioso di guadagnarsi un posto di favore tra le potenze europee. La cosa è me- glio compresa ricordando che, in quello stesso agosto 1936, a Mosca, si celebrarono i processi contro i massimi esponenti del vecchio partito bolscevico, che si conclusero con la fucilazione di sedici rivoluzionari, dopo averne estorto le “confessioni”. Allo stesso modo, in Spagna, le armi del Fronte popolare saranno rivolte indifferentemente contro i fascisti di Franco e i numerosi “antistalinisti” che erano accorsi, attratti dalla chimera della “difesa della democrazia”, in nome di un manovrismo tattico che vedeva anche Trotsky tra i suoi primi paladini. Il grande rivoluzionario in esilio aveva da tem- po argomentato che, nell’antitesi fascismo-democrazia, si sarebbero aperti dei varchi per un’azione proletaria che avrebbe permesso la trasformazione della lotta antifasci- sta in lotta per il potere e per la dittatura di classe. La storia europea, peraltro, aveva già dimostrato, nel decennio precedente, che ogni compromesso interclassista in nome dell’antifascismo avrebbe trascinato i partiti che se ne facevano promotori nel vortice della collaborazione di classe e nella sconfitta. Anche gli anarchici, che in Spagna ave- vano indubbiamente un seguito considerevole tra le masse contadine, si risolsero per l’intervento in difesa delle libertà minacciate e dello stato democratico borghese.

I pochi marxisti che in Europa ancora si riconoscevano nella linea difesa dalla Sini- stra comunista nel decennio precedente (e che si raccoglievano allora, in Francia e in Belgio, intorno alla rivista Bilan) sapevano di difendere un programma che li avrebbe trovati completamente isolati. Mentre tutti gli schieramenti democratici e stalinisti cor- revano alla costituzione di “Brigate internazionali”, i comunisti di Bilan predicavano l’attualità del disfattismo rivoluzionario in tutti i paesi, la fraternizzazione proletaria tra gli schieramenti opposti in Spagna, il ricorso alla lotta di classe anziché a una guerra fratricida, l’opposizione al riarmo di questo o quel fronte borghese, la necessità dell’in- ternazionalismo proletario45. E così, mentre a Mosca si celebravano i processi contro i capi della rivoluzione, e in Spagna si correva sotto le bandiere dell’interclassismo de- mocratico antifascista, gli stalinisti italiani pubblicavano, in quello stesso agosto 1936, sul loro organo Lo Stato Operaio, il famigerato articolo “Appello ai fratelli in camicia nera. Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, nel quale i “figli della Nazione italiana” sono invitati a darsi “la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni”, perché si tratta di lottare per la libertà: insom- ma, “per la realizzazione del programma fascista del 1919”!...46

Come stupirsi dunque che quei pochi marxisti superstiti fossero minacciati di morte quando osarono affrontare, in Spagna, la canea democratica esaltata dall’odore della polvere da sparo, per spiegare ancora una volta la necessità di abbandonare la prospetti- va del massacro di proletari schierati su due diversi fronti della stessa borghesia (massa- cro che anticipò il bagno di sangue del 1939-45), e rimettersi sotto le bandiere della lotta di classe e del disfattismo rivoluzionario (che ancora aspettiamo con fiducia da allora)?

 

Note

24. “Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, Lo Stato Operaio, luglio 1925 (ripubblicato in “Il programma comunista”, 11/1958).
25. “Insegnamenti del passato, fremiti del presente, prospettive del futuro nella linea continua ed unica della lotta comunista mondiale”, in il programma comunista, n. 6/1961.
26. “La verifica marxista della odierna decomposizione del capitale nell’occidente classico come nella dege- nerante struttura russa. Guerra spietata dal 1914 al 1961 all’enfiantesi bubbone opportunista”, Il programma comunista, 11/1961.
27. Cfr. in particolare il capitolo La questione russa, a pag. 13.
28. Si veda il verbale della delegazione italiana, riportato in G. Berti, Appunti e ricordi. 1916-1926, Annali Fel- trinelli 1966.
29. Una bestialità perché, per il materialismo storico, è il succedersi dei modi di produzione a determinare tutte le for- me ideologiche dominanti, e tra queste anche le concezioni politiche. Questa successione non è un percorso turistico di cui qualche insigne personaggio storico possa decidere di saltare questa o quella stazione, a seconda dell’opportuni- tà. Soprattutto alla Russia zarista, alla vigilia delle grandi trasformazioni nell’agricoltura e nell’industria che l’avreb- bero finalmente inserita nel contesto dell’economia capitalistica mondiale, rivolsero tutta la loro attenzione Marx ed Engels, in un fitto scambio di corrispondenza con i primi socialisti russi a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, giungendo infine alla conclusione che la determinazione storica avrebbe permesso all’antica proprietà comune rurale di servire come punto di partenza per una evoluzione in senso comunista solo se la rivoluzione russa fosse servita come segnale per una rivoluzione operaia in Occidente (cfr. “Prefazione all’edizione russa del 1882” del Manifesto del partito comunista). Nonostante questa chiara indicazione di Marx ed Engels e nonostante i continui richiami ad essa da parte di Lenin e dei comunisti europei di inizio XX secolo, non v’è oggi storico, politico e sociologo borghese che non proclami a gran voce la possibilità, grazie a qualche “grande timoniere” o “abile decostruttore” o anche solo grazie a un semplice cambio di governo, di passare da un preteso socialismo a qualche forma di capitalismo di Stato, a seconda delle convenienze – magari con qualche condimento di liberismo!
30. “7 novembre 1917 – 7 novembre 1957”. “Quarant’anni di una organica valutazione degli eventi di Russia nel drammatico svolgimento sociale e storico internazionale”, in il programma comunista, 21/1957, ora in Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Edizioni il programma comunista, 1990, p. 215. Per la posizione di Lenin, cfr. lo scritto Sull’imposta in natura, in Opere complete, vol. 32, pp. 310-311.
31. Ci avvarremo nella presente esposizione di alcuni nostri testi fondamentali, al cui approfondimento riman- diamo i lettori, e soprattutto i seguenti: “La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea”, in Russia e rivoluzione nella teoria marxista, ed. il programma comunista 1976; Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, ed. il programma comunista, 1976; Dialogato con Stalin, in il programma comunista, 1-4/1952; “Dialogato coi morti”, in il programma comunista, nn. 5-10/1956; “L’économie soviétique de la révolution d’octobre à nos jours”, in Programme communiste, nn. 15-20 e 22-23 (1961-1963).
32. Sotto il drammatico incalzare dei tentativi controrivoluzionari e la minaccia di accerchiamento da parte di con- tingenti militari occidentali, la Russia rivoluzionaria dovette adottare tutta una serie di drastiche misure di espropria- zione, requisizione, confisca, controllo sui prezzi delle merci e loro distribuzione centralizzata, al principale scopo di sopperire, rapidamente e in modo efficiente, alle necessità dell’esercito Tali misure, tipiche di una situazione di emergenza e accerchiamento, nulla avevano ovviamente da spartire con ciò che sarà l’organizzazione comunista rivolta all’intera società umana.
33. Lenin, “Sull’imposta in natura”, , p. 330.
34. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista (1848), IV.
35. L’Opposizione operaia russa aveva almeno la giustificazione di parlare in nome di una classe operaia vittoriosa al Peggio aveva sostenuto l’operaismo occidentale, per esempio quello gramsciano, secondo il quale le organiz- zazioni di fabbrica avrebbero potuto e saputo trasformare l’economia in senso socialista ancor prima della rivoluzione
36. Si veda soprattutto Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, cit.
37. “Dialogato coi morti”, ”cit.
38. Engels, Antidühring, parte III: “Socialismo”, par. II: “Elementi teorici”, Editori Riuniti, passim.
39. Rimandiamo il lettore che volesse approfondire tali problemi ad alcuni dei nostri studi; in particolare, “La tattica del Comintern dal 1926 al 1940”, in Prometeo, 2, 3, 4, 6, 7, 8/1946-47; “La Russia nella storia mondiale, nella Grande Rivoluzione e nella società contemporanea”, in il programma comunista, nn.15-16/1955; “Che cosa fu il Fronte Popolare”, in il programma comunista, nn.10-14/1965; “Le tournant des Fronts populaires ou la capitulation du stalinisme devant l’ordre établi (1934-1938)”, in Programme communiste, n. 72-73/1976-1977, oltre che, natural- mente, l’intera Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, cit.
40. H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923. Einaudi 1964, p. 124 (nostra sottolineatura).
41. Per una dettagliata analisi della Costituzione staliniana del 1936, quanto riportato negli articoli “Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia”, in il programma comunista nn.15-16/1955 (ora in Struttura econo- mica e sociale della Russia d’oggi, cit., pagg. 41-48); e “Un passo avanti nella confessione della natura capitalistica dell’URSS”, in il programma comunista, n. 14/1977, per un confronto tra le costituzioni russe del 1918, 1924, 1936 e 1977.
42. “La Russia nella storia mondiale, nella Grande Rivoluzione e nella società contemporanea”, in il programma comunista, 16/1955.
43. Marx, Il Capitale, Libro I, XV, par. iv, Edizione UTET, p. 682.
44. Marx, Il Capitale, Libro III, XXXVI, cit., p. 756-757.