Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista

Pubblicato: 2021-02-21 13:57:56

Parte terza: da dove ricominciare (1946-1949)

La classe dominante italiana e il suo stato nazionale

[Il testo che segue apparve sul numero 2, agosto 1946, di quella che allora era la nostra rivista teorica, Prometeo]

 

 

“Il partito proletario rivoluzionario deve respingere ogni minima responsabilità nella politica di tutti i gruppi che hanno fatto propria l'impostazione ideologica propagandistica del gruppo statale vincitore, che hanno inscenato la stolta  manovra non di un riconosciuto disarmo di un apparato statale e militare debellato per sempre, ma di una conversione nel campo della guerra borghese che non ha danneggiato seriamente uno dei gruppi e non ha avvantaggiato e neppure ingannato l'altro; deve respingere la responsabilità politica dell'armistizio segnato dagli stati dominanti tradizionali del paese al solo fine di continuare nei loro privilegi e nel loro sfruttamento; deve abbandonarli alla loro sorte nel trattamento che il vincitore  riserberà loro nel gioco delle forze di ristrettissima minoranza sociale che detteranno e sistemeranno la pace”

 

(da «La piattaforma politica del Partito Comunista Internazionalista», 1945)

 

Formazione dell‟unita‟ italiana

Le parole d'ordine politiche affacciate da tutti i partiti nella fase attuale, non diversamente da quelle del precedente regime, presentano come un patrimonio comune a tutte le classi del popolo italiano la ricostituzione della unità nazionale realizzatasi attraverso il Risorgimento e le guerre dell'indipendenza.

I partiti che pretendono richiamarsi al proletariato accettano in pieno la impostazione politica secondo la quale il fascismo avrebbe assunto la portata di una demolizione delle conquiste del Risorgimento ed il compito storico di oggi sarebbe quello di rifare e ripercorrere la via del risorgimento nazionale. Per conseguenza, ogni contrasto economico di interessi e conflitto politico di classi dovrebbe tacere dinanzi alle esigenze della vita della nazione e della sacra unione di tutti gli italiani.

E‟ bene ripercorrere a larghissimi tratti la storia della formazione dello Stato borghese italiano, per concludere che, mentre è assurda la tesi che tutto questo ciclo debba essere o possa essere ripercorso e rivissuto nelle diversissime condizioni odierne, d'altra parte il preteso patrimonio e le vantate conquiste consistono in ori falsi e merci avariate.

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La formazione in Italia di uno Stato unitario e la costituzione del potere della borghesia, pur inquadrandosi nella concezione generale di tali processi stabilita dal marxismo, presentano aspetti particolari e speciali, che soprattutto ne hanno ritardato il processo rispetto a quello presentato dalle grandi nazioni europee, dissimulando in parte la schietta manifestazione delle forze classiste.

Le cause sono ben note, ed anzitutto geografiche oltre che etniche e religiose. L'Italia, tanto continentale che peninsulare, ha costituito per molti secoli, dopo che la diffusione della civiltà oltre i limiti del mondo romano le aveva tolto la posizione centrale rispetto ai territori mediterranei, una via di passaggio delle forze militari dei grandi agglomerati formatisi attorno ad essa, ed un facile ponte per le invasioni e le stesse migrazioni di popoli da tutti i lati. Le varie zone del territorio furono a molte riprese occupate, organizzate e dominate da stirpi conquistatrici venute dall'Est e dall'Ovest, dal Sud e dal Nord. E nessuna di queste poté talmente rompere l'equilibrio a suo favore da costituire uno stabile regime con egemonia su tutta l'estensione del territorio. Quindi, nel periodo medievale feudale, non si gettò la base di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario, come avvenne negli altri grandi paesi i cui confini geografici e la cui posizione rispetto  al giuoco delle forze europee meglio si prestavano a tale stabilizzazione. Influì su questo la presenza del centro della Chiesa con le sue lotte contro il prevalere eccessivo delle caste feudali e delle signorie  dinastiche, e quindi si determinò la situazione correntemente definita come dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli semi-autonomi.

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Alla vigilia del prevalere del capitalismo nell'economia europea, per quanto questo avesse in Italia salde radici e secolari inizi, non era affatto compiuta l'evoluzione statale che poteva permettere alla borghesia italiana di trovare un centro statale solido di cui impadronirsi per accelerare al massimo il ritmo della trasformazione sociale.

Tuttavia l'Italia, per il fatto stesso che nelle pianure del Nord si combattevano e talvolta decidevano le grandi guerre europee e per l'accessibilità dal mare delle sue parti periferiche, subì con stretto legame le influenze della più classica tra le rivoluzioni capitalistiche, quella francese, e vi fu, se non proprio una repubblica borghese italiana unitaria, un'Italia Napoleonica. La borghesia ricevette l'idea dell'unità  nazionale dall'esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente, la diffuse tra le classi medie, e non meno di altrove si servì delle classi lavoratrici come strumento per realizzarla. Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese infelice e contorta, e la sua fama riposa sull'immenso uso di falsa retorica, di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello Stato borghese italiano.

Dopo aver lungamente esitato fra tutte le forme politiche, dalla teocrazia nazionale alla repubblica federale, alla repubblica unitaria, alla monarchia cosiddetta costituzionale, la soluzione che la storia trovò al giuoco delle forze aveva inizialmente un basso potenziale e una portata disgraziata.

Lo staterello piemontese, gonfiatosi a nazione italiana, non era che un servo sciocco dei grandi poteri europei e la sua monarchia dalle pretese glorie militari una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda, carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci; in ogni caso, al militarismo più prepotente o al miglior pagatore. Solo a questi patti un paese posto in così critica posizione poteva esibire per molti secoli una apparente continuità politica.

Tuttavia il processo, che condusse la dinastia e la burocrazia statale piemontesi a conquistare tutta l'Italia, sfruttò le forze positive della classe borghese, che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predomini feudali e clericali, e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale, seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo regime lo sfruttamento più esoso. L'operaio italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo.

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Attraverso questo processo convenzionalmente definito come la conquista dell'indipendenza, dell'unità e dell'uguaglianza politica per tutti gli italiani, i gruppi più progrediti della classe capitalistica industriale del Nord assoggettarono a sé l'economia della penisola, conquistandosi utili sbocchi e mercati e venendo in  molte zone a paralizzare lo sviluppo economico-industriale locale, che, sebbene ritardato, si sarebbe  esplicato efficacemente sotto un diverso rapporto di forze politiche.

D'altra parte, non solo la classe dei proprietari terrieri del centro e del Sud non esitò affatto a porsi sotto l'egida del nuovo Stato – sempre a conferma della nessuna sopravvivenza di orientamenti feudalistici fra questi strati – ma anche la cosiddetta e famigerata classe dirigente del Mezzogiorno, composta di  intellettuali, professionisti ed affaristi, si unì al potere dello Stato italiano in una perfetta simbiosi basata sul concorde sfruttamento dei lavoratori e dei contadini, i quali, mentre dovettero sostenere pesi fiscali sconosciuti ai vecchi regimi per rinsanguare i bilanci del nuovo Stato, furono la materia prima per le  manovre dell'elettoralismo, prestandosi a fornire ai ministeri le fedelissime maggioranze ottenute attraverso il mercato tra piccoli signorotti e gerarchi locali, irreggimentatori di voti, e i favori dei poteri centrali.

Questo sistema di scambi di servizi, a cui non fu mai estraneo fin dai tempi del giolittismo l'impiego della reazione di polizia ed anche di mazzieri irregolari, mascherò in realtà una dittatura che anticipava di decenni quella di Mussolini, e si prestò magnificamente all'insediamento del fascismo, realizzato senza colpo ferire dopo il debellamento dei centri proletari e rurali del Nord e delle poche cittadelle rosse del resto dell'Italia.

La via politico-militare del Risorgimento, se può rappresentare un ottimo esempio di abilità politica, percorre tappe segnate sistematicamente dalla sconfitta militare e dal tradimento politico. La classe dominante  italiana, riuscita nel saper intuire a tempo da che parte era il più forte cambiando audacemente di posto nei conflitti tra gli Stati esteri, coerentemente seguì questo sistema nel periodo fascista, ma, quando il sistema venne per la prima volta meno, determinando la catastrofe, non seppe trovare altra via di uscita che un ennesimo tentativo di aggiogarsi al carro del vincitore.

 

Teoria delle gloriose disfatte

Il Piemonte, schiacciato dall'Austria nel '48, nel '59 riesce (sotto la guida del vero capostipite dell'italico ruffianesimo, Camillo Cavour) ad approfittare della vittoria della Francia e a guadagnare la Lombardia, volgendosi quindi verso il Sud. Gli è facile liquidare gli staterelli vassalli dell'Austria, ma deve sostare dinanzi agli Stati del Papa per ordine del Padrone Francese. Tuttavia ha l'abilità di impadronirsi senza colpo ferire di tutto il Sud d'Italia occupato da Garibaldi, sotto pretesto di avergli mercanteggiato l'appoggio inglese ed offrendogli la solita cortese alternativa tra la figura di eroe nazionale e la nuova galera monarchica.

Per avere il Veneto occorre, dopo Magenta e Solferino vinte dai francesi, attendere Sadowa vinta dai prussiani, malgrado le dure batoste di Custoza e di Lissa. Infine, il retorico e pomposo  coronamento dell'unità con Roma capitale è realizzato, ancora una volta, non certo attraverso la buffonesca breccia di  Porta Pia, ma grazie alle armi prussiane di Sedan.

Il nuovo Stato fece anche i suoi esperimenti sulla via del colonialismo, pur essendo in questo campo l'ultimo venuto e non potendo pretendere di riattaccare i suoi timidi tentativi, tra gli stentati permessi  delle Cancellerie di Europa, alle tradizioni delle Repubbliche marinare italiane. Tanto per non fare eccezione al solito metodo, la conquista della colonia del Mar Rosso è segnata dalla tremenda sconfitta militare di Adua. La successiva conquista della Libia viene fatta, anche tra gravi errori ed insuccessi militari, a spese della Turchia, colta in una fase di crisi dall'incalzare delle Guerre balcaniche.

Già da questa fase di imperialismo a scartamento ridotto sono evidenti nell'economia e nella politica capitalistica italiana i sintomi del nuovo indirizzo sociale che precorrono l'evoluzione fascista del  capitalismo. Sorgono gruppi nazionalistici, che vengono a costituire la destra borghese in sostituzione del tradizionale aggruppamento “clericale-moderato” e, prendendo uno spiccato carattere anti-proletario, enunciano le parole d'ordine che saranno poi del fascismo, mentre la loro stampa è direttamente alimentata dall'industria pesante interessata a speculare sulla guerra e sulle imprese d'oltremare. Già l'economia italiana conteneva germi non trascurabili di monopolismo e di protezionismo e lo Stato alimentava con la  legislazione fiscale o doganale industrie parassitarie, come ad esempio quella degli zuccheri e degli alcool. In economia, dunque, come in politica, la borghesia italiana, povera rispetto alle altre in senso quantitativo, vari decenni prima di Mussolini evolveva verso la sua fase fascista. L'espressione politica caratteristica di questo metodo borghese fu il Giornale d'Italia, coi Bevione, Federzoni, Bergamini, a cavallo tra il liberalismo e il nazionalismo (il che non toglie che taluno di essi sia oggi considerato un esponente antifascista). Era una corrente più sfrontatamente e modernamente audace di quella del liberalismo economico e politico classico del Corriere della Sera.

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Il giuoco politico della classe dominante italiana continua nella Triplice Alleanza con “l'odiato tedesco” dei libri di scuola.

Nel 1914, i vari consulenti della politica dinastica esitarono a pesare il pro e il contro circa l'orientamento in cui andava indirizzato il classico calcio dell'asino. E‟ notevole rilevare che i gruppi nazionalistici dipendenti dall'industria pesante passarono audacemente dal sostenere l'intervento triplicista alla più accesa campagna per l'intervento contro l'Austria, il che dimostra che, per la moderna borghesia industriale, i fini della guerra sono materiali e non ideologici. La clamorosa conversione non impedì agli interventisti della sinistra democratica, socialistoidi o repubblicani, di accogliere a braccia aperte questi alleati nella campagna guerrafondaia del 1915, comprovando così che la genesi del fascismo ebbe la sua incubazione nella storia politica della classe dominante in Italia, fin dalla costituzione nazionale.

Nella guerra europea, con un primo tradimento il Re Italiano resta neutrale, con un secondo interviene contro i suoi alleati, che a Caporetto gli danno la meritata lezione. Ma invano, poiché, grazie al famoso stellone, l'Italia dei Savoia esce dalla guerra ancora ingrandita delle province adriatiche e trentine. Tanto per chiudere  il ciclo della cosiddetta politica estera, dopo il magro trattamento fatto più che logicamente alla classe dominante italiana dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, la borghesia sabauda ha realizzato ancora una volta il tradimento a danno dei suoi alleati e dei riscattatori delle sue sconfitte sui campi di battaglia, calcolando che nella guerra successiva la bilancia avrebbe traboccato a favore della rinascente potenza del militarismo tedesco. Sorse così l'Asse, che era tanto poco necessariamente condizionato dalla  fase fascista, quanto era una ripetizione della politica del '66 e di quella triplicista. Attraverso la calcolata vittoria della forza germanica, l'Italia del Risorgimento e dei Savoia, dopo avere strappato in anticipo, con una condotta come sempre non priva di audacia nel senso del rischio nel giuoco sulla forza altrui,  il simulacro di Impero africano, presumeva, seguitando a cantare il falso ritornello dell'irredentismo, di arrotondarsi ancora. Tunisi, Corsica, anche Nizza e Savoia abilmente vendute nel 1859 dal vecchio Papà imbroglione e maestro del giuoco, dovevano impinguare ancora il grande Stato Italiano.

Ma la continuità indiscutibile di questo giuoco è stata spezzata brutalmente dal corso degli eventi.  La vittoria, questa volta, si è messa dalla parte opposta a quella in cui la scaltrita borghesia italiana si era schierata, è sopravvenuta la strepitosa disfatta e l'invasione, anzi la doppia invasione. Questa volta, da una parte e dall'altra, le due coalizioni in conflitto si son dimostrate decise a strappare tutte le residue penne al gonfio pavone dell'Italia Sabauda, di cui egualmente disprezzavano l'impotenza militare.

Eppure, ancora una volta questa borghesia calpestata e travolta dalla storia ha riproposto il suo gioco, e invece di contare le ammaccature e mettere in sesto le ossa, ha avuto l'impudenza di offrirsi per combattere, di parlare ancora di combinazioni da pari a pari, di alleanze, di sforzi bellici, e di ripetere il suo stupido grido di “Vinceremo!”, invece di confessare finalmente di avere per sempre perduto.

 

I rapporti delle forze sociali e politiche

Quali sono i riflessi di queste vicende storiche, per quanto riguarda, nell'ambito dell'Italia, il giuoco delle forze sociali e la lotta dei partiti?

Il proletariato all'inizio non poteva non rispondere all'appello di alleanza che, più che la sotterranea borghesia, gli lanciavano le classi intellettuali, perché sentiva di dover collaborare alla distruzione delle impalcature feudali e delle influenze chiesastiche per poter assurgere ad un suo compito ulteriore.

Quindi, forse più che altrove, per molti decenni gli operai e i contadini italiani camminano sotto le bandiere delle ideologie borghesi giacobine, danno la mano alla scapigliata sinistra borghese, si imbevono delle parole e delle posizioni mentali della democrazia avanzata. Fino al 1900, gli importantissimi movimenti di

 

lavoratori urbani e rurali, nel Sud e nel Nord, pur configurandosi sempre più in una fisionomia classista, appaiono come il settore avanzato del blocco dei cosiddetti partiti popolari. Il Partito Socialista si sviluppa, ma è soprattutto la forza animatrice della classica estrema sinistra parlamentare, che lotta nella piazza come un blocco solo nell'urto avvenuto nel 1898 tra le forze di destra e di sinistra della borghesia, o meglio nel primo esempio storico di un tentativo della borghesia liberale di rivedere i suoi metodi e schierarsi dinanzi al prorompere del movimento sociale sotto l'aspetto della forza armata dello Stato.

Gli stessi quadri del movimento socialista e proletario sono educati alla scuola magniloquente quanto vaniloquente della democrazia carducciana in letteratura, boviana-cavallottiana in politica, torneo di onesti Don Chisciotte in ritardo tuonanti in nome della Libertà, dell'Onesta, della Umanità e di simili gloriose ombre.

Molto più seriamente, nel sottosuolo della vita politica, la borghesia lavora all'imprigionamento ideologico e materiale delle gerarchie proletarie con la sua organizzazione più reazionaria e più adatta a fronteggiare lo spettro della lotta di classe, la Massoneria. Questo organismo ha in quell'epoca un'influenza dominante, e talvolta decisiva, nell'aggiogare al carro dell'opportunismo i primi tentativi di azione autonoma della classe operaia.

La stessa origine spuria della borghesia in Italia spiega il ritardo con cui la teoria rivoluzionaria marxista si diffonde fra le masse e il largo prevalere delle tendenze anarchiche, che non costituiscono che l'esasperazione, per nove decimi letteraria, del liberalismo borghese e dell'individualismo illuminista. Ciò spiega anche come, prima di una solida tendenza marxista, si delineino nel proletariato correnti da un lato riformiste e collaborazioniste, dall'altro di indirizzo sindacalista sul tipo francese soreliano.

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Su tutto sovrasta ancora il mito dell'anticlericalismo.

La guerra a base di artiglierie retoriche e convenzionali contro la sottana nera del prete è presentata in quest'epoca come il fatto centrale della storia e il suo successo è un postulato dinanzi al quale deve cedere ogni altro; il padrone borghese più esoso può divenire un fratello del lavoratore sfruttato se si degna di lanciare qualche ingiuria al buon Dio ed al suo vicario in terra. La lotta per uscire dalla rete vischiosa di questo inganno anticlassista fu lunga e difficile e prese aspetti che oggi possono apparire secondari: intransigenza alle elezioni politiche di primo e secondo grado, rottura dei blocchi anticlericali amministrativi, incompatibilità tra Partito Socialista e Massoneria. Contemporaneamente, il partito, lottando contro i due revisionismi riformista e sindacalista, si orientava sulla base marxista, e la sua direzione, al momento dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, era nelle mani della frazione intransigente rivoluzionaria. Capo di questa frazione, dopo la espulsione degli opportunisti di destra, Bonomi e Cabrini (fautori della collaborazione con la monarchia, che si era volta con entusiasmo alla politica massonizzante di sinistra) e Podrecca (apologista della guerra di conquista imperialista in Libia), fu Benito Mussolini, direttore dell'Avanti!. Egli, non senza qualche sospetta esagerazione in senso volontaristico e blanquistico, aveva diffuso parole di sfida rivoluzionaria alla borghesia dominante, che associava tradizionalmente alle orge letterarie di liberalismo avanzato la repressione senza riguardi, poliziesca e armata, delle rivolte degli affamati e che, tradizionalmente, e prima che fosse celebre il nome di manganello, tutelava con squadre di mazzieri le ladrerie amministrative e la frode nelle cagnare elettorali.

 

I socialisti e la guerra – le lotte del dopoguerra

La preparazione classista degli ultimi anni consentì al proletariato d'Italia di reagire meglio che in altri paesi all'opportunismo di guerra.

La coscienza politica della classe lavoratrice permise di resistere al dilagare delle tre menzogne fondamentali della propaganda interventista destinata a far tacere ogni palpito di azione e di lotta di classe: la difesa della Democrazia contro l'imperialismo teutonico, il trionfo del principio di nazionalità con la liberazione dei fratelli irredenti, la difesa del sacro suolo della patria contro l'invasione straniera. Ma, se non capitolarono il proletariato ed il suo partito, capitolò da solo proprio il “capo degli intransigenti”, a dimostrazione di quanto valgano i “capi” nel gioco delle forze sociali. Il tradimento di Benito Mussolini verso il proletariato e la rivoluzione porta la data del 18 ottobre 1914; il 23 marzo 1919 e il 28 ottobre 1922 egli non commise un'aggravante di reato, ma seguì il logico impulso delle leggi storiche e politiche in conseguenza alla premessa di allora.

Passato il ciclone della guerra, il proletariato socialista, che aveva dovuto subirla, ebbe un potente ritorno di combattività classista e tentò di porsi il problema di scaraventare giù dal potere, malgrado la sua vittoria di guerra, la classe che la opprimeva.

Ma le armi materiali e politiche per questo compito non erano appieno forgiate e la intransigenza anti- collaborazionista, come la opposizione alla guerra che la centrale del Partito Socialista aveva contenuto nella sterile formula “né aderire né sabotare”, erano piattaforma insufficiente ad intendere e realizzare il postulato storico della conquista insurrezionale del potere e della instaurazione della dittatura proletaria. Non tutto il partito seppe quindi raccogliere l'impulso storico formidabile che veniva dalla Rivoluzione di Russia e che fondeva per la prima volta la teoria politica e l'azione di combattimento rivoluzionario del proletariato mondiale.

Pur nel loro magnifico rifiorimento, le battaglie isolate (date con scioperi vittoriosi sul terreno sindacale, con i grandi scioperi politici delle principali città seguiti dall'occupazione delle fabbriche e di altri centri della  vita sociale) non si fusero utilmente in un unico assalto al potere centrale della borghesia.

Questa, a vero dire, comprese la tempesta e seppe affrontarla con sufficiente coscienza del momento storico  e realismo di vedute. Nella prima fase del dopoguerra (1919), la politica della classe dominante fu quella tradizionale di diluire lo slancio classista nella parziale soddisfazione delle richieste economiche ed in un'orgia comiziaiola e cartacea di parlamentarismo. Nitti, uno degli abilissimi della casta politica italiana, fece senza esitazione rovesciare nel Parlamento 150 deputati socialisti, mentre il furbo reuccio sculettava di simpatia per la loro ala destra, nella speranza di attrarla in una combinazione di gabinetto.

Successivamente, il vecchio e più consumato Giolitti, senza certo ammainare il bandierone della democrazia, cominciò a preparare le trincee della resistenza armata. Senza nessun timore, l'oculato e furfante maestro della politica italiana lasciò entrare gli operai nelle fabbriche tenendo bene in pugno le questure. La sua formula era stata sempre che l'Italia si governava dal Ministero dell'Interno; il potere del liberalismo italiano  è stato sempre affare di polizia.

 

Il fascismo – i fattori della sua vittoria

Frattanto, il complice di avanguardia della classe dominante italiana, Benito Mussolini, provvedeva a impersonare la riscossa delle forze conservatrici e fondava il movimento fascista. La politica fascista, caratteristica del moderno stadio borghese, faceva in Italia il primo classico esperimento. Col fascismo la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a una coscienza e a un'inquadratura di classe.

Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie. Nella inquadratura fascista, la borghesia italiana seppe in effetti impegnare se stessa e i suoi giovani personalmente nella lotta, lotta per la vita e per la salvezza dei suoi privilegi di sfruttamento. Ma, naturalmente, il fascismo consisté anche nell'inquadrare nelle file di un partito  e di una guardia di combattimento civile gli strati di altre classi tormentate dalla situazione, non esclusi  alcuni elementi proletari delusi dalla falsa apparenza dei partiti che da anni parlavano di rivoluzione, ma rivelavano la loro palese impotenza.

Il compito immediato del fascismo è la controffensiva all'azione di classe proletaria, avente scopo non puramente difensivo, secondo il compito tradizionale della politica di stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato. Quando la situazione sociale è matura nel senso rivoluzionario, sia pure con un processo difficile e pieno di scontri, ogni organo delle classi sfruttate che lo Stato non riesca ad assorbire per irretirlo nella sua pletorica impalcatura, e che seguiti a vivere su una piattaforma autonoma, diventa una posizione di assalto rivoluzionario. La borghesia nella fase fascista comprende che tali  organismi, sebbene tollerati dal diritto ufficiale, devono essere soppressi e, non essendo conveniente inviare  a farlo i reparti armati statali, crea la guardia armata irregolare delle squadre d'azione e delle camicie nere.

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La lotta si ingaggiò tra i gruppi di avanguardia del proletariato e le nuove formazioni del fascismo e, come è ben noto, fu perduta dai primi. Ma questa sconfitta e la vittoria fascista furono possibili per l'azione di tre concomitanti fattori.

Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle valutazioni in base ai criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto la organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l'olio di ricino e tutto questo truce armamentario.

 

Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l'intiera forza organizzata dell'impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e “agguati comunisti” distribuiva trentine d‟anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei “bravi ragazzi” degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L'esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, Chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l'avvento dell'unica forza venuta ad arginare l'incombente pericolo bolscevico era accolta con plauso e con gioia.

Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista dell'opportunismo social-democratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d'ordine che all'illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l'illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l'immancabile intervento dell'Autorità costituita dallo Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all'illegale movimento fascista.

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Come dimostrò l'eroica resistenza proletaria, come attestano le porte delle Camere del Lavoro sfondate dai colpi d'artiglieria attraverso le piazze su cui giacevano i cadaveri degli squadristi, come provarono i rioni operai delle città espugnati, come a Parma dall'esercito, come in Ancona dai carabinieri, come a Bari dai tiri della flotta da guerra, come dimostrò il sabotaggio riformista e confederale di tutti i grandi scioperi locali e nazionali fino a quello dell'agosto 1922 (che, a detta dello stesso Mussolini, segna la decisiva affermazione del fascismo, giacché la pagliaccesca “marcia su Roma” in vagone letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi), senza il gioco concomitante di questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. E se nella storia ha un senso parlare di fatti non realizzati, la mancata vittoria del fascismo avrebbe significato non la salvezza della democrazia, ma il proseguire della marcia rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana. Questa, ben comprendendolo, in tutti i suoi esponenti, conservatori e social-riformisti, preti e massoni, plaudì freneticamente al suo salvatore.

Se questo giustamente rappresentò il primo dei tre fattori della vittoria, al secondo, la forza dello  Stato, vanno dati i nomi dei partiti e degli uomini che governarono l'Italia dal 1910 al 1922, i liberali come Nitti e Giolitti, i social-riformisti come Bonomi e Labriola, i clericali in via di democratizzazione come Meda e Rodinò, i radicali come Gasparotto e così via. Al terzo fattore, costituito dalla politica disfattista dei capi proletari, vanno dati i nomi dei D'Aragona e Baldesi, Turati e Treves, Nenni e compagni, che giunsero, a nome dei loro partiti e dei loro sindacati, a firmare il “patto di pacificazione col fascismo”, patto che comportava il disarmo di ambo le parti, ma naturalmente valse soltanto a disarmare il proletariato.

 

La liquidazione dei complici del fascismo

Assunto al potere, il nuovo movimento politico della classe dominante italiana trovò la migliore intesa col Re democratico massone e socialisteggiante e non trovò difficoltà a scegliersi servitori tra i parlamentari giolittiani, liberali, radicali e cattolico-popolari. L'estirpazione di ogni residuo movimento autonomo operaio continuò in forme che potevano ormai rivestire di aspetti ufficiali l'illegalismo.

Ben presto il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione del partito unitario borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi tradizionali (prima realizzazione della tendenza del mondo moderno, per cui in tutti i grandi Stati del capitalismo in fase imperiale amministrerà il potere un'unica organizzazione politica), passò alla liquidazione del personale delle vecchie gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed espulsi a pedate dalla scena politica. L'episodio centrale della resistenza di questo strato che troppo tardi si accorgeva dello sviluppo degli eventi, ma che storicamente mai avrebbe cambiato strada (perché‚ cambiarla a tempo avrebbe significato rinunziare al sabotaggio della rivoluzione), fu costituito dalla lotta sorta dopo l'uccisione di Matteotti.

Questo gruppo ignobile di traditori invocò e pretese l'appoggio e l'alleanza del proletariato per rovesciare il fascismo, ma nello stesso tempo non cessò dal piatire il legale intervento della dinastia, dal fare l'apologia della legge, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano per niente la grandeggiante inquadratura fascista, e dal deprecare ogni violenza di masse.

L'avanguardia cosciente del proletariato in tale momento non doveva avere lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi del fascismo, ma, dopo avere virilmente sostenuta la bufera della controrivoluzione, ben poteva compiacersi della sorte di questi miserandi relitti delle cricche parlamentari. Da allora, invece, comincia a sorgere il prodotto più nauseante del fascismo, l'antifascismo bolso, incosciente, privo di connotati, incapace di classificare storicamente il suo avversario, incapace di capire che, se questo ha potuto vincere, è perché le vecchie risorse della politica borghese erano fruste e fradice, incapace di intendere che solo la rivoluzione può superare la fase fascista, e che contrapporvi il nostalgico desiderio del ritorno alle istituzioni e alle forme statali del periodo che la precedette è veramente la più reazionaria delle posizioni.

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Durante il suo primo periodo, il fascismo sedò le resistenze, liquidò i residui delle vecchie organizzazioni politiche, impostò la sua non originale e non risolutiva soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai programmi del socialismo riformista la inserzione nello Stato degli organismi sindacali e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale, che, al fine supremo della conservazione dello sfruttamento padronale, compensava i guadagni e le rimunerazioni dei lavoratori contenendo a grandi sforzi in un piano economico generale la speculazione capitalistica.

Ma questo primo esperimento di amministrazione politica totalitaria della vita sociale, nell'ambiente economico italiano di scarso potenziale intrinseco, dette risultati assai meschini, e l'apparente solidità del regime si mantenne solo con l'abuso smodato di una retorica parolaia, che fu la continuazione fedele della vuotaggine del tradizionale parlamentarismo italiano.

Dal punto di vista convenzionale e borghese, il fascismo segnò una nuova era rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana, nelle sue vicende di politica interna ed estera. Contro la concorde, benché opposta affermazione di questa antitesi da parte dei dottrinari da operetta del fascismo e dell'antifascismo, una valutazione marxista riconosce la logica e coerente continuità e responsabilità storica nell'opera e nella funzione della classe dominante italiana prima e dopo il 28 ottobre 1922. Tutto ciò che è stato perpetrato e consumato dopo trova le sue premesse necessarie in quanto si svolse nei precedenti decenni.

Lo stesso movimento fascista, con la pseudo-teoria che mai seppe prendere corpo, nasce con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e di capi, dal movimento dei fasci interventisti del 1914, a cui  si richiamano quasi tutti i movimenti che si vantano antifascisti.

La diretta continuità di movimenti tra il periodo parlamentare, quello fascista e quello post-fascista odierno, può leggersi nel processo di liquidazione della tradizione antivaticana. Quando la sinistra proletaria ripudiava l'anticlericalismo di maniera, le veniva rimproverato di favorire il pericolo clericale. Ma in realtà, non solo la politica indipendente proletaria si giustificava con la valutazione che tale pericolo non era più grave di quello di snaturare nella collaborazione massonica la fisionomia classista del partito proletario, ma con la certezza che quel pericolo era uno spettro fittizio e che, in un avvenire non lontano, per quanto allora presentato come ingombrante paurosamente tutto l'orizzonte storico-politico, sarebbe stato disinvoltamente e sfrontatamente dimenticato.

Parallelamente all'intelligente politica del Pontificato verso i nuovi rapporti sociali di classe del mondo borghese, l'intransigente partito clericale si mutava all'indomani della guerra nel “Partito Popolare Italiano”, oggi [1946] “Democrazia Cristiana”, operante nell'ambito della costituzione parlamentare italiana.

Il movimento cattolico era stato, come quello socialista, contro la guerra, il Papa Benedetto XV aveva trovata la potente invettiva dell'inutile strage, e dicono fosse morto anzitempo nello spettacolo dei cristiani massacrantisi in nome di Dio. Seguì alla guerra una politica di realismo opportunista. Come tutte le forze borghesi, i cattolici videro con gioia l'azione fascista sventare il pericolo rosso e al fascismo offrirono nei primi ministeri diretta collaborazione. Liquidati, insieme agli altri servi sciocchi, nella crisi 1924-25, i popolari cattolici operarono la lenta conversione che li presenta oggi [1946] come uno dei pilastri d'angolo dell'antifascismo.

Frattanto il Vaticano proseguiva senza interruzione la sua politica di liquidazione delle intransigenze anti- italiane e, malgrado la polemica teorica contro la pseudo ideologia fascista deificante i concetti di Patria, di Stato, di Razza che esso non poteva tollerare, perveniva alla completa conciliazione, vecchio sogno di tutti i conservatori italiani, attuando all'apogeo del ciclo fascista il Concordato del 1929 e chiudendo la fase storica di conflitto aperta nel 1870.

***

La dinastia sabauda, al tempo stesso bigotta ed atea, pietista e massonica, credeva di consolidare ulteriormente, con questa conquista, la sua base politica. La rinascente pretesa democrazia di oggi, intenta stupidamente a disfare pietruzza per pietruzza l'edificio fascista, non ha trovato una frase né una parola  contro il concordato di Ratti e Mussolini, o per far rivivere, sia pure a scopo commemorativo, la gloria della sua passata retorica anti-vaticana. Quando il dominatore che Re e Papi temettero ed elevarono a loro pari con Collari e Croci, fu travolto da altre forze, la gerarchia del Quirinale e quella del Vaticano furono concordi nella politica di presentarsi come nemiche e demolitrici del potere di Mussolini. Se nel guazzabuglio politico dei partiti dell'antifascismo, qualche timida obiezione sorge alla pretesa di verginità antifascista dei Savoia, o almeno di Vittorio Emanuele III, è quasi completo il silenzio nei confronti dell'analoga manovra politica compiuta dal pontificato attuale. Sta a spiegare, questa differenza di comportamento, insieme alla congenita vigliaccheria dei politicanti italiani, il fatto che, mentre le azioni del re sabaudo sono poi precipitosamente cadute, la Curia vaticana è tuttavia una forza storica di assoluta efficienza, non scossa, e forse anzi rinvigorita, dalle vicende della guerra.

E la posizione di questa forza nei rapporti del conflitto tra le classi sociali dimostra ancora una volta la continuità e la rispondenza tra le posizioni borghesi fasciste e quelle antifasciste, che, malgrado la diversità delle presentazioni retoriche, fanno fulcro sui concetti di collaborazione delle classi e sulla propaganda di economie pseudo-collettive, che salvano il principio dello sfruttamento borghese tentando di evitare l'opposta pressione dell'organizzazione proletaria.

Il pontificato oggi, nelle comunicazioni fatte nel corso della guerra, se talvolta, quando l'esito di questa era indeciso, è giunto ad enunciare una critica delle sue cause che ne riporta l'origine ad epoca assai più remota del sorgere dei regimi di Mussolini e di Hitler, denunziando le tremende sperequazioni tra le fortune plutocratiche e la miseria operaia caratteristiche della moderna società, nel suo programma positivo, economico e politico, riecheggia i motivi reazionari del corporativismo fascista e della democrazia progressiva, oggi in voga. Fondare in politica la democrazia su qualità morali dei governanti e dello strato professionale governativo, è parola storica tanto retriva quanto l'invocazione di una economia di frammentazione della ricchezza, di polverizzazione della proprietà, che vuol dare agli oppressi economicamente l'illusione che il capitalismo, anziché spingersi sempre più follemente verso i vortici delle disparità economiche, si possa volgere ad un regime dove tutti al tempo stesso saranno lavoratori e proprietari.

Non diversamente parlò alle masse sfruttate il fascismo, e non è meraviglia che gli economisti delle democrazie politiche e sindacali accettino le parole economiche vaticane, convergendo nel piano della socializzazione dei latifondi e dei monopoli, che non maschera altro che il divenire monopolistico e  fascistico del capitalismo statale.

Clericali ed anticlericali ieri, fascisti ed antifascisti oggi, i borghesi, nel mondo come in Italia, sono veduti  dal metodo storico proletario percorrere un unico ciclo ed una crisi parallela.

 

Il ridicolo “bis” del risorgimento

E‟ per tutto questo che l'odierna parola della ripetizione e della restaurazione delle conquiste del Risorgimento nazionale italiano risulta molto più reazionaria delle stesse parole d'ordine del fascismo. Non solo un “bis” di questo genere è storicamente un non-senso, ma la via del Risorgimento non è altro che la via che ha condotto al regime fascista come al suo sbocco storico.

L'idea che il fascismo vada considerato diversamente da tutti gli altri processi sociali e storici, come una malattia o, se si vuole, come una distrazione della storia, come una parentesi bruscamente aperta e bruscamente chiusa, come un'alzata e calata di sipario su uno spettacolo ributtante, equivale a ritenere che  tale fase storica non abbia le sue radici in tutti gli eventi che la precedettero e che gli eventi ad essa  successivi possano non essere influenzati da essa. Tale idea è l'opposto della concezione scientifica  e marxista della storia, e va da questa spietatamente respinta. Tale idea, infine, equivale a  ristabilire  ed esaltare, sotto pretesto di radicalismo antifascista, le cause stesse della generazione del fascismo, ed è la più forcaiola delle idee che la politica di questi tempi abbia potuto mettere in circolazione. La coscienza politica del proletariato respinge dunque l'invito a dare alla classe dei suoi sfruttatori nuovo appoggio e nuova alleanza per ripercorrere insieme la strada che ha condotto alla presente situazione, e rifiuta di prendere anche per un momento sul serio la presentazione della borghesia italiana sotto la luce romantica che pretendeva irradiarla nelle prime sue manifestazioni cospirative e insurrezionali di un secolo addietro. Accreditare la classe dominante italiana con questo colossale trucco storico e politico è meno facile che presentare come candida verginella la più esperta e matura professionista del meretricio.

Comunque, la situazione succeduta al fascismo è di tale miseria politica, che non contiene nemmeno gli elementi retorici che rispondono a queste banali riesumazioni, alla nuova rivoluzione liberale ed al Risorgimento seconda edizione.

Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l'antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio '43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito.

Vi furono negli anni del fascismo ed in quelli di guerra opposizioni, resistenze e rivolte, come vi sono state nelle zone tenute dai fascisti e dai tedeschi lotte condotte da partigiani armati. Ma mentre il politicantismo borghese è riuscito a dare a questi movimenti le sue false etichette liberali e patriottarde, nella realtà sociale tutti quei conati generosi vanno attribuiti a gruppi proletari, che, se nella coscienza politica non si sono saputi svincolare dalle mille menzogne dell'antifascismo ufficiale, nella loro battaglia esprimono il tentativo di una rivincita di classe, di una manifestazione autonoma di forze rivoluzionarie tendenti a  schiacciare tutte  le forze nemiche degli strati sociali dominanti e sfruttatori.

Il tracollo decisivo del regime fascista è derivato dalla sconfitta militare, dalla logica politica di guerra degli alleati, che, conoscendo la fragilità dell'impalcatura statale militare italiana, hanno localizzato presso di noi i primi formidabili colpi d'ariete della loro riscossa contro i successi tedeschi. Quando il territorio italiano era largamente invaso, il fascismo perse la partita non per il gioco dei suoi rapporti di forza coi partiti italiani antifascisti, ma per il gioco di rapporti di forza tra l'organismo statale militare italiano e quelli nemici.

 

La crisi della sconfitta e la parodia antifascista

Poiché la crisi culminante dello Stato borghese italiano (e non del solo fascismo che non era che la sua  ultima incarnazione) non coincideva affatto nel tempo con la crisi dell'organismo militare tedesco, si determinò la situazione di liquidazione catastrofica di tutta la forza storica della classe dominante italiana. Questa, nel suo tentativo di gettare a mare l'alleato facendosene un merito agli occhi del vincitore, percorse una via rovinosa, perché‚ in realtà, non aveva più forza per costituire una seria pedina nel gioco dell'uno o dell'altro dei contendenti. Cercò di non confessarlo, e tutti gli attuali partiti dell'antifascismo furono complici nella responsabilità di questa vergognosa per quanto vana truffa politica.

Monarchia, Stato Maggiore, burocrazia, dapprima gettano a mare Mussolini, ma, non avendo nulla preparato di positivo per affrontare non tanto il fascismo, quanto il suo alleato tedesco, sono costretti a vivere l'ignobile farsa dei 45 giorni, in cui dicono corna di Mussolini ma proclamano che il popolo italiano deve seguitare a combattere la guerra tedesca. Preparano, poi, non il cambiamento di fronte, impossibile ad un popolo e ad un esercito ormai incapaci di combattere e stanchi di sacrificarsi dopo tutte le vicende passate, ma esclusivamente il loro salvataggio di classe, di casta e di gerarchie, poco curandosi che tale salvataggio di responsabili e complici inveterati della politica fascista duplicasse l'amarezza del calvario del popolo lavoratore italiano.

In questo quadro di clamoroso fallimento, corrono a rioccupare i loro posti i partiti della pretesa sinistra antifascista e quelli che sfruttano i vecchi nomi dei partiti della classe proletaria italiana. Ma nessuno di essi rifiuta la corresponsabilità di questa colossale manovra di inganni e di menzogna.

L'Italia che aveva vissuto per 22 anni di bugie politiche convenzionali, rimane nella stessa atmosfera, aggravata dal disastro economico e sociale. Nessuno dei partiti antifascisti trova la forza di contrapporre alla retorica della immancabile vittoria della banda mussoliniana l'accettazione coraggiosa della realtà della sconfitta. Essi si pongono sul terreno banale della parola antitedesca cercando invano di presentare ai vincitori un‟Italia che, facendo per quattro anni la guerra contro di essi, fosse in realtà una loro alleata, e promettendo ciò che nessun partito italiano poteva mantenere, cioè un apporto positivo alla guerra contro la Germania, ed in realtà anche dal punto di vista nazionale non riescono ad un salvataggio parziale ma cadono in un peggiore disfattismo.

 

Le parole dei giornali dei partiti che si dicono rivoluzionari, echeggianti completamente quelle fasciste – unità nazionale, tregua di classe, esercito, guerra, vittoria – parole altrettanto false quanto allora, mascherano soltanto la libidine di dominio delle classi privilegiate, pronte ancora una volta ad un mercato fatto  sulla carne e sul sangue dei lavoratori, e rispondono al tentativo di salvare alla borghesia italiana una posizione di classe economica dominatrice, sia pure vassalla di aggruppamenti statali infinitamente più forti, mediante l'offerta della vita, degli sforzi, del lavoro della classe operaia, a vantaggio prima della guerra, poi del peso titanico della ricostruzione. La borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi nemici un armistizio che non può pubblicare, perché con esso ha tentato di risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere, se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni. Di questo segreto contratto e del suo spietato carattere di classe sono volontariamente corresponsabili tutti i partiti che agiscono oggi nel campo politico italiano, che accettarono di coprire la manovra con l'adozione delle false parole dell'alleanza, dell'armamento, della guerra, e che non osano, pur abbeverandosi ad un'orgia di liberalismo, avanzare nessuna timida eccezione critica alla dittatura di queste colossali menzogne.

***

Ritornando alla tesi-base dell'antifascismo di tutte le sfumature, secondo cui il fascismo fu ritorno  reazionario di regimi pre-borghesi e feudali, e dopo la sua caduta si pone il postulato di ricominciare la rivoluzione ed il Risorgimento borghese con la solidarietà di tutte le classi, dalla borghesia al proletariato, e dopo di aver dimostrato l'enorme falsità storica e politica di questa posizione, deve concludersi che, se per un momento la tesi fosse vera, la rinascente borghesia avrebbe dovuto ricominciare il suo ciclo nelle forme iniziali che gli furono proprie, forme di dittatura di classe, di direzione totalitaria del potere, e non di tolleranza liberale.

Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell'ambiente sociale italiano.

E a conclusione di quelli che sono gli aspetti internazionali della commedia e della tragica farsa che va dal 25 luglio all'8 settembre, va ribadito che l'armistizio italiano non fu vero armistizio.

E‟ mancato quel mercato militare che è la base del fatto giuridico di armistizio. Era inutile stipularlo, e bastava proclamare ovunque la consegna dei frammenti di territorio italiano alla forza del primo occupante straniero. Il mercato è stato politico e di classe; quei gruppi, espressione della classe dominante, hanno  tentato di barattare il privilegio di governare e sfruttare l'Italia, ossia la classe lavoratrice di questo paese, contro la firma di una serie di condizioni di servitù politica ed economica, che la forza del vincitore era ben libera di realizzare col suo diritto storico, ma che tuttavia la sua propaganda può oggi presentare come giuridicamente garantite.

Con l'armistizio, la casta militare italiana, nella immensa maggioranza, non invertì le direttrici del tiro, ma si preoccupò solo di rubare e vendere il contenuto dei depositi, dopo aver buttato via armi e divise. I fascisti, evidentemente, lo facevano per sabotare l'alleato, gli antifascisti per sabotare i tedeschi. Soltanto a tale risultato poteva condurre il capolavoro della tremenda opposizione antifascista italiana che, con la doppia manovra 25 luglio-8 settembre, coronò degnamente il corso della classe dominante italiana in un secolo di storia. Da allora questo metodo geniale ha preso il nome di “doppio gioco” con la caratteristica della sua miserabilità, e con quella che esso non è servito nemmeno ad ingannare il padrone, da nessuno dei due fronti.

 

Il collasso delle classi dirigenti in italia e e il proletariato

Se nell'andare alla rovina la classe dominante in Italia avesse lasciato superstite qualche suo gruppo dotato di forza sociale e politica autonoma, o almeno di una residua coscienza culturale ed intellettuale, lo si sarebbe sentito da ambe le parti del fronte lanciare la parola, sia pure utopistica, della liberazione del territorio da qualunque straniero, e accusare di tradimento della patria tutti i partiti e gli uomini del 25 luglio, dell'8 settembre e del mostruoso blocco antifascista avallatore dell'armistizio, come i fascisti che nel Nord si sono asserviti all'altro campo dell'imperialismo straniero.

 

Lasciando al loro disastro tutti i relitti borghesi, sia quelli che sono sopravvissuti nel professato vassallaggio ai due grandi contendenti della guerra, sia eventualmente gli ultimi mistici non venduti di una indipendenza e di una patria italiana, il partito nuovo della classe operaia italiana, impostando le sue soluzioni sulle forze internazionali di classe, dovrà in ogni caso sconfessare i due armistizi consumati nel disastro della guerra italiana e condurre la sua lotta politica contro tutti i gruppi che si sono schierati nei due governi della  penisola e che hanno parlato di una collaborazione alle forze di guerra da entrambe le parti.

Soprattutto, vinta la guerra da parte degli Alleati, il proletariato italiano non ha alcun interesse a sostenere le rivendicazioni che i gruppi del governo di Roma avanzano per le loro “benemerenze”, in quanto ogni concessione a questi da parte del vincitore sarà pagata dallo sfruttamento dei lavoratori d'Italia, e si porrà contro il loro cammino verso l'emancipazione.

La parola contraria, che vuole invece poggiare tali rivendicazioni sull'unità solidale delle classi e dei partiti d'Italia, deve essere dal proletariato respinta come disfattista e controrivoluzionaria.

 

Marxismo o partigianesimo

(Per la serie "Sul filo del tempo", questo articolo apparve sul n.14 del 1949 del nostro organo di allora, Battaglia comunista)

 

IERI

Al tempo della rivoluzione borghese, le forze di avanguardia della classe che arrivava al potere ebbero il loro internazionalismo, e soprattutto nel periodo incendiato del 1848 - quando d'altronde era già ben presente la moderna classe operaia - le insurrezioni si ripercossero travolgenti dall'una all'altra capitale d'Europa. I democratici borghesi rivoluzionari delle varie nazionalità strinsero frequenti contatti, si prestarono efficaci appoggi armati, e non mancarono le sistemazioni teoriche di un movimento europeo e mondiale della democrazia borghese. Basti ricordare la Giovane Europa di Mazzini, parallela alla Giovane Italia, e al largo impiego di mistica patriottica e nazionale.

Caratteristico mezzo di lotta di questo periodo della conquista del mondo da parte della borghesia fu la cospirazione di società segrete e la partecipazione a mezzo di spedizioni armate, di legioni di volontari, organizzate oltre ed entro frontiera, alle lotte che esplodevano nei vari paesi, per lo più sotto forma di guerre di indipendenza.

È fondamentale che, fin da un secolo addietro, a questo modo di condurre la lotta rivoluzionaria proprio dell'epoca borghese i primi gruppi di operai e di socialisti avviati alla concezione marxista  di classe contrapposero una decisa critica e un diversissimo tipo di organizzazione e di lotta. Basterà rileggere la nota di Engels sulla storia della Lega dei comunisti, premessa alle rivelazioni di Marx sul processo di Colonia del 1852. I comunisti nel 1848, in pieno periodo rivoluzionario, erano ben convinti che fosse di somma importanza per il proletariato la sconfitta della reazione feudalistica nei vari paesi, e d'altra parte non disperavano di innestare alle rivoluzioni di Parigi e di Berlino e delle altre capitali l'assalto della classe operaia alla borghesia per la conquista del potere. Tuttavia essi, anche in circolari di partito, denunziavano nettamente il metodo legionario e "partigiano" degli estremisti democratici. "Si aveva allora [marzo 1848] la mania delle legioni rivoluzionarie. Spagnoli, italiani, belgi, polacchi, tedeschi, si riunivano in legioni per liberare la propria patria. E poiché dopo la rivoluzione gli operai stranieri non erano soltanto disoccupati ma anche vessati dal pubblico, queste legioni trovavano numerose reclute... Noi ci opponemmo risolutamente a questi trastulli rivoluzionari. Fondammo un club comunistico  tedesco nel quale consigliammo i lavoratori di tenersi lontani dalla legione, di ritornare in patria ad uno ad uno e di agirvi in favore del movimento".

All'ondata di crisi del 1848 successe un periodo di consolidamento dell'economia borghese e di  sosta nelle lotte politiche. La reazione feudale si illudeva di aver vinto politicamente, ma in un'analisi del 1850 Marx notava che "le basi della società sono momentaneamente tanto sicure e tanto borghesi, quanto lo ignora la reazione. Innanzi a questo fatto naufragano tutti i tentativi della reazione, che si oppongono alla evoluzione della borghesia, come tutte le indignazioni etiche e le proclamazioni alate della democrazia".

Ed Engels nota ancora:

"Una così fredda comprensione dello stato dei fatti era un'eresia per molta gente, in un tempo in cui Ledru Rollin, Mazzini, Louis Blanc, Kossuth e gli altri si radunavano a Londra in governi  provvisori dell'avvenire, non solo per la loro patria rispettiva ma per tutta l'Europa, ed in cui tutto si riduceva a raccogliere in America il denaro necessario agli imprestiti rivoluzionari per fare la rivoluzione europea e fondare le diverse repubbliche".

La chiusa di questo scritto di Engels, che data dal 1885, è il classico ricordo ed omaggio alla gigantesca potenza della concezione rivoluzionaria della storia dovuta a Marx.

Ve ne è abbastanza per stabilire che al metodo legionario partigiano profughista e mistico della rivoluzione borghese la rivoluzione operaia ne contrappone uno ben diverso, quello della organizzazione in partito di classe territorialmente presente ovunque il capitale sfrutta i suoi schiavi salariati, partito unico per tutti i paesi perché non organato sulla premessa del riconoscimento degli stati nazionali e delle costituzioni popolari, partito in lotta insospendibile con le vigenti istituzioni borghesi, tanto nella teoria che nella pratica battaglia.

Il metodo demoborghese e partigianesco per cui ogni moto contro l'ordine vigente in un paese non  se la sente di levarsi in piedi se non si fonda sull'appoggio di un regime di oltre frontiera da cui  avere armi ed aiuti e in caso di sconfitta rifugio per soliloqui di ispirati e per governi fantocci, non ha mai cessato di insidiare colle sue seduzioni corruttrici la costruzione del movimento proletario classista mondiale.

La tradizione letteraria italiana possiede il famoso squarcio carducciano sui giovani, primavera  sacra d'Italia, che vendicarono Roma e Mentana cadendo vittoriosi sulla gentil terra di Francia.  Nella guerra franco-prussiana del 1870, pure essendo molto opinabile se la democrazia moderna avanzava con le baionette di Moltke o con quelle di Napoleone piccolo, i garibaldini italiani furono come legioni volontarie a Digione dove riportarono sui prussiani una vittoria tattica secondaria.

Quando si trattò di consolidare la critica socialista al nazionalismo e al patriottismo non poco fastidio dettero gli episodi legionari della guerra di liberazione greca contro i Turchi alla fine del secolo. Ci gridarono in polemica che a Damokos con i democratici di tutti i paesi c'erano anche gli anarchici, e spiegammo tante volte con pazienza che non consideravamo gli anarchici come un modello rivoluzionario di sinistra per i marxisti.

Nella guerra del 1914 si può pensare che il fatto dominante non fu una scelta dei "democratici" di tutto il mondo per una delle due parti. In Austria e Germania i socialisti, come del resto ogni altro partito parlamentare di sinistra, furono col regime e con la guerra. Eravamo già al tipo di guerra moderna, imperialistica, generale in tutto il mondo capitalistico. Vi era un regime reazionario e feudale in ballo, la Russia, ma vedi un po' era nel campo delle grandi democrazie di Occidente, quelle che hanno sempre covato nel lor generoso seno i partigianismi della libertà. Non si potevano sognare a Londra e a Parigi di organizzare legioni contro l'alleato Zar, seriamente impegnato a  tirarsi addosso i colpi d'ariete delle armate del Kaiser. Ma la Rivoluzione Russa  scoppiò egualmente. La posizione di Lenin e dei bolscevichi di fronte ai diversi gruppi opportunisti di emigrati russi democratici e socialistoidi non ha bisogno di essere ricordata: in teoria è quella stessa di Marx rispetto al mazzinianesimo e al kossuthismo, in pratica finalmente li fece tutti fuori, nel fascio con gli zaristi e i borghesi.

OGGI

Dove il partigianismo ha fatto le sue grandi prove per la sua rovinosa riedizione di questo secolo è stato nella guerra civile spagnola. Di legionarismo nella Grande Guerra ne avevamo avuta una produzione in Italia, con i dannunziani: fatto che per l'analisi marxista si ricollega alle  vaste esigenze del militarismo professionale determinato dalle guerre moderne specie nei ceti medi, e che conduce direttamente a molte delle forme proprie del totalitarismo fascista.

Vedemmo in Spagna i due legionarismi, rosso e nero, che entrambi presero le forme partigiane;  ossia di corpi militari sostenuti e mantenuti con la tecnica moderna e il relativo onere di spesa,  senza che gli Stati comparissero in modo ufficiale, vedi ad esempio da una parte la Russia, dall'altra l'Italia.

Sembrava lo scontro di due mondi, ma tutto finì con una operazione di polizia compiacentemente sostenuta dai grandi empori delle democrazie occidentali, e con ambiguo atteggiamento di Mosca, ma con grave sconquasso del movimento rivoluzionario internazionale, sconquasso ideologico, organizzativo e sacrifizio di uomini validi e audaci, tutto nell'interesse e vantaggio del capitalismo. Tutto ciò condusse direttamente alla situazione disfattista, dal punto di vista proletario, della Seconda Guerra Mondiale. Mentre dopo la Prima tutto lo sforzo del movimento incardinato sulla vittoria comunista in Russia era stato portato sulla formazione del partito di classe internazionale che si levava minaccioso

contro la borghesia di tutti i paesi, gli stalinisti liquidarono l'impostazione classista e di partito e insieme a cento partiti piccolo-borghesi rovesciarono tutte le forze che sventuratamente controllavano nel movimento di tipo legionario.

I militanti rivoluzionari si tramutarono in avventurieri di tipo standard poco diversi da  quello fascista dei primi tempi; anziché uomini di partito, custodi dell'indirizzo marxista e della salda autonoma organizzazione dei partiti e della Internazionale, divennero caporali generali e colonnelli da operetta.

Rovinarono l'orientamento di classe del proletariato facendolo paurosamente rinculare di almeno un secolo, e chiamarono tutto ciò progressismo. Convinsero gli operai di Francia, d'Italia e di tutti gli altri paesi che la lotta di classe, per sua natura offensiva, a carattere di iniziativa deliberata e dichiarata, si concretava in un difesismo, in una resistenza, in una inutile e

sanguinosa emorragia contro forze organizzate capitalistiche che non vennero superate ed espulse che da altre forze non meno regolari e non meno capitalistiche, mentre il metodo adottato impedì assolutamente di inserire nel trapasso un tentativo di attacco autonomo delle forze operaie. La storia dimostrerà che tali tentativi non mancarono, come quello di Varsavia durante il

quale i sovietici attesero a pochi chilometri impassibili che l'esercito tedesco riconducesse il  classico ordine: ma furono tentativi condannati dal traviamento demopartigianesco delle energie di classe.

Al difficile cammino della classe lavoratrice socialista, la degenerazione opportunista 1914-'18, battuta vittoriosamente dal bolscevismo, ossia dal marxismo nella sua vera concezione, sta come la degenerazione partigianesca 1939-1945.

Nella prima crisi si riuscì a ritornare al nostro metodo specifico di lotta fondando i grandi partiti rivoluzionari autonomi. Dopo la seconda, il proletariato è sotto la minaccia di una nuova infezione partigiana.

Il partigiano è quello che combatte per un altro, se lo faccia per fede, per dovere o per soldo poco importa.

Il militante del partito rivoluzionario è il lavoratore che combatte per se stesso e per la classe cui appartiene.

Le sorti della ripresa rivoluzionaria dipendono dal potere elevare una nuova insormontabile barriera tra il metodo dell'azione classista di partito e quello demoborghese della lotta partigiana.

 

Appendice

L’articolo che segue uscì dieci anni fa sulle pagine de Il programma comunista, in un’epoca in cui si faceva gran chiasso, da destra come da “sinistra”, intorno al cosiddetto “sdoganamento del fascismo”, ulteriore operazione di chirurgia plastica condotta dalla classe dominante italiana in tutte le sue incarnazioni, nel segno di una continuità che non si vuole e non si può apertamente riconoscere, ma che è scritta dentro la storia stessa del secondo dopoguerra. Nel corso di questi dieci anni, il tanto temuto sdoganamento del babau fascista si è risolto nel migliore dei modi “per tutti”: alla repubblica di Salò è stato riconosciuto un forte "connotato patriottico”, al ventennio fascista la sua “legittimità storica”, fatta ammenda degli "errori collaterali” – e così le istituzioni democratiche possono riconoscere in Alleanza Nazionale uno dei più sicuri baluardi della democrazia postbellica. A distanza di sessant’anni, i vincitori del primo dopoguerra e quelli del secondo si congratulano reciprocamente per aver saputo legare con palle di piombo le caviglie dei proletari nei momenti più aspri della lotta di classe: il cerchio si chiude nell'abbraccio solenne, allora come oggi, attorno ai grandi valori della patria e della nazione

 

 

Esiste oggi un “pericolo fascista”?

La vittoria elettorale del cosiddetto Polo della Libertà e la conseguente ascesa al governo di Alleanza Nazionale nel corso del ‟94 hanno indotto la sinistra borghese a riscoprire l‟antifascismo militante. Già all‟indomani della cocente sconfitta elettorale del marzo ‟94, i progressisti, in primo luogo “Il manifesto”, avevano lanciato una mobilitazione per la difesa della democrazia, invitando a partecipare in massa alle celebrazioni del 25 aprile. Negli ultimi mesi, dibattiti e prese di posizione sono proseguiti  a tamburo battente, e tutto lascia presagire che il 1995, anno coincidente con il cinquantenario della “liberazione”, sarà l‟occasione di una mobilitazione in grande stile.

Il presupposto di partenza dei “progressisti” è l‟antitesi netta tra fascismo e democrazia: la democrazia è per costoro un bene supremo che chiunque, borghese o proletario, deve lottare per salvaguardare, mentre il fascismo è da essi inteso come un regime autoritario e reazionario che, sconfitto [sessant‟anni fa] dalla Resistenza, ora rischia di risorgere. In tale visione, qualsiasi analisi di classe del fascismo scompare; si assume la visione riduttiva del fascismo come regime autoritario negatore della libertà e si idealizza invece la democrazia borghese tentando di occultare la natura capitalistica e del fascismo e della democrazia, forme diverse di regime borghese che si alternano secondo le necessità della classe dominante, ma con una progressiva fascistizzazione della democrazia – ciò che abbiamo chiamato “democrazia blindata”.

I comunisti rivoluzionari hanno sempre denunciato la sostanziale continuità tra fascismo e democrazia. Scrivevamo per esempio nel 1946: “Lo stesso fatto che le gerarchie oggi prevalenti sono state incapaci di scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica; che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti; che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile e impotente negazione,  sono del fascismo i continuatori e gli eredi e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell‟ambiente sociale italiano” (1)

In questo contesto è necessario mettere in risalto gli elementi di continuità tra il regime mussoliniano e la repubblica del ‟46. Una delle più ricorrenti vanterie di cui si fregiano i democratici antifascisti è quella della presunta instaurazione del cosiddetto Stato sociale, uno Stato che si curerebbe del benessere di tutti i cittadini e che quindi non sarebbe più uno strumento della classe dominante. Questa costruzione avrebbe, secondo costoro, il suo fondamento nella Costituzione del 1948, vera e propria Bibbia per gli antifascisti e in primo luogo per i partiti “di sinistra”. La verità storica, però, è ben diversa: il fascismo, realizzando una serie di misure di assistenza e di previdenza, aveva già predisposto gli strumenti per la realizzazione dello Stato assistenziale che, come abbiamo in più occasioni ripetuto, è solo uno strumento di conservazione del regime capitalistico. Le misure concrete prese dal regime (assegni familiari ecc.) non costituivano strumenti empirici contingenti, ma facevano parte integrante della concezione dello Stato propria del fascismo, una concezione che ha molti punti di contatto con quella degli antifascisti democratici. La concezione fascista dello “Stato sociale” emerge in testi come la Carta del lavoro e il Programma di Verona della Repubblica di Salò che, significativamente, fu chiamata “Repubblica Sociale”. E‟ noto che l‟art. 1 della Costituzione del  ‟48  sancisce che “l‟Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”,  ma  significativo  è  il  fatto  che l‟art. 9  del Programma di Verona  così proclamava: “Base della  Repubblica Sociale e  suo oggetto primario  è il lavoro manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione”. Semplice coincidenza? Certamente no! E non è semplice coincidenza la similitudine tra gli articoli 41 e 42 Costituzione Italiana e l‟art. 10 del Programma di Verona. Per l‟art. 41 della Costituzione, “l‟iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l‟utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; mentre l‟art. 42 recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Ora, l‟art. 10 del Programma di Verona così dispone: “La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve, però, diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro”.

La repubblica del ‟46 non si è limitata, tuttavia, a copiare i principi programmatici della Repubblica di Salò; ha fatto di peggio: i cardini fondamentali della legislazione fascista sono stati trasmessi d‟ufficio al nuovo Stato democratico e, in gran parte, sono ancora oggi in vigore, dal Codice civile al Codice penale (il famigerato codice Rocco), dall‟ordinamento scolastico alla legislazione sulle miniere ecc. E non si è trattato solo di mantenere in vigore leggi del Ventennio, tutt‟altro; l‟intero sistema di potere fascista venne ereditato in tutti i campi vitali dell‟organizzazione economica e sociale: dalle assicurazioni sociali all‟organizzazione bancaria, dall‟interventismo statale in economia alla funzione “nazionale” del sindacato. In particolare, l‟interventismo statale in economia utilizzò gli strumenti del Ventennio; lo Stato, infatti, principalmente attraverso l‟IRI (tipica creatura del dirigismo fascista), controllava la radio, la siderurgia, i trasporti, la petrolchimica; il sistema del credito fu posto sotto il controllo dello Stato attraverso la Banca centrale e il controllo di essa sul sistema monetario, utilizzando la legge bancaria del ‟36 (oggi non più in vigore, per ragioni che nulla hanno a che vedere con l‟antifascismo).

Smentiscano i traditori riformisti questi dati di fatto! A giusta ragione, il nostro partito poteva allora proclamare: “Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua Costituzione”.

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Qualcuno, non potendo confutare i fatti storici, potrebbe obbiettare a questo punto: “Quel che affermate è vero, ma, mentre il regime fascista non tollerava le libertà fondamentali, come la libertà di parola, di stampa, la libertà sindacale, il pluralismo politico ecc., questi ultimi sono garantiti dalla democrazia, e almeno in questo la repubblica democratica esprime una rottura fondamentale con il totalitarismo fascista”. Una simile obiezione è sensata solo nell‟ipotesi che l‟analisi si limiti all‟aspetto giuridico formale delle questioni politiche. Ma il marxismo, da più di un secolo, ha demolito la mitologia di cui la borghesi si ammanta e ha dimostrato la falsità delle belle parole sulla libertà, l‟uguaglianza ecc. Il meccanismo di incorporazione del sindacato nello Stato può agevolmente dimostrare come, a fronte di un‟effettiva differenza giuridica tra fascismo e democrazia (come è risaputo, nei Paesi democratici l‟organizzazione sindacale è libera), si celi una ben più sostanziale convergenza di fatto. Il fascismo aveva concesso ai sindacati la personalità giuridica per suggellare meglio la funzione, loro assegnata dal regime, di associazioni con finalità pubbliche di rilevanza nazionale: per ottenere il riconoscimento essi dovevano perseguire scopi di  assistenza, istruzione ed educazione morale e nazionale degli iscritti, oltre agli scopi di tutela degli interessi economici degli associati; i dirigenti dei sindacati fascisti, inoltre, dovevano dare garanzia di “capacità, di moralità e di sicura fede nazionale” (2). Si trattava, insomma, anche formalmente, di Sindacati di Stato che scarsa o nulla credibilità avevano presso la parte più cosciente dei lavoratori.

I sindacati attuali, invece, sono giuridicamente associazioni private a base volontaria; è vero che la Costituzione del ‟48 prevede che i sindacati che accettino di registrarsi acquistino la personalità giuridica, ma i sindacati post-fascisti non hanno acconsentito a iscriversi, per cui formalmente sono, come detto, associazioni private senza personalità giuridica. Di fatto, però, si comportano come sindacati “nazionali” al pari dei loro omologhi fascisti: partecipano alle scelte di politica economica dei governi, sono inseriti in strutture dello Stato (CNEL, Consigli di amministratori degli enti pubblici, collocamento ecc.) e dimostrano in ogni occasione di avere a cuore le sorti dell‟economia e della produzione nazionale e in genere della “patria”. Nel sistema attuale, si è costituito il triangolo corporativo governo-associazioni padronali-sindacati, in cui lo Stato si pone formalmente come arbitro tra “contendenti portatori di interessi diversi”. Questo meccanismo, che tante volte abbiamo visto in azione in questi anni, e che ogni volta si è dimostrato una colossale macchina per fregare i lavoratori (vedi l‟accordo del luglio 1993 sul costo del lavoro), è un patrimonio lasciato in eredità al sistema democratico dal regime mussoliniano.

Se ne sono accorti perfino i sociologi, nel cui linguaggio è diventato frequente l‟uso del termine “neocorporativismo democratico”, termine mediante il quale vengono descritti i sistemi politici occidentali del dopoguerra. Ma ciò che viene designato col termine “neocorporativismo” è il vecchio corporativismo fascista trasformato con la dovuta opera di maquillage, opera che si avvale della natura formalmente indipendente delle associazioni sindacali per raggiungere meglio lo scopo di conservare l‟ordine sociale capitalistico. E questa differenza almeno fino a questo momento si è rivelata efficace per il capitalismo, dato che i sindacati attuali godono tra le masse di un prestigio, seppur decrescente, che i sindacati fascisti non potevano certo vantare. Essi si avvalgono di tale prestigio per mobilitare le masse su obbiettivi interclassisti, dalla lotta alla mafia a quella per la giustizia fiscale, a quella per la democrazia ecc.: si occupano, cioè, di tutto tranne che di lottare per difendere gli interessi dei lavoratori; si comportano, perciò, da sindacati “nazionali”. La conseguenza è che lo svuotamento di qualsiasi funzione di classe del sindacato e il suo inquadramento nello Stato, realizzati in Italia per la prima volta con il fascismo, sono proseguiti nel sistema democratico (3).

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A questo punto c‟è poco da aggiungere sulle altre formali differenze tra fascismo e democrazia. Il  proclamato pluripartismo si riduce a elemento puramente mistificatorio: tutti i partiti presenti nell‟arena borghese si richiamano agli stessi principi liberaldemocratici, le differenze tra partiti sono di dettaglio, al di  là delle sparate propagandistiche ed elettorali dei dirigenti. Si potrebbe, perciò, parlare di partito unico borghese diviso in diverse correnti (litigiosissime tra loro ma unite tutte nel sacro rispetto dei valori borghesi della patria, della proprietà, della famiglia, del “rispetto delle alleanze internazionali” ecc.). Che  dire poi delle sacre libertà borghesi? La libertà di stampa e la libertà di manifestazione del pensiero, a che cosa sono ridotte, quando i capitali richiesti per la creazione di un giornale, di una radio o di una televisione sono tali che solo ristrettissimi gruppi di capitalisti possono accedervi? Tutto ciò non fa che confermare quanto scrivevamo nell‟immediato dopoguerra: “la guerra in corso è stata perduta dai fascisti, ma vinta dal fascismo”; il che vale a dire che il sistema reale di potere instauratosi nel secondo dopoguerra è inequivocabilmente fascista.

Comprendere come ciò sia avvenuto è possibile solo con il ricorso all‟analisi scientifica marxista. Secondo la teoria del materialismo storico, i rapporti economici e di produzione sono la causa degli avvenimenti politici e di tutta la sovrastruttura di opinioni e di ideologie nelle diverse epoche e nei diversi tipi di società. E‟ dal fenomeno economico del capitalismo monopolistico e imperialistico, descritto da Lenin nel suo classico L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, che emerge la fase del mondo moderno tendente a sostituire il liberalismo classico con nuove sovrastrutture politiche totalitarie e fasciste. Il capitalismo monopolistico, infatti, ha bisogno di un apparato statale corrispondente alle sue esigenze, e la forma dello Stato minimo e delle massime libertà individuale (cardini del pensiero liberale) ha dovuto cedere il passo ad una forma politica tale da venire incontro all‟accresciuta necessità della regolazione dei fenomeni economici e finanziari.

In tutti i regimi odierni troviamo un livello di intervento dello Stato totalizzante, un inserimento del sindacato nel meccanismo di funzionamento dello Stato parallelo al totale svuotamento di ogni sua autonomia classista, l‟esistenza di misure di assistenza e previdenza per i lavoratori unite all‟uso sistematico di un fenomenale apparato di propaganda di massa: cioè, tutto quanto è stato sperimentato con successo per la prima volta nell‟Italia fascista e nella Germania nazista. In questo senso, si può quindi dire che è fuori luogo parlare di un “pericolo fascista”: il fascismo come sistema di potere totalizzante del capitalismo dell‟epoca imperialista è già presente, e non da oggi, né solo in Italia. E‟ possibile, però, parlare di “pericolo fascista” intendendo per fascismo un regime di aperto terrorismo di Stato, di esplicita messa fuori legge di qualsiasi organizzazione proletaria, ecc.? Per rispondere a questa domanda è bene chiarire che il terrore, la repressione, e in generale  la violenza di classe si esercitano in contesti in cui la classe dominata alza la testa e si ribella al suo destino   di classe sfruttata. In Italia, negli anni venti, la terribile situazione della crisi successiva alla prima guerra mondiale si era associata a fortissimi contrasti di classe che avevano messo in pericolo la stabilità del dominio borghese. Il terrorismo fascista fu, in tale contesto, usato per dare il colpo di grazia ad un  proletariato che non era riuscito a portare a fondo l‟assalto  rivoluzionario, ma che avrebbe potuto in un  futuro relativamente breve sferrare il colpo decisivo al potere borghese. Il terrorismo di Stato utilizzato dai fascisti dopo la presa del potere completò l‟opera delle squadracce nere. L‟esperienza storica dimostra che, al contrario, quando il proletariato si allontana dal suo obbiettivo storico e vive solo come classe per il capitale, quando cioè la lotta realmente classista viene messa ai margini (è il caso, per esempio, della situazione attuale), lo Stato preferisce usare la carota della tolleranza avvalendosi di una repressione di tipo preventivo (soprattutto attraverso l‟opera di partiti e sindacati opportunisti) piuttosto che di una repressione di tipo militare (4).

Non va, però, dimenticato che, in periodi più “caldi”, lo stesso Stato democratico non ha mai disdegnato  l‟uso della forza più brutale: le pallottole degli sbirri democratici in Italia, ad esempio, hanno lasciato sul terreno decine di proletari dal secondo dopoguerra agli anni settanta. Se questi fatti oggi si verificano raramente, non è perché lo Stato borghese sia diventato più tollerante, ma perché scioperi e manifestazioni di piazza sono rari e, in generale, controllati da bonzi sindacale; si svolgono, perciò, normalmente in modo ordinato, pacifico e “civile”. E‟ certo che, se il proletariato ricomincerà a lottare su contenuti e con metodi classisti, rispunterà la repressione dello Stato democratico. Parimenti è certo che, se il proletariato riprenderà la sua strada rivoluzionaria, guidato dal suo partito, rispunteranno i mazzieri, non importa se in camicia nera, bruna o di altro colore, a tentare di sbarrargli la strada, e verrà fuori un nuovo “governo forte” guidato da qualche nuovo “uomo della provvidenza”. I proletari, quindi, devono prepararsi da subito a questa nuova prospettiva, combattendo con pari determinazione fascisti e democratici, lottando con vigore e fermezza per la distruzione del sistema di sfruttamento che produce fascismo e democrazia: il sistema capitalistico. Potranno però assolvere questo compito solo ponendosi sotto la guida del Partito Comunista Rivoluzionario, di quel partito, cioè, che, forgiato dalla dura e tenace opera di restaurazione della dottrina marxista, abbia smascherato e combattuto senza tregua lo Stato borghese e i suoi reggicoda opportunisti.

 

Note

  1. La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale”, in Prometeo, n.1/1946. Cfr.
  2. la Legge 3-4-1926 n. 563 sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro.
  3. Il fenomeno è internazionale e non solo italiano. Scriveva Trotsky nell‟articolo trovato sulla sua scrivania dopo il suo assassinio a opera di un sicario stalinista: “Nello sviluppo o meglio nella degenerazione delle organizzazioni sindacali moderne nel mondo intero, c‟è una caratteristica comune: la loro connessione con il potere statale e la loro crescita unitamente al potere statale stesso”. L‟articolo di Trotsky, cui fu dato il titolo Il sindacato nell’epoca di decadenza dell’imperialismo, è stato ripetutamente pubblicato in Italia; la sua traduzione più recente è del 1994, in opuscolo dallo stesso titolo per le Edizioni Laboratorio politico,
  4. I fenomeni di razzismo che si verificano qua e là sia in Italia che in Germania non sono storicamente da interpretare come una rinascita in senso stretto del fascismo. Sono fenomeni di patologia sociale, tipici di una fase di decadenza del regime borghese e impotenti di per sé a mutare il quadro politico in atto.