Nazionalismo e internazionalismo nel movimento comunista tedesco

Pubblicato: 2021-02-17 17:52:50

Terza parte

Continuità del nazionalbolscevismo da Weimar al Terzo Reich, e oltre Bolscevismo nazionale, malapianta di ogni clima

Nelle due parti precedenti, abbiamo ricondotto la parabola dei nazionalbolscevichi di Amburgo a una tendenza più generale maturata negli anni cruciali in cui la guerra attiva la dinamica rivoluzionaria prima nell'"arretrata" Russia, poi nel centro dell'Europa capitalistica, la Germania. La dialettica guerra-rivoluzione viene risolta da Lenin nella formula: "trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria"; il che implica l'individuazione di un unico fronte interno che contrappone le classi in una lotta decisiva attraverso i confini d'Europa, senza soluzione di continuità, dagli Urali all'Atlantico. L'alternativa storica tra conservazione del capitalismo e suo superamento rivoluzionario nella società comunista poteva porsi solo in termini internazionalisti e mondiali, mentre ogni altro fronte proposto dalla situazione storica concreta veniva abbandonato qualora entrasse in contraddizione con gli scopi della sola vera guerra in corso, la guerra di classe internazionalista. La sconfitta nella guerra russo-polacca non fu semplicemente militare, ma va ascritta principalmente alla mancata insurrezione del proletariato di Varsavia che negò all'avanzata dell'esercito rosso il suo carattere internazionalista trasformandolo unilateralmente in una manifestazione della secolare contrapposizione nazionale russo-polacca.

Da questa impostazione nacquero la pace di Brest-Litowsk e il giudizio che inizialmente l'Esecutivo dell'IC diede su Versailles: la rapina messa in atto dagli imperialismi vincitori non doveva spostare la prospettiva dallo scontro proletariato internazionale/borghesia a quello tra nazioni oppresse e nazioni dominanti. Quando il gruppo di Amburgo abbracciò apertamente la seconda prospettiva, non fece che completare un percorso che muoveva da premesse operaiste e immediatiste del tutto estranee al marxismo rivoluzionario, e si allineava ad analoghe concezioni che maturavano contemporaneamente nell'ordinovismo italiano, il cui tratto comune stava nell'attribuzione al proletariato di compiti nazionali. Ciò che prospettavano entrambi era una rivoluzione nazionale centrata sulla forza proletaria capace di unificare tutte le forze sane della nazione a partire dall'articolazione della moderna produzione industriale in aziende. In questa visione, l'idea di "comunismo" si deformava, rispetto a quella originaria (abolizione delle classi e dello Stato, progressiva scomparsa delle distinzioni nazionali verso la società di specie), in quella di un "nuovo ordine" basato su comunità nazionali in pacifica convivenza, organizzate sulla base della volontà sovrana dei produttori: il superamento delle contraddizioni di classe era affidato alla “democrazia dei produttori”, garante di una nuova unità nazionale, che escludeva lo sfruttamento del lavoro ad opera di una minoranza privilegiata. L'articolazione istituzionale rifletteva l'articolazione tecnica della produzione. Stato e Nazione non soltanto sopravvivevano alla "rivoluzione" così intesa, ma addirittura ne costituivano l'essenza, la base irrinunciabile.

Sul piano geopolitico, l'impostazione degli amburghesi portava a negare di fatto l'internazionalismo proletario per richiamare l'alleanza internazionale – che solo per equivoco può denominarsi "internazionalista" – tra popoli ribelli all'ordine mondiale imposto dal capitalismo vincitore. Se gli amburghesi svilupparono coerentemente tutti questi motivi e l'ordinovismo si mantenne invece fedele a un formale internazionalismo classista, lo si deve proprio ai contesti "nazionali" dei due movimenti e alle caratteristiche del movimento comunista nei due Paesi. In Italia, l'ordinovismo dovette subordinarsi alla tetragona dottrina marxista della Sinistra, mentre in Germania il movimento ebbe fin dalle origini debolezze teoriche e organizzative che lasciavano spazio a interpretazioni che pretendevano di aderire al marxismo e al "bolscevismo" ma che in realtà ne equivocavano a volte anche grossolanamente i contenuti; a differenza dell'Italia (paese vincitore, dove il nazionalismo poteva nutrirsi al più del mito della "vittoria mutilata"), la situazione della Germania, sconfitta e sottoposta ai diktat di Versailles, riproponeva le condizioni di un "orientamento a est" già appartenente alla tradizione prussiana, ripreso da settori importanti della classe dirigente borghese ed ex-imperiale tedesca. La convinzione ampiamente diffusa che fosse volontà dell'Intesa ridurre la Germania al rango di paese coloniale, smembrato e compromesso nella sua struttura economica, condizionò gli sviluppi politici di Weimar e del movimento comunista tedesco.

A partire dal 1923, risulta evidente che non solo il KPD, ma la stessa IC scivolano su posizioni che sempre più ricalcano quelle degli amburghesi per l'attenzione posta all'aspetto "nazionale" della questione tedesca, tanto che retrospettivamente si potrebbero leggere in una luce diversa ("nazionalbolscevica") sia Rapallo sia i numerosi accordi di collaborazione militare e commerciale tra la Russia bolscevica e la Germania intercorsi fin dal 1920, quando invece si trattava ancora di compromessi necessari alla salvezza della Russia rivoluzionaria e delle prospettive della rivoluzione internazionale. E' solo a partire dal fatidico 1923 che si compie in via definitiva la svolta dell'IC e si conclude l'intero ciclo rivoluzionario iniziato nel '17, con la sconfitta delle forze proletarie. Il punto di svolta si colloca a metà 1923, quando l'IC affianca alla bandiera dell'internazionalismo proletario quella della Nazione tedesca, confondendo le parole d'ordine proprie con quelle del rivoluzionarismo nazionale. Va certamente tenuto in considerazione che, nel marasma del conflitto sociale di quegli anni in Germania, potevano apparire rivoluzionarie concezioni e organismi che retrospettivamente risultano in modo lampante come forze della controrivoluzione, ma che allora venivano viste con simpatia dai nemici dell'ordine borghese e trovavano ampi consensi anche all'interno del proletariato. Proprio per questo sarebbe stato compito del partito di classe chiarire ogni equivoco sulla loro natura, a partire dall'assunto che non è sufficiente essere proletari in base alle statistiche borghesi o dichiararsi tali per esserlo anche politicamenteesattamente all'opposto di quanto sostenuto a suo tempo dal gruppo di Amburgo; così come non è accettabile, in un Paese come la Germania di Weimar, alcuna concessione a prospettive nazionali, anche se – e a maggior ragione se – si accompagnano a dichiarazioni di scelte di campo anti-capitaliste.

Dal momento in cui il KPD dà spazio a una prospettiva nazionale della rivoluzione tedesca – pur con tutti i distinguo e le precisazioni – , il proletario del KPD è legittimato a sentirsi tedesco, francese se militante nel PCF, e così via; il KPD diviene unadelle organizzazioni concorrentivariamente connotate come rivoluzionarie ma in azione sullo stesso terreno, non più il partito della rivoluzione di classe e internazionale senza equivoci e contaminazioni. Da questa svolta, a riprova del venir meno di una contrapposizione sostanziale tra fronti di classe, prendono avvio i numerosi passaggi di campo di militanti KPD verso le formazioni nazionalrivoluzionarie e viceversa, come riflesso delle vicende alterne che caratterizzavano lo scontro politico degli anni di Weimar. La piega "nazionale" presa da KPD e IC, assunta per contrastare l'influenza dei movimenti nazionalrivoluzionari tra le masse, finì per favorirne l'ascesa, ne avvalorò agli occhi del proletariato la natura "rivoluzionaria" e indebolì la connotazione classista e internazionalista del KPD.

La chiave di lettura di Nolte per comprendere Weimar, basata sulla lotta tra i due partiti estremi, comunista e nazionalsocialista, ha il merito di individuare l'origine del fascismo nello scontro tra rivoluzione proletaria e controrivoluzione borghese, e ai fini della corretta impostazione del problema storico poco importa se aderisce alla causa della seconda; ma lo storico non è in grado di leggere nel movimento "comunista" una discontinuità oltre la superficie della continuità simbolica e organizzativa, che anzi viene sottolineata come elemento distintivo del movimento: egli non sa riconoscere che dopo il 1923 la natura dello scontro muta in fascismo contro antifascismo, democrazia contro dittatura, entro uno stesso campo di classe. Il KPD conserva i tratti del partito "proletario" fino alla totale disfatta del 1933, ma la scienza della rivoluzione è trasformata in ideologia, i vecchi simboli fanno ormai parte di un rituale, le battaglie sono espressione di una residua forza inerziale che si indebolisce man mano che si allontana dalla poderosa spinta originaria. Non per questo la lotta di classe, in Germania come in Europa, smette di manifestarsi in forme drammatiche e violente, ma viene meno la prospettiva dello sbocco rivoluzionario verso la società senza classi, non solo e non tanto per le condizioni obiettive di una "relativa stabilizzazione" del capitalismo, ma per lo scardinamento dei principi fondanti del movimento comunista internazionale ad opera dello stalinismo, accompagnato dall'eliminazione fisica dei suoi militanti migliori. Le energie proletarie si spendono non più in vista della rivoluzione internazionale, ma della difesa dalla reazione fascista, e dell'URSS quale "Patria del socialismo". Così facendo il KPD applica uno schema nazionalbolscevico di alleanza russo-tedesca, facendo del proletariato tedesco uno strumento della politica estera sovietica.

Si farebbe tuttavia un grave torto ai militanti comunisti tedeschi se non si riconoscesse loro, per tutto il periodo di Weimar, una straordinaria dedizione alla causa rivoluzionaria nonostante gli sbandamenti tattici dei gruppi dirigenti e il loro assoggettamento alla direzione staliniana. Fino alla sconfitta del 1933 continuò un'attività di agit-prop in molteplici forme (scuole di marxismo, gruppi teatrali di strada, spettacoli musicali, ecc..) che si richiamavano costantemente a genuini contenuti di classe e alla luce che continuava ad irradiarsi dal '17 russo (1). Allo stesso modo, il proletariato continuò a praticare azioni di sciopero e forme di protesta, insubordinazione, boicottaggio, assenteismo, che si protrassero fin negli anni del regime nazista, specie a ridosso della guerra (1937-38), quando il programma di riarmo e il rafforzamento dell'esercito comportò, con la scarsità di manodopera, l'aumento del potere contrattuale operaio e dei salari. Stato e padronato reagirono inasprendo i provvedimenti repressivi nelle fabbriche, creando una sorta di polizia di fabbrica (Werkschutz) e coinvolgendo la Gestapo. Ma soltanto la guerra, l'arruolamento degli operai nelle forze armate e le deportazioni forzate di manodopera straniera ebbero la meglio sulla resistenza del proletariato tedesco alla sua nazionalizzazione (2).

 

Gli eredi tedeschi del gruppo di Amburgo

Dal momento in cui lo stalinismo trasforma il partito russo in una forza nazionale che subordina a sé ciò che resta delle frazioni dell'IC, e l'IC stessa è ridotta a strumento del nascente capitalismo russo e della sua politica estera (3), si realizza la visione del teorico del nazionalbolscevico tedesco Niekisch che interpretava l'Ottobre rosso come una rivoluzione nazionale (4). Dal 1925, con il trionfo delle tesi staliniane nel PCR e nell'IC, il nazionalbolscevismo si afferma entro i partiti comunisti nel quadro di una loro subordinazione agli interessi nazionali russi; fuori di essi, si manifesta in movimenti di stampo corporativo inizialmente interni ai fascismi, in alcuni casi in rottura con essi. Proprio in quanto espressione di un "comunismo nazionale" variamente definito, il nazionalbolscevismo in senso ampio è difficilmente identificabile in una corrente unitaria, e assume forme specifiche in Germania e negli altri paesi (5).

a) Nel KPD

Una forte continuità nazionalbolscevica si ritrova anche all'interno del KPD, ma la svolta staliniana riduce le sue successive aperte manifestazioni a espedienti tattici finalizzati a "conquistare le masse"Dal '23 all'affermazione nazionalsocialista, il KPD si pone in concorrenza con le diverse varianti dei nazionalrivoluzionari volkisch (populisti) sul terreno della "lotta di popolo", contro i piani Dawes e Young (6), rafforzando in alcune fasi l'accento sulla questione nazionale tedesca. Nel 1930, esce un documento KPD dai toni apertamente nazionalbolscevichi, più nazionalrivoluzionario degli stessi concorrenti nazisti:

"Noi dichiariamo solennemente davanti a tutti i popoli della terra..., che noi nel caso in cui prenderemo il potere dichiareremo nulli e senza valore tutti gli obblighi che risultano dalla pace di Versailles, che noi non pagheremo nemmeno un centesimo di interessi per i prestiti, i crediti, gli investimenti imperialistici del capitale in Germania... Noi comunisti difenderemo e lotteremo per il pieno diritto di autodeterminazione delle nazioni e in accordo con gli operai rivoluzionari della Francia, dell'Inghilterra, della Polonia, dell'Italia, della Cecoslovacchia ecc... assicureremo la possibilità dell'unione con la Germania sovietica a quelle regioni tedesche che dimostrino di desiderarlo" (7).

Il tentativo del KPD di intervenire nella divisione interna al NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei) tra "bavaresi" hitleriani e "socialisti prussiani" comportava l'apertura del partito a elementi che nulla avevano a che vedere con la sua tradizione classista. La frattura fra i due gruppi nazionalrivoluzionari venne a maturazione dal momento in cui si risolse ogni possibile dubbio sulla natura del NSDAP hitleriano.

Nell'ottobre 1931 si svolse la riunione del "fronte di Harzburg" con tedesco nazionali e NSDAP, DVP, Reichslandbundes e Partito dell'economia, dopo la quale "nessuno poteva più pensare che il nazionalsocialismo fosse un partito anticapitalista di sinistra", dato che vi erano presenti esponenti della vecchia Germania imperiale e della grande industria e finanza (8).

Ampi settori degli industriali rimanevano diffidenti nei confronti di Hitler, ma con un discorso del gennaio 1932 questi, di fronte al club degli industriali di Dusseldorf, gettò l'equivoca maschera "socialista", tanto che Nolte si sorprende che il testo del discorso non fosse stato secretato, ma diffuso in centomila esemplari. Vi si leggeva di concorrenza e ambizione individuale contro egualitarismo e democrazia, della necessità di salvaguardare il primato dell'uomo bianco europeo, della coesione dei popoli bianchi contro le minacce provenienti segnatamente dal bolscevismo asiatico.

Si mantenevano ancora incerti sul giudizio soltanto i gruppi della destra tradizionalista e i comandi della Reichswehr, per i quali il nazionalsocialismo poteva essere ancora "l'ultima stazione della masse prima del comunismo", o si collocava in una situazione di equilibrio tra una possibile svolta moderata grazie alla guida hitleriana e uno scivolamento verso l'azione rivoluzionaria che l'avrebbe portato a legarsi al comunismo (9).

Lo storico Daniel Guérin richiama a questo proposito il precedente storico dell'ascesa di Luigi Napoleone in Francia: "Il 2 dicembre 1851 la borghesia francese ha permesso, nello stesso modo, ai partigiani plebei di Luigi Bonaparte di 'sopprimere e annientare' il suo antico personale politico"  (nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx aveva scritto: "La Corte, i ministeri, i supremi gradi dell'amministrazione e dell'esercito sono invasi da una banda di avventurieri, del migliore dei quali si può dire che non si sa da dove venga:... una plebe impaziente, affamata, avida di saccheggio...")"La borghesia – continua Guérin – si rassegna a questa invasione perché, grazie all'appoggio dei plebei, riesce ad assicurarsi quel 'governo forte e assoluto' di cui ha bisogno per garantire i propri profitti. Ingannato dalle apparenze, scambiando questa sostituzione di una 'classe politica' con un'altra per una autentica rivoluzione, l'ingenuo Guizot scriveva: 'E' il trionfo completo e definitivo del socialismo'" (10).

Allo stesso modo, la miopia di alcuni settori della borghesia tedesca e dei vertici militari, o più probabilmente il timore della vecchia classe dirigente di essere scalzata dalla fame di potere dei nuovi arrivati, li facevano ancora dubitare di un pericolo "bolscevico" insito nel nazionalismo plebeo, timore supportato dalla contemporanea politica del KPD volta a conquistare settori nazionalrivoluzionari.

 

Ovviamente, borghesia e classe dirigente consideravano i comunisti molto più pericolosi della destra radicale. L'organizzazione comunista era più vecchia e consolidata, incontrava simpatie nelle sinistre SPD e attirava nelle sue file militanti e simpatizzanti. Nel processo contro un gruppo di ufficiali Reichswehr accusato di trescare con i nazisti (1931), Scheringer, il più alto in grado tra loro, motivò così la sua conversione al comunismo: "Essi [i capi del nazionalsocialismo] si sono staccati nel corso degli ultimi mesi dal socialismo... Essi non hanno torto un capello a nessun capitalista, ma hanno organizzato il terrore contro il proletariato... Essi hanno impedito l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni. Essi si sono messi d'accordo con i generali capi... Soltanto alleati con l'Unione sovietica noi possiamo diventare liberi in Germania dopo l'annientamento del sistema capitalistico... Perciò mi distacco definitivamente da Hitler e dal fascismo e mi inquadro come soldato nel fronte del proletariato armato... " (11).

I comandi Reichswehr consideravano questi ufficiali come elementi di sinistra che avevano aderito al programma SPD mirante al legame tra Reichswehr e "popolo", e il processo avvalorava la loro ipotesi che Mosca lavorasse ad una disgregazione della Reichswehr attraverso il nazionalsocialismo, valutato come un fenomeno transitorio, "una semplice 'manifestazione febbrile'" (12).

 

La propaganza KPD nel 1930 era indirizzata più alla sinistra NSDAP che alla sinistra SPD, contro la quale si agitava allora la teoria del "socialfascismo". Nel 1932, durante il governo di Von Schleicher, grandi parti della sinistra SPD e NSDAP passarono al KPD, e diversi gruppi nazionalbolscevichi sostennero Thalmann alle elezioni per la presidenza del Reich. Ma per quanto in apparenza la politica KPD registrasse dei successi nell'avvicinare militanti di organizzazioni nazionaliste, si trattava pur sempre di risultati poco significativi in rapporto al contemporaneo rafforzamento della destra estrema in ampi settori del proletariato. In quanto formalmente membro del Comintern, il KPD non era legittimato a parlare a nome del Volk al pari delle forze nazionalrivoluzionarie, e dunque sempre, su quel terreno, conobbe solo successi effimeri. Le destre radicali accusavano il KPD di usare le parole d'ordine nazionali per mera utilità tattica. Risultava facile per gli avversari sostenere che la parola d'ordine nazionale era per il KPD espressione di interessi altrettanto "nazionali", non tedeschi, ma russi, essendo ormai il KPD una emanazione della politica sovietica che utilizzava a sua volta il feticcio dell'internazionalismo proletario per i suoi scopi. La tattica KPD ottenne qualche successo essenzialmente nella cerchia dei militanti nazionalrivoluzionari che si distaccarono da Hitler, ma esercitò scarsa influenza sulle masse, tra le quali invece "Il populismo operaista di Hitler diede i suoi frutti: nelle elezioni del 1932 interi distretti 'rossi' come Chemnitz e Zwickau votarono a maggioranza NSDAP (16 milioni di voti allo NSDAP, e ai Tedesco nazionali, oltre 5 al KPD, tutti gli altri 15 milioni); grandi formazioni SA avevano a capo elementi operai. Il carisma di Hilter contiene con efficacia gli sforzi di Otto Strasser di accentuare il carattere 'socialista' del partito con la creazione della 'Comunità di lotta dei nazionalsocialisti rivoluzionari'” (13).

L'esito fallimentare della linea nazionalbolscevica del KPD era contenuto in origine nella svolta del 1923, e trovò conferma nel comportamento di vasti settori di proletariato e piccola borghesia anche dopo la presa del potere nazista. Il nazismo aveva saputo accogliere e utilizzare abilmente le aspettative sociali di questi settori che, salito al potere Hitler, cominciarono a premere e mobilitarsi per una "seconda rivoluzione" che avrebbe dovuto realizzare gli scopi "anticapitalisti" del movimento. Così si espresse un membro delle SA in una riunione popolare: "La nostra rivoluzione... è appena all'inizio, noi non abbiamo ancora raggiunto nessuno dei nostri obbiettivi. Si parla di governo nazionale, di risveglio nazionale... Ma di che cosa si tratta esattamente? Quello che ci importa è l'aspetto socialista del nostro programma... Noi dobbiamo ora sbaragliare soltanto un nemico: la borghesia" (14).

La reazione del  regime hitleriano a questi tentativi fu durissima e, contando sull'avallo della Reichswehr, fu stroncata con una feroce faida interna ogni residua illusione sui reali contenuti del nuovo potere. Nel 1936 all'esercito viene definitivamente assegnato l'incarico di intervenire con le armi in presenza di tumulti politicida qualunque parte provengano. Da quel momento – come a suo tempo fece la socialdemocrazia contro la rivoluzione del 1919-23 – il nazionalsocialismo affida all'esercito il compito di mantenere l'ordine, si fonde progressivamente con lo Stato che a sua volta “si fascistizza" in nome della ritrovata stabilità. Giungeva così al suo definitivo compimento la sconfitta materiale del proletariato tedesco, anche di quei militanti operai che erano confluiti negli ultimi tempi nelle milizie plebee e nelle cellule di fabbrica naziste, nell'illusione di trovarvi lo strumento per proseguire la lotta di classe. A rendere possibile questo tragico inganno aveva contribuito nel tempo anche il progressivo scivolamento del KPD da posizioni possibiliste in termini di "rivoluzione nazionale" fino al pieno assoggettamento alla controrivoluzione staliniana.

 

b) Percorsi emblematici: Otto Strasser e Ernst Niekisch

All'inizio degli anni Trenta, la NSDAP esercita un'influenza crescente proprio su quei settori di classe – senza riserve, disoccupati e operai non qualificati – che a suo tempo erano stati individuati da Karl Liebknecht come quelli sui quali doveva poggiarsi l'attività di Spartaco. Se si considera che nel 1928 il KPD contava tra i suoi militanti ben il 50% di operai specializzati e solo il 28% di non specializzati (cfr. G.Buonfino, cit.), si può dedurre che il partito non riusciva ad avvicinare proprio il settore di proletariato industriale più moderno, quello formatosi con la ristrutturazione e concentrazione industriale bellica e che si era reso protagonista di lotte straordinarie come quelle della Leuna, nel 1921. La NSDAP lavorava invece con successo su questo terreno dando contenuti fortemente sociali alla battaglia politica, anche se al prezzo di rafforzare al suo interno una corrente "anticapitalista" che solo l'indiscussa leadership del "Führer" riuscì a contenere e controllare prima della presa del potere. I capi di questa componente "plebea" erano spesso ex SPD o ex USPD, formatisi politicamente entro le file della socialdemocrazia tedesca, figli di Lassalle e del tradimento del 1914.

 

La componente dello NSDAP più prossima al nazionalbolscevismo è quella dei fratelli Gregor e Otto Strasser. Essa sviluppa un proprio programma anticapitalista (15) che contiene tratti autenticamente reazionari, ma esprime simpatia nei confronti del bolscevismo e ammirazione nei confronti dei suoi capi, è particolarmente forte nel Nord e a Berlino, e attua in alcune circostanze iniziative in comune con lo stesso KPD. E' in effetti questa la componente che giustifica la persistente diffidenza della Reichswehr nei confronti dell'insieme del movimento nazista, nel quale Hitler viene visto come un moderato. La corrente contende a tutti gli effetti la leadership della NSDAP a Hitler e si propone come alternativa dichiaratamente socialista all'impianto ideologico a sfondo razziale che aveva il suo centro in Baviera (16). Gregor Strasser ne è l'organizzatore, il fratello Otto il teorico. La vicenda politica di quest'ultimo è emblematica: partecipa alla guerra come volontario, prima della smobilitazione combatte nelle file dei corpi franchi contro la repubblica sovietica di Baviera nel 1919 e un anno dopo guida la resistenza di tre centurie proletarie in un quartiere di Berlino in occasione del putsch di Kapp. Nello stesso anno (1920) aderisce alla SPD, ma ben presto l'abbandona per protesta contro il mancato rispetto degli accordi di Bielefeld che avevano disarmato gli operai e posto fine alla sollevazione della Ruhr in cambio di vaghe promesse. A fine anno, partecipa al congresso USPD che prepara la fusione col KPD, dove incontra Zinovev. La sua adesione al NSDAP data al 1925 e avviene su sollecitazione del fratello Gregor, al quale Hitler aveva affidato la riorganizzazione del partito al Nord dopo il mancato putsch del 1923. E' sotto la sua direzione che i distretti settentrionali NSDAP assumeranno caratteri propri e in larga misura autonomi rispetto a Monaco, influenzati dalle tesi di Otto e per un certo periodo dello stesso Goebbels. Al Congresso di Bamberga del 1926, gli Strasser cercano senza successo di spingere Hitler ad assumere una posizione politica ostile ai capitalisti.

Il percorso di Otto Strasser è solo apparentemente incoerente: l'iniziale appartenenza alla socialdemocrazia non significava, per lui come per la maggioranza dei quadri SPD, adesione al marxismo. Da socialdemocratico e patriota approva l'union sacrée e va in guerra dove si distingue per eroismo; lo stesso spirito patriottico che lo porta a marciare contro la Repubblica dei Consigli di Monaco lo anima nella resistenza a Kapp: da buon socialdemocratico combatte tanto la reazione quanto la rivoluzione. Abbandona la SPD "da sinistra" perché ne verifica il tradimento ai danni degli operai tedeschi della Ruhr. Si avvicina all'USPD e ipotizziamo che poco ci mancava che aderisse alla VKPD, se solo questo partito fosse stato già allora abbastanza "nazionale".Dopo un'esperienza nel Juni Club di Moeller van der Bruck, un circolo anti-liberale, sostenitore del confronto tra comunisti russi e nazionalisti tedeschi, fautore dei diritti dei "popoli giovani", alla fine aderisce alla NSDAP perché più vicina alla sua visione di una rivoluzione nazionale socialista: quella stessa che la SPD covava al suo interno fin dai tempi di Lassalle ma che aveva abbandonato convertendosi alla democrazia occidentale. Nella figura di Otto Strasser si riconosce che il tipo del nazionalsocialista di sinistra si modella sul tipo del socialdemocratico conseguente. Anche in questi percorsi, la tappa del 1920 è decisiva, perché è in quel frangente che la SPD, per timore della rivoluzione proletaria, rinuncia a guidare la spontanea sollevazione operaia che avrebbe potuto spostare gli equilibri di Weimar verso forme democratiche più compiute, meno condizionate dai poteri forti della Reichswehr e delle vecchie classi dirigenti, e affida ancora una volta alla stessa Reichswehr e ai corpi franchi il compito della repressione.

La “tendenza Strasser” è favorevole all'adesione del NSDAP (in quanto “partito socialista”) all'iniziativa popolare contro il risarcimento ai principi tedeschi deposti nel 1918 sostenuta da KPD e SPD. Nel1926, Hitler impone una linea diversa che propone di espropriare i magnati della finanza di origine straniera, a beneficio di disoccupati e tedeschi bisognosi. La divaricazione tra la tendenza nazional-razziale filoborghese di Hitler e quella socialnazionale porterà alla fuoriuscita di Otto Strasser dalla NSDAP nel 1930, con la dichiarazione "I socialisti lasciano la NSDAP". Nello stesso anno fonda la KGRNS (Comunità di lotta nazional-socialista rivoluzionaria) che ben presto entra in crisi per defezioni importanti sia verso il KPD, al tempo dell'ultranazionalista "Programma per la liberazione nazionale del popolo tedesco ", sia verso lo stesso NSDAP che mieteva nel frattempo clamorosi successi elettorali. Strasser tenta di rafforzare il gruppo legandosi alle SA della Germania settentrionale in rotta con Hitler, a movimenti contadini e ad altri gruppi paramilitari nel cosiddetto Fronte Nero. Nei documenti di fondazione di questi organismi, si delinea una coerente ideologia pantedesca, di opposizione a Versailles e di alleanza con l'URSS e con tutte le nazioni oppresse dall'imperialismo occidentale. Non mancano venature di antisemitismo, ma con una valenza secondaria rispetto all'ideologia hitleriana. In seguito alla repressione che colpì la KGRNS dopo il '33 e all'esilio dei suoi dirigenti, Otto Strasser cercò anche l'appoggio delle potenze occidentali per sviluppare un'opposizione al nazismo, prefigurando in tal modo lo schieramento dell'alleanza antifascista della futura guerra mondiale.

Gregor Strasser rimase invece nella NSDAP dove, assieme a Rohm, continuò a rappresentare l'ala sinistra. Prima dell'ascesa di Hitler al cancellierato, rifiutò di diventare ministro dell'economia nel governo von Schleicher per non tradire Hitler; ma questo non gli evitò di essere tra le vittime più illustri della "notte dei lunghi coltelli" del 1934.

La singolare ideologia elaborata da Otto Strasser (17) si fonda su un preteso superamento della visione classista e internazionalista del marxismo; questa sarebbe stata valida per l'epoca del capitalismo della concorrenza, mentre nell'epoca nuova – quella che noi chiamiamo imperialista – le strutture spirituali, economiche e sociali sarebbero evolute verso il socialismo nazionale. E' come dire, con una terminologia nostra, che il passaggio alla fase imperialista comporta il consolidamento di potenze statali a base nazionale caratterizzate da forte concentrazione industriale e finanziaria; nella visione di Strasser, questa concentrazione costituisce la base economica che consente di accentrare nello Stato le leve dell'economia per dirigerla verso obiettivi sociali; tale passaggio creerebbe le condizioni per la "Costruzione del socialismo tedesco" (è il titolo di un testo di Otto Strasser del 1932), il quale assume caratteri peculiari in virtù del suo essere "nazionale" e dell'”identità spirituale” del popolo tedesco. Se per gli amburghesi si trattava di costruire lo Stato a partire dalla centralità della classe operaia nella nuova struttura produttiva socializzata, cioè di definire una forma istituzionale corrispondente al nuovo assetto, per Strasser si tratta di "ri-creare le forme appropriate alla natura del popolo(18) recuperando la tradizione: reintroduzione dei rapporti feudali, al posto dell'alternativa tra proprietà privata e completa socializzazione, e della rappresentanza per Stati (Stande) in una Camera delle Categorie e delle Corporazioniil programma sociale comprende la deindustrializzazione, il ritorno alla campagna, la centralità della figura del contadino nelle sue varianti di contadino-soldato, contadino-operaio, contadino-intellettuale, la riduzione dei consumi, una semi-autarchia, e via dicendo. Insomma, una moderna Arcadia. Le differenze con gli amburghesi in questo sono evidenti: l'ideologia di Wolffheim e Laufenberg è marcatamente produttivistica, mentre Strasser vuole deindustrializzare (quanti moderni fautori di un ritorno alla natura o della "decrescita" si entusiasmerebbero, trovando in lui un precursore!). Si tratta in entrambi i casi di modelli istituzionali e sociali che, a dispetto di una pretesa maggiore "concretezza" a confronto con la trasformazione epocale prospettata dal marxismo rivoluzionario, costituiscono altrettante utopiepiù inquietanti che affascinantinel primo caso, uno Stato articolato sulla base sull'organizzazione tecnica della produzione e finalizzato alla produzione; nel secondo, un forzato ritorno a forme precapitalistiche, una forzata rinuncia alla tecnica e alle sue potenzialità liberatrici, in nome di un ritorno alla vita rurale.

Altrettanto significativo è il percorso di Ernst Niekisch. Entrambi, Niekisch e Strasser, sono figli genuini della SPD, entrambi sono "Linke Leute von rechts", "sinistri" di destra – e di destra estrema – o viceversa, indifferentemente, tanto che sono i primi a rivendicare l'affinità di fondo tra opposti estremismi, al di là delle divisioni ideologiche. La figura di Niekisch non si identificò in particolari organizzazioni politiche, ma attraverso attività pubblicistiche e culturali su tutto il vasto fronte della cosiddetta "rivoluzione conservatrice" – che spaziava dall'estrema sinistra all'estrema destra – esercitò un'influenza più vasta. Di famiglia operaia, riesce a laurearsi in magistero e lavora come insegnante; entra nella SPD a 28 anni, nei giorni della Rivoluzione d'ottobre. Nel partito è osteggiato, proprio perché ammiratore del bolscevismo russo letto in chiave di "rivoluzione nazionale". Nel '19 partecipa al movimento consigliare come presidente del Consiglio degli Operai, dei Contadini e dei Soldati di Monaco. E' l'unico membro del comitato centrale a votare contro la proclamazione della Repubblica sovietica di Baviera, perché giudica il carattere rurale e arretrato del Land inadatto a sviluppare positivamente l'esperienza (annotiamo che la Repubblica cadrà per l'intervento dei freikorps nei quali militava anche Otto Strasser, in quel frangente nell'opposto schieramento nonostante le molte affinità politiche con Niekisch). Poco prima di essere arrestato, Niekisch entra nell'USPD. Scontati due anni di prigionia, nel 1921 si ritrova nella SPD in virtù della riunificazione con la componente degli "indipendenti" che non era confluita nel neonato VKPD. L'adesione al VKPD non era in discussione, visti gli esiti della disastrosa "azione di marzo" che ne aveva messo in luce i limiti politici e organizzativi. Nella SPD, Niekisch fa invece opera critica contro Versailles, contro l'occupazione della Ruhr nel 1923 e contro il piano Dawes, finché nel 1925 esce dal partito anticipando una probabile espulsione. Da quel momento, la sua attività si esplica soprattutto attraverso pubblicazioni, in particolare con la rivista Widerstand (Resistenza), attorno alla quale si formano circoli politici che raccolgono alcune migliaia di simpatizzanti. Gli assi portanti della sua concezione sono: la lotta contro Versailles e i vari piani di "riparazioni"; la riunificazione del popolo tedesco attraverso la riscoperta delle genuine tradizioni germaniche; l'alleanza con la Russia rivoluzionaria nella comune lotta contro le potenze occidentali; l'idea, maturata sotto l'influenza del pensiero di Carl Schmitt, di uno Stato forte che subordini l'economia agli interessi della Nazione e il rifiuto delle forme democratiche; l'anticapitalismo che, come in Otto Strasser, si coniuga con una prospettiva autarchica, la riduzione dei consumi e il ritorno a modi di esistenza più sobri.

Nella visione di Niekisch, il marxismo, in quanto internazionalista e materialista, centrato sull'analisi della struttura economica, sarebbe in qualche modo speculare all'ideologia liberista borghese, e il proletario in questa prospettiva ambirebbe solo a emanciparsi dal punto di vista economico, a realizzarsi cioè come "borghese", poco importa se attraverso una rivoluzione violenta o attraverso il riformismo socialdemocratico. Mancherebbe al marxismo il lato "spirituale", quello che solo può assegnare un diverso valore all'alternativa sociale al capitalismo, che non può essere che "nazionale". Nell'idea di "nazione" vive lo spirito del popolo, si realizza hegelianamente la sua missione storica, e via dicendo. Siamo lontanissimi dal marxismo, di cui Niekisch accoglie, probabilmente con sincera adesione, solo l'aspetto della denuncia dei mali del capitalismo. Qui risiede la ragione fondamentale della sua presa di distanza – nettissima – da Hitler, il quale, da politico "pratico" che Niekisch non era, persegue la conquista del potere con un'opera di propaganda tra le masse che fa leva su tutti i motivi in grado di generare consenso (non da ultimo tra i "proletari"), rivelando solo a tempo debito la sua organicità al capitalismo finanziario e industriale. Se giudicava Hitler alla stregua di un volgare demagogo, Niekisch riusciva a essere contemporaneamente ammiratore di Mussolini e di Lenin. Incontrò il primo nel 1935, durante una visita a Roma, e quando il duce gli chiese le ragioni della sua opposizione a Hitler, rispose: "Faccio mie le vostre parole sui popoli proletari". Intendeva che, a suo giudizio, Hitler aveva tradito la loro causa, ponendosi dalla parte degli sfruttatori. E il Benito replicò (lo immaginiamo in posa da rivoluzionario con gli stivaloni, ben accetto a sovrani e papi): "E' quanto dico sempre a Hitler". Il povero Niekisch, in mezzo a una tal banda di marpioni, avrebbe pagato a caro prezzo la sua coerenza "rivoluzionaria", votata alla sconfitta per la sua natura idealista e antistorica che condanna tutte le "terze vie" tra rivoluzione proletaria e conservazione borghese come inevitabilmente piegate agli interessi di quest'ultima.

Quanto a Lenin, Niekisch lo considera un rivoluzionario nazionale, e il leninismo come "ciò che rimane del marxismo quando un uomo di Stato geniale lo utilizza per finalità di politica nazionale" (cfr. Quadrado Costa, cit.). Un giudizio che si fonda su frasi decontestualizzate, come se le mille e più pagine che Lenin ha dedicato a sostenere l'internazionalismo proletario nel significato marxista del termine non avessero alcun peso. "Fate della causa del popolo la causa della Nazione e la causa della Nazione diventerà la causa del popolo", è la citazione di Lenin (che per altro non siamo riusciti a rintracciare in alcun testo) spesso ripresa  da Niekisch a fondamento della sua interpretazione della politica del capo bolscevico.

E' appena il caso di annotare che, nello scontro tra stalinismo e opposizione in URSS, Niekisch prese nettamente le parti del nazionalista Stalin contro l'internazionalista Trotsky, visto come rappresentante delle "forze occidentali" e della loro opera corruttrice delle nazioni e dei popoli – curioso, per il massimo esponente dei nazionalbolscevichi tedeschi, considerati i "trotskisti del Movimento Nazionale". Dopo la prigionia nelle galere hitleriane e la guerra, Niekisch viene accolto a braccia aperte nella RDT come antifascista e stalinista, diviene membro della SED e viene eletto al Congresso del Popolo, dove si fa portavoce, coerentemente coi suoi trascorsi ideologici, di una "via tedesca al socialismo". Comincerà a essere boicottato solo quando, resosi conto che l'unica via che la Germania Est percorreva era quella della subordinazione agli interessi sovietici, prende a esprimere critiche al sistema. Nel 1952, gli accademici marxisti scoprono improvvisamente che Niekisch "non è un marxista", e dopo la rivolta operaia di Berlino, che egli giudica legittima, Niekisch trascorre gli ultimi anni a Berlino Ovest, anche qui boicottato in quanto ex membro di una "setta nazionalsocialista" ed ex politico della RDT.

L'esito della vicenda personale di Niekisch, scaricato dai nazionalcomunisti della DDR per conto dei nazionalcomunisti russi, è emblematica dell'irrisolvibile contraddizione del nazionalbolscevismo: le sue varianti nazionali possono entrare tra loro in conflitto quando non vi sia un comune nemico (l'Entente o chi per essa) a indurne l'affratellamento. Non vi è nessuna garanzia di "fratellanza" tra popoli, quando ciascuno di essi si organizza su base nazionale a salvaguardia della propria identità, per quanto ciò avvenga su una ideale base "comunitaria". A ogni identità nazionale corrisponde un capitalismo nazionale, dunque distinte basi economiche e strutture sociali, specifici interessi, differente forza economica e di riflesso militare, motivi che fanno di ogni alleanza il risultato di temporanee convergenze e rapporti di forza reciproci, e di ogni integrazione il prodotto della forza messa in campo. Nell'ottica della difesa del capitalismo dalla minaccia proletaria, Hitler aveva anche su questo problema una visione realistica quando puntava alla conquista militare delle immense risorse russe per l'industria del Reich e all'integrazione dell'Est come risultato di un atto di forza; un'integrazione economica sulla base di un'alleanza paritaria russo-tedesca, come quella sostenuta da Niekisch, avrebbe posto le condizioni per un successivo scontro tra le due potenze per il predominio continentale.

 

Le "terze vie" della controrivoluzione

La tendenza nazionalcomunista fu sconfitta con azioni militari (omicidi, sparizioni, la "notte dei lunghi coltelli"), ma fu prima ancora sul terreno politico e ideologico non all'altezza dei camerati- avversari. Il suo equivoco rapporto con il bolscevismo e la sua connotazione marcatamente anticapitalista la rendeva sgradita al grande capitale industrial-finanziario che ormai appoggiava apertamente i progetti hitleriani; il nazionalismo non poteva costituire di per sé un tratto distintivo, dato che apparteneva a tutte le formazioni politiche di Weimar, compreso il KPD; in tal modo, la sua forza di attrazione si disperdeva ed in effetti il nazionalcomunismo non fu mai un movimento unitario, ma un "sentimento" politico largamente diffuso; la stessa eliminazione manu militari dei vertici delle SA di Rohm fu evidentemente frutto di inferiorità rispetto alla macchina da guerra hitleriana, che oltretutto nel momento decisivo si appoggiò, più che sulla propria forza, sul tacito appoggio della Reichswehr. Alla fine, risulta vincente il fattore che unisce la chiara identificabilità e radicalità del messaggio politico alla perfetta funzionalità dell'organizzazione alla conquista del potere e, una volta raggiunto lo scopo, alla capacità di stringere un legame organico con gli apparati forti dello Stato.

Il significato del "fascismo" come movimento storico si riassume per noi nel "metodo di stretta organizzazione di classe della borghesia, che al tempo stesso dirompe il movimento operaio e impone date autolimitazioni, con cui, a fini appunto di classe, tenta frenare entro dati limiti l'impulso di ogni singolo capitalista e ogni singola azienda verso il suo isolato vantaggio" ("Profeti dell'economia demente", Battaglia comunista, 21/1950). In questa lettura, i nazionalbolscevichi tedeschi furono "fascisti" a tutti gli effetti, ma equivocavano il significato politico della limitazione posta all'impresa privata come anticapitalismo, non come mezzo per salvaguardare il capitalismo dalla rovina, frenandone gli impulsi distruttivi. Nell'ambito del fascismo, moderno prodotto della fase imperialista del capitalismo, il nazionalbolscevismo nelle sue varianti ideologiche rimase ancorato con forza alla tradizione ed espresse il tentativo di stabilizzare le forme economiche e sociali per esorcizzare l'aspetto distruttivo del capitalismo (la "distruzione creatrice" di Schumpeter). Uno dei massimi esponenti della "Rivoluzione conservatrice", Ernst Junger, delinea per questo fine una metafisica dell'operaio come prefigurazione del tipo dominante dell'avvenire; le turbolenze del presente sarebbero il frutto di una fase di transizione dalle vecchie forme della Tradizione abbattute dalla Rivoluzione francese alle nuove forme prodotte dal dominio della tecnica (19). L'anticapitalismo delle mezze classi nasce della paura della potenza del capitalismo, distruttore di ogni certezza su un raggiunto status sociale, entro un sistema ordinato e stabile, e artefice della tremenda proletarizzazione di massa che imperversò negli anni di Weimar. Di qui il richiamo alla tradizione della società articolata in “ordini”, e se proprio le trasformazioni nel frattempo intercorse con la "rivoluzione mondiale" della tecnica rendono impossibile un ritorno all'ordine antico, si prefigura un “nuovo ordine” che pone al centro la figura dell'”operaio”, una nuova razza capace di dominare la “tecnica” che segna la modernità, orientandone la potenza alla creazione e infrenandone la capacità distruttiva. La metafisica dell'operaio di Junger rivela significative affinità con la prospettiva dello Stato operaio del gruppo di Amburgo e dell'ordinovismo italiano. In Junger, la creazione di nuove forme segue all'affermazione di una nuova "razza" dominatrice che risolve la dicotomia tipica dell'universo borghese tra individuo (irripetibile e unico) e masse, in cui l'individualità si dissolve e scompare.

Come in Wolffheim-Laufenberg e in Gramsci, il “nuovo ordine” nascerà da "misure di carattere totale, di cui può essere capace soltanto lo Stato, il quale si sostituirà alla democrazia liberale e totale. Lo Junger chiama democrazia del lavoro(Arbeitsdemokratie) o Stato del lavoro (Arbeitstaat) il nuovo tipo di unità politica, nel quale si dovrebbe ravvisare la forma che da un lato concluderà la fase sovvertitrice, rivoluzionaria e dinamica, dall'altro preparerà quella statica e positiva della sovranità universale dell'operaio". Se in Junger "La costruzione organica dello Stato [...] verrà determinata dalla metafisica del mondo dell'operaio", così in Gramsci-Wolffheim-Laufenberg il nuovo Stato sarà espressione dell'operaio che in quanto tale, nella loro visione, è di per sé un "tipo" connotato politicamente, e si articolerà sulle forme della rappresentanza operaia nella struttura produttiva; si è visto come lo stesso Junger accenni a una rappresentanza parlamentare modellata in senso tecnico-corporativo. Come gli amburghesi non pensavano a una conquista violenta del potere – dato che il nuovo assetto della produzione e della rappresentanza operaia avrebbe di per sé imposto la sua forza alla forma politica – , così anche per Junger "il nuovo stile sarà di per se stesso rivoluzionario e rappresenterà una potenza", rendendo dunque superfluo un ricorso su vasta scala alla violenza rivoluzionaria (20).

 

La tendenza che possiamo genericamente definire "operaista" unifica dunque posizioni apparentemente assai lontane. All'interno della "rivoluzione conservatrice" troviamo perfino un'anticipazione della contrapposizione masse-capi che fu caratteristica delle tesi del KAPD, nella forma di contrapposizione tra   operai riformisti e intellettuali rivoluzionari. August Winning, fabbro artigiano membro della SPD, è il tipico rappresentante di un anticapitalismo maturato nella reazione alla dissoluzione della produzione individuale che procede con l'avanzare della concentrazione capitalistica. Per lui, la socialdemocrazia tedesca era stata conquistata da una "marmaglia di letterati", per lo più ebrei, che avevano imposto al partito pre-1914 una connotazione rivoluzionaria, contro la maggioranza dei lavoratori socialdemocratici di tendenze riformiste. La contrapposizione di “tedeschi contro ebrei, operai contro intellettuali, riformisti contro rivoluzionari, nazionalisti contro internazionalisti” anticipa quella kaapedista e amburghese delle “masse contro i capi”; questa semplicemente opera un ribaltamento, un'interpretazione opposta ma speculare, per cui le masse sarebbero naturalmente rivoluzionarie e i capi naturalmente riformisti (oltre che spesso “ebrei”, come nel caso di Paul Levi). Winnig – esponente della corrente sindacale della SPD come amburghesi e kaapedisti furono "sindacalisti" nel movimento comunista – attribuisce invece ai "capi" come Rosa Luxemburg e Karl Liebcknecht (pure essi ebrei) un'anima rivoluzionaria e internazionalista estranea al buon lavoratore tedesco e la responsabilità della catastrofe in cui stava cadendo la Germania nel 1919. L'antimarxista dichiarato Winning si rivela paradossalmente più "marxista" del KAPD quando riconosce nella classe operaia l'inerzia storica che senza l'intervento esterno del Partito la relega nella condizione di "classe per il Capitale", votata alla propria conservazione e a quella del sistema del quale è fattore costitutivo, per quanto subalterno. Da buon patriota, Winning, nell'intento di ridare alla Germania l'ordine perduto, è tra i congiurati del putsch di Kapp del 1920 e poi, con piena coerenza, collaboratore del "rivoluzionario" Niekisch in nome degli interessi del lavoratore tedesco(21).

 

Le idee della “Rivoluzione conservatrice”, come si vede, procedono spesso da matrici interne alla socialdemocrazia, travalicando i confini nazionali e di classe e rappresentando ovunque e comunque la forza di conservazione delle mezze classi e il loro terrore tanto del capitalismo distruttore e livellatore quanto della rivoluzione proletaria. Ci interessa a questo punto rilevare la singolare affinità tra l'operaismo "marxista" e le varianti nazionaliste, perfino reazionarie, nell'atteggiamento di celebrazione della classe operaia, sia che si tratti di vedere in essa l'incarnazione della Rivoluzione quanto della Nazione o addirittura della Tradizione popolare reazionaria. In ogni caso, si tratta di forme di populismo tipicamente intellettuale e romantico, per il quale il popolo incarnerebbe lo spirito di qualche cosa, Nazione o Rivoluzione che sia. Gli intellettuali populisti/operaisti dimostrano in ogni loro variante di non essere in grado di superare i limiti della propria origine di classe, borghese o piccolo borghese, e aderiscono volontaristicamente a una classe altra di cui promuovono il trionfo, il dominio sulla società (l'egemonia di Gramsci), o almeno il riconoscimento dei suoi diritti in un quadro di armonizzazione con le altre classi. Ne emerge la visione idealizzata di un mondo stabile, di un nuovo ordine che risolve le contraddizioni del capitalismo, prima fra tutte la proletarizzazione che inesorabilmente procede con il suo sviluppo. L'insieme sociale che ne esce è sempre identificabile con il popolo/nazione, mai con la scomparsa tendenziale delle classi e delle nazioni. Anzi, nelle forme più coerenti di operaismo nazionale, il nemico viene identificato proprio con l'internazionalismo livellatore, capitalista o rivoluzionario che sia, nemico dei popoli e delle nazioni.

La “Rivoluzione conservatrice” rappresentò la variante perdente del fascismo, la versione reazionaria, che tipicamente intende la rivoluzione come un "ritorno" all'interno di un procedere non lineare, circolare, del tempo. Il fascismo vittorioso fu invece, come abbiamo sempre sostenuto, fenomeno avanzatissimo, tanto dal lato politico quanto da quello economico, e si nutrì delle idee della “Rivoluzione conservatrice” come alimento ideologico o poco più. L'analisi del fascismo come manifestazione della reazione agraria e della piccola borghesia che mira a sopprimere le conquiste della rivoluzione borghese portando indietro le lancette della storia, se è falsa per il fascismo storico, può adattarsi alla “Rivoluzione conservatrice”. Essa prospetta un "salto indietro" e la creazione di un nuovo ordine, si richiama alla "Nazione" ma in realtà ne rappresenta i gruppi sociali votati alla dissoluzione: settori della vecchia nobiltà agraria reazionaria, contadiname, piccola borghesia, mezze classi rovinate dalla crisi; in Germania, riuscì a intercettare anche settori proletari più per la politica fallimentare del KPD che per qualità proprie.

Il nazionalsocialismo hitleriano, diversamente dalle varianti volkisch e nazionalbolsceviche, per quanto si rivolgesse al popolo e in particolare ai lavoratori, fin dalle origini non fu affatto "rivoluzionario" in senso sociale, se non nelle convinzioni dei suoi elementi più ingenui, e gettò la maschera solo quando la forza del movimento era ormai inattaccabile dalla componente social-nazionale interna. In questo, risultava pienamente rispondente agli interessi della borghesia come classe e solo in virtù del suo appoggio conquistò il potere e lo consolidò. In secondo luogo, il nazismo hitleriano individua con precisione il nemico-simbolo nell'Ebreo, e nel bolscevismo come espressione del complotto ebraico internazionale. In questo modo, l'attacco al bolscevismo si motivava di vitali ragioni nazionali e razziali, alla luce delle quali il contenuto sociale dell'internazionalismo comunista risultava corrotto da intenti antinazionali, o puramente strumentale. Un altro elemento di forza del nazismo fu nell'organizzazione finalizzata con determinazione alla presa del potere, a suo modo... "bolscevica". In definitiva, Hitler coglieva il cuore del problemalo scontro in atto in Germania (e in Europa) era tra nazionalismo e internazionalismotutto il resto passava in secondo piano; l'Ebreo è un senza-nazione, rappresenta in questo l'umanità nella sua dimensione di specie, indipendentemente dall'appartenenza a un popolo o una civiltà determinata. Il nemico è lui, in quanto rappresentante dell'umanità cosmopolita, dell'internazionalismo che tende alla scomparsa delle nazioni come entità indipendenti e non assimilabili (22).

 

"L'Ebreo, nella sua coscienza giudaica, sradicato, radicalizzato, fiducioso nelle idee universali dell'umanità e malgrado tutto ripieno delle antiche certezze messianiche, è allora eroe nato della rivoluzione, riformatore e internazionalista, e al tempo stesso certo non libero dai pensieri della vendetta nei confronti dei vecchi oppressori" (23).

Ma l'ebraismo così concepito può rappresentare in positivo il futuro dell'umanità solo in quanto rappresenta in negativo il compimento dell'alienazione dell'uomo, del suo realizzarsi nel bisogno egoistico di accumulare ricchezza e denaro. Perciò "L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell'umanità dal giudaismo" (Marx, La questione ebraica(24). Per Marx, la liberazione della società dal giudaismo, intesa come attitudine all'alienazione mercantile che non appartiene ad una particolare categoria razziale o religiosa ma connota ormai la società intera, realizza il superamento del commercio, dell'industria e della finanza moderne e il passaggio al comunismo. Il capitalismo nella sua evoluzione storica travalica ogni barriera e diviene internazionale, lo spirito giudaico si fa mondiale e crea dialetticamente le condizioni per il superamento di ogni particolarismo. Per Hitler e i cultori di teorie razziali, si tratta di espellere fisicamente dalla società gli ebrei, come atto necessario a purificarla dai suoi mali. Dialettica vuole che sia stato proprio il nazismo, che completò l'opera controrivoluzionaria della socialdemocrazia tedesca, a contribuire alla conservazione del carattere giudaico della società, che si esprime pienamente nel capitalismo, riaffermando l'idea della Nazione, del popolo e della razza, cioè del particolarismo tedesco. E' così che "il socialismo degli imbecilli", nella definizione di Bebel, si mette al servizio del Capitale nazionale.

Il messaggio dell'internazionalismo è potentissimo, prefigura il salto storico senza precedenti verso la comunità di specie, è antigiudaico in senso marxista; come il proletariato è la prima classe della Storia che lotta per la soppressione di se stessa, così ilgiudeo, il senza patria, diviene protagonista della scomparsa dello spirito giudaico nel mondo. Rosa Luxemburg è stata esempio vivente della capacità di superare i particolarismi di appartenenza nella superiore visione internazionalista e di specie: "Questo 'nobile silenzio dell'infinito' nel quale tante grida si perdono senza essere udite, risuona tanto fortemente in me che nel mio cuore non ho alcun angolo particolare per il ghetto: mi sento a casa in ogni parte del mondo in cui ci sono nuvole  e uccelli e lacrime umane" (25).

Hitler è consapevole che solo contrapponendole un messaggio altrettanto suggestivo e potente è possibile contrastare e battere l'idea internazionalista. Il messaggio nazionale-razziale richiama la tradizione e il sangue, agisce sulle corde dell'appartenenza alla Vaterland, alla terra dei padri, si carica di contenuti religiosi che affondano nel primitivo, contiene non a caso un nucleo esoterico da cui scaturiscono simboli e rituali. Questa prospettiva uscirà vincitrice non solo sul nemico dichiarato, il KPD, ma anche sulla componente social-nazionale interna che per un lungo periodo contribuì ad avvalorare i tratti "socialisti" e "rivoluzionari" del movimento e ad attirare proletari nelle sue file.

Riferendosi al discorso che Hitler fece nel gennaio 1932 di fronte agli industriali, Nolte osserva che esso "costringe perlomeno a porre la questione se il motivo motore più profondo nell'ideologia di Hitler non sia il rapporto con il comunismo. Di fronte a questo motore fondamentale, sia 'Versailles' sia il pangermanesimo, sia la brava dottrina liberale della sopravvivenza combattente degli uomini più capaci e più forti retrocedono sullo sfondo." (26). Non è forse la lotta contro il comunismo lo scopo ultimo di ogni politica borghese, fascista, democratica o "terzista" che sia, in epoca imperialista? Non è per questo che le borghesie tedesca e italiana furono disposte a pagare un alto prezzo, dando spazio e potere alla componente plebea del fascismo, pur di salvarsi dalla minaccia proletaria? Il fascismo plebeo poteva illudersi di essere protagonista di una "terza via" tra capitalismo e comunismo; Hitler rappresentò la consapevolezza della grande borghesia che la questione centrale non si spostava dallo scontro tra rivoluzione proletaria e controrivoluzione borghese, e a questo scopo orientò fin dall'inizio il suo movimento nel campo della controrivoluzione. Il sacrificio degli ebrei tedeschi ed europei fu una concessione al rivoluzionarismo plebeo e all'appetito delle bande di avventurieri che si gettarono sui loro beni con avidità degna dell'odiato stereotipo del giudeo.

 

Nazionalismo versus internazionalismo

La profonda crisi che attanaglia oggi l'Europa riporta d'attualità soluzioni nazionali che si rivelano tuttavia estremamente problematiche in un contesto di avanzata internazionalizzazione del Capitale: da un lato, il sottrarsi al ricatto del capitale finanziario internazionale attraverso una unilaterale denuncia del debito pubblico comporterebbe una crisi del sistema finanziario nazionale che si ripercuoterebbe immediatamente a livello mondiale; dall'altro, l'apparato produttivo di paesi come l'Italia e la Germania dipende oggi più che mai dai mercati mondiali, motivo per cui una logica protezionista si ripercuoterebbe proprio sui settori che ancora sono in grado di generare plusvalore dalla produzione. Situazioni come quelle che caratterizzano oggi (2012-13) la Grecia possono esprimersi con le stesse parole del cancelliere tedesco Brunig nel lontano 1931, ma il raffronto potrebbe risultare pienamente calzante per la Spagna e l'Italia:

 

"I pagamenti del tributo [delle riparazioni] ci indeboliscono come acquirenti e ci costringono a strozzare le importazioni. Ci costringono ad aumentare le esportazioni suscitando la resistenza degli altri paesi che diventa sempre più forte. La conseguenza è un esasperato inasprimento della lotta per la conquista dei mercati del mondo... L'impiego delle ultime forze e delle riserve di tutti i ceti della popolazione dà al governo tedesco il diritto e di fronte al suo proprio popolo gli impone il dovere, di dichiarare davanti al mondo: il limite delle rinunce e delle privazioni che noi siamo in grado di imporre al nostro popolo è raggiunto" (27).

 

Allora, come oggi, furono emanati decreti di emergenza che prevedevano riduzioni dello stipendio per funzionari pubblici e impiegati, dei sussidi di disoccupazione, dell'assistenza pubblica e della previdenza sociale. Le analogie si estendono al problema del debito – che allora era un lascito della sconfitta militare, oggi della guerra finanziaria del Capitale internazionale – e alla necessità di conquistare mercati esteri a spese del mercato interno, per destinare tutte le risorse nazionali al sostegno delle imprese esportatrici. Allora come oggi, la tensione derivante dall'internazionalizzazione del capitale era al massimo grado, con la differenza che la Germania poteva ancora porsi in una prospettiva di riscatto nazionale attraverso una politica di potenza finalizzata alla guerra: soluzione oggi non praticabile, a meno che la Germania non si proponga come baricentro di un'integrazione continentale meno amorfa e labile di quella della "zona Euro". In questa prospettiva, potrebbe tornare d'attualità la formula del nazionalbolscevismo, riproposta dagli ambienti dell'estrema destra europea, ma forse svolta in forme più compiute proprio in Russia (28).

 

Il loro programma prevede un "blocco continentale europeo" che riunifichi i popoli dagli Urali all'Atlantico, presupposto per riaffermare la supremazia europea sul mondo, o quantomeno la riconquista di un ruolo centrale. La riunificazione presuppone il superamento di un nazionalismo limitato ai singoli popoli, in nome di una visione di più ampio respiro, "europeo" o "eurasiatico", se poniamo il confine orientale a Vladivostok, che comprenda slavi, germanici e latini; una specie di surrogato dell'internazionalismo proletario che però viene respinto risolutamente in quanto espressione del "mondialismo" negatore delle specificità storiche e culturali, che come tali sono da preservare dalla mescolanza livellatrice e annientatrice che rappresenta il tratto caratteristico della modernità e il vero pericolo gravante sui popoli d'Europa. Asse portante di questa riunificazione non può essere altro che quello russo-tedesco, come storicamente è stato nella prospettiva, fallita, dell'"orientamento a Est" e del nazionalbolscevismo tedesco nelle sue diverse manifestazioni. Si tratta dunque per questi epigoni di lottare per una “nuova Europa” che superi i particolarismi recuperando una tradizione presente nella storia dell'Europa del Novecento, soprattutto in Germania, dove più che altrove l'idea è stata coltivata dal nazionalbolscevismo (il gruppo di Amburgo, Niekisch) e dal nazismo di sinistra, e che si è riproposta anche semplicemente come alleanza russo-tedesca in vari momenti (Rapallo, il patto Ribbentrop-Molotov del 1939). La visione si configura dal punto di vista geopolitico come "anti-atlantismo". L'America è il nemico storico, il centro attorno a cui gravita il capitale finanziario internazionale che assoggetta ai suoi diktat i popoli del mondo e che aggredisce i popoli "liberi" che vogliono affermare la propria identità (Iran, Cuba). Contro il “blocco atlantico”, che comprende l'Inghilterra, non basta riproporre una generica unità continentale tra Stati, ma si deve fondare una nuova comunità di popoli oltre le attuali nazioni, libera dalla oppressione capitalistica ed egualitaria, una società "comunista", o meglio "comunitarista", dai tratti peraltro piuttosto confusi, che nulla ha a che vedere con la prospettiva marxista rivoluzionaria. Le fonti cui attinge una simile ideologia sono ovviamente numerose, e spaziano da un Marx ridotto a critico del capitalismo a Nietzsche fautore della "volontà di potenza" e ostile alla massificazione indotta dalla modernità, fino alle varianti del corporativismo fascista che si ritrovano nel "fascismo di sinistra" in Francia, Spagna, Italia e ovviamente Germania (nazionalboscevismo, SA, ecc.). Ne vien fuori un polpettone ideologico nel quale si può metter tutto e il contrario di tutto, a patto che sia utilizzabile contro il mostro americano e la mondializzazione, distruttrice delle tradizioni e delle libertà dei popoli. E' una visione evidentemente ultrareazionaria, e perfino grossolana quando arriva a prendere a modello nientemeno che la Romania di Ceausescu e la Cambogia di Pol Pot (basterebbe questo per far crollare tutta la faticosa costruzione).

Tuttavia, si ricollega a precedenti storici che, nello scontro politico d'interguerra nel cuore d'Europa, hanno visto la sconfitta dei movimenti che avevano elaborato compiutamente una teoria "nazionalcomunista", ma anche l'affermazione del "socialismo in un solo paese" e del fascismo in quanto realizzatore delle istanze socialdemocratiche entro lo spazio della Nazione. In entrambi i casi, si può parlare di "socialismo" inteso come tentativo di controllo delle forze economiche da parte dello Stato entro i limiti nazionali, e va dunque riconosciuta senz'altro l'affinità (non a caso anche estetica, simbolica e rituale) tra il cosidetto "socialismo reale", uscito dal ripiegamento della prima rivoluzione proletaria vittoriosa in rivoluzione borghese-nazionale, e il "fascismo", controrivoluzione borghese in veste di "rivoluzione nazionale"; affinità confermata dal risultato storico dello sviluppo del capitalismo in Russia nel primo caso e del salvataggio dello stesso dalla minaccia proletaria nel primo.

La continuità storica del nazionalbolscevismo va ben oltre le "destre di sinistra" tedesche e si spinge sino a noi lungo l'italica "via nazionale al comunismo", che partendo dal Cremlino è approdata coerentemente alla democraticissima politica borghese abbandonando infine anche i vetusti simboli. Le affinità tra fascismo e nazionalcomunismo sono oltretutto confermate storicamente dal massiccio travaso nel PCI di elementi provenienti dal fascismo nell'immediato dopoguerra (29), da atti politici quali "L'appello ai fratelli in camicia nera" del 1936 (con tanto di apprezzamento del “programma di Sansepolcro”), dal sostegno del PCI a riviste redatte da intellettuali di matrice fascista in funzione antiatlantica (30), e così via. Proprio negli anni in cui si infamavano gli internazionalisti con l'accusa di trescare col fascismo, il comunismo italico era già evoluto verso un'ideologia popolare e patriottica per molti aspetti affine al fascismo populista. Quello che non veniva perdonato agli internazionalisti era la natura classista del loro antifascismo, che li portava a combattere con la stessa energia fascismo e democrazia, come ogni altra manifestazione della politica borghese, e a considerare l'antifascismo democratico "il peggior prodotto del fascismo". Assai più del fascismo, ormai sconfitto militarmente, il PCI togliattiano temeva il risorgere della prospettiva classista che poteva incarnarsi solo nella tradizione dell'internazionalismo proletario della Sinistra comunista a cui si doveva la stessa fondazione del partito e che le vicende convergenti della controrivoluzione fascista e staliniana avevano distrutto organizzativamente, ma non liquidato.

 

Il giudizio che diede la Sinistra comunista sulla fase storica che si apriva nel secondo dopoguerra fu che il fascismo aveva sì perso la guerra, ma aveva "vinto la pace". Le sue soluzioni infatti (dirigismo economico, ingranamento del sindacato nello Stato, rafforzato controllo sociale, ecc.) venivano riprese, applicate e perfezionate dal nascente Stato democratico, con piena adesione di tutte le forze politiche, PCI in testa. Rimaneva una contrapposizione tutta ideologica, quella che ha caratterizzato il Novecento e che è evoluta nel tempo in tracce sempre più sfumate. Con l'adattamento di tutte le discendenze di entrambi gli schieramenti all'imperio dei "mercati", tale contrapposizione tende inevitabilmente ad annullarsi man mano che ci si allontana dalle sue origini storiche (l'alternativa dittatura proletaria/dittatura borghese), fino a perdere completamente senso perché non più corrispondente ad un contenuto reale. Rimane tuttavia nelle attuali formazioni politiche – tutte borghesi, senza eccezione – una contrapposizione fra le ali "estreme" dei due schieramenti che riguarda l'atteggiamento di fronte al processo di globalizzazione (mondializzazione) e ai suoi effetti: da "sinistra", la piena apertura, l'accoglienza, il "multiculturalismo"; da "destra", la chiusura, il rifiuto, la salvaguardia delle identità storico culturali, ecc.. Il che propone l'apparente paradosso di una "sinistra" mondialista e pertanto filocapitalista e una destra che ha in odio tutto ciò che è multiculturale e perciò si propone come ostile al principale effetto sulla società occidentale del dominio del capitale internazionale. Che questo sia un aspetto centrale attorno a cui ruota la politica borghese è un fatto confermato dalle cronache quotidiane e dal successo dei partiti che fanno della lotta all'immigrazione il loro punto di forza. Oggi la contrapposizione ideologica Nazione/Internazionalizzazione tende in effetti a riproporsi in termini vagamente anticapitalistici (contro gli "eccessi del mercato"), e trova terreno fertile nei settori colpiti più duramente dalla crisi e nella stessa classe operaia, almeno finché la ripresa della lotta di classe non riproporrà la contrapposizione di fondo borghesia/proletariato, liberata da tutte le gabbie ideologiche. D'altra parte, la grandiosità delle forze in campo rende improponibile una "difesa" delle nazioni medie e piccole e pone la necessità di integrazioni politiche ed economiche di area centrate su potenze continentali.

Non si può in via di principio escludere che una lettura social-nazionale della crisi che proponga una vera integrazione politica europea possa trovare seguito tra le masse proletarizzate d'Europa; tutto ruota ancor oggi attorno alla Germania e ai processi che ridisegnano la geopolitica delle relazioni internazionali, fortemente destabilizzata dalla crisi. Qualora si riaffacciasse la prospettiva (al momento lontana, ma non puramente fantastica) di un asse russo-tedesco, troverebbe spazio una corrispondente ideologia politica continentale, "rivoluzionaria" rispetto all'assetto geopolitico atlantico, e certamente non più connotata nei termini degli attuali schieramenti unanimemente filo-americani e "europeisti". Il consenso attorno a un tale progetto passerebbe per un nuovo tentativo dello Stato di controllo delle forze economiche, dei flussi di capitali internazionali, di rilancio della "politica sociale" come riflesso di una ripresa produttiva finalizzata al riarmo e alla guerra.

La forza di questa prospettiva risiede nella sua immediata "visibilità" storica: le categorie di Stato e Nazione appaiono nella coscienza delle masse come riconoscibili barriere all'ondata disgregatrice che deriva dalla mondializzazione capitalistica; la confusione tra gli schieramenti e le ideologie è tale che oggi è la cosiddetta "sinistra" a porsi sul terreno della difesa delle prerogative dello Stato nelle sue articolazioni non solo sociali e assistenziali (istruzione, salute, previdenza), ma anche repressive (magistratura, polizia, fisco), capisaldi della "democrazia nata dalla Resistenza" contro il nemico liberista; ma la visione della destra anti-liberista e protezionista si connota per una maggiore coerenza rispetto a chi grida contro il liberismo e la finanza selvaggia e nello stesso tempo è totalmente liberista rispetto ai flussi migratori, cioè alla circolazione di quella merce particolare che è la forza-lavoro, fattore oggettivo di abbassamento dei salari operai sul mercato nazionale.

Le tendenze del presente ripropongono in definitiva un incontro tra vecchi "nemici" che, sullo stesso terreno di classe anche se con diverse caratterizzazioni, si ponevano le medesime prospettive socialnazionali. Il periodo di interguerra in Germania illustra in modo esemplare questo incontro tra sinistre "estreme" che assumono obiettivi nazionali e gruppi di destra che assumono obiettivi sociali, singoli e raggruppamenti di sinistra che volgono nel loro contrario, elementi di destra che si convertono al "comunismo" nella sua degenerazione nazionale, e così via. La denominazione della rivista di Niekisch – Widerstand, Resistenza – assume sotto questo punto di vista una valenza emblematica. La Resistenza non è né di destra né di sinistra: è nazionale e popolare, e il suo obiettivo è la difesa del popolo-nazione da un nemico che è prevalentemente esterno, e che dispone all'interno di quinte colonne variamente identificabili.

Il modello si adatta a tutte le varianti nazional-popolari il cui elemento comune è l'attributo nazionale, valido anche per la versione inter-nazionale a scala continentale, che pone necessariamente la prospettiva della guerra, come strumento di affermazione del patrio destino, vuoi in termini di difesa, vuoi di riunificazione o conquista di "spazi vitali". La centralità posta nel fattore nazione attribuisce a questi movimenti un segno reazionario sia rispetto alla prospettiva internazionalista proletaria sia rispetto al superamento dei limiti nazionali alla espansione del Capitale, portato oggettivo della sua evoluzione storica che entra in  contraddizione con la dimensione irriducibilmente nazionale del Capitale stesso. Il Capitale non può internazionalizzarsi senza generare potenti squilibri e reazioni che in definitiva derivano dall'impossibilità di esercitare un controllo politico mondiale sul processo. L'affermazione del liberismo e della concorrenza globali non sono conseguenze di un'ideologia, ma il riflesso ideologico del processo di internazionalizzazione che non ammette limiti e frontiere alla libera espansione del capitale; le ideologie opposte, nazionalpopolari, che predicano il ritorno di limiti e barriere nazionali o di area, sono a loro volta una reazione allo stesso fenomeno, al quale intendono opporre una resistenza variamente connotata, ma del medesimo segno reazionario. Queste ideologie assumono come centrale l'opposizione tra Occidente e Oriente, Talassocrazia e Tellurocrazia, individuando nei primi elementi dei binomi gli artefici dell'internazionalizzazione e nei secondi i fautori di un ritorno alla nazione – anzi, alle nazioni – come portatrici di civiltà secolari di contro all'appiattimento livellatore di cui sono responsabili i centri atlantici della finanza mondiale. In ciò esprimono la contraddizione insita nell'internazionalizzarsi e autonomizzarsi del capitale ma, non essendo in grado di cogliere le potenzialità obiettivamente rivoluzionarie del processo, invocano un ripristino violento della tradizione, dei caratteri originali delle singole civiltà come alternativa/opposizione. La visione è metafisica e antidialettica, oppone la continuità della tradizione alla rottura rivoluzionaria basata sullo sviluppo obiettivo del sistema esistente che porta in sé il germe del suo superamento.

L'alternativa nazione/internazionalizzazione esprime quella irriducibile che all'interno dello sviluppo del Capitalismo oppone la nazione alla proiezione mondiale: ma il ritorno alla nazione si colloca integralmente all'interno del Capitalismo. Nessun "Nuovo Ordine" (sia esso gramsciano o fascisteggiante), anche se dovesse affermarsi, potrebbe resistere a lungo alle dinamiche dirompenti dello sviluppo capitalistico che riproporrebbero le medesime contraddizioni alla base delle crisi. Tanto il fascismo quanto il "socialismo reale" hanno dimostrato storicamente l'impossibilità del controllo dispotico delle forze economiche ad opera dello Stato, per quanto agguerrito e totalitario. Va certamente dato atto agli epigoni del nazionalbolscevismo di aver riconosciuto l'affinità tra i due sistemi ideologici, fascista e staliniano, ma la credenza nella loro natura rivoluzionaria li relega tra la multiforme schiera dei nemici della società futura e la storia può riservare loro nulla più che un ruolo, ancora una volta, tra i gendarmi della controrivoluzione capitalista.

 

Note

1- G. Buonfino, “Agit-prop e controcultura operaia nella repubblica di Weimar”, in Primo Maggio n.3-4, 1974.

2- E. Behrens, K.H. Roth, “Nazismo e resistenza operaia”, in Primo Maggio, cit.

3- Questa conversione dall'internazionalismo alla priorità degli interessi russi nei rapporti tra Stati diviene un fatto conclamato con lo sciopero dei minatori inglesi del 1926, quando il Comitato anglo-russo avallò il boicottaggio dello sciopero dei minatori inglesi da parte dei capi tradunionisti in nome degli interessi diplomatici dello stato sovietico ("La tattica del Comintern dal 1926 al 1940, in Prometeo, n.2, 1946; cfr. anche “Lo sciopero generale inglese del 1926”, in Il programma comunista, n.3/2006).

4- "Questo fu il senso della Rivoluzione bolscevica: la Russia, in pericolo di morte, ricorse all'idea di Potsdam, la portò sino alle estreme conseguenze, quasi oltre misura, e creò questo stato assolutista di guerrieri che sottomette la stessa vita quotidiana alla disciplina militare, i cui cittadini sanno sopportare la fame quando c'è da battersi, la cui vita è tutta carica, fino all'esplosione, di volontà di resistenza" (cit. in Josè Cuadrado Costa, “Ernst Niekisch, un rivoluzionario tedesco”numeri 56 e 57 della rivista Orion).

5- "[...] le caratteristiche - e le contraddizioni - evocate dal termine nazional-bolscevico [...] rispondono molto più ad uno stato d'animo, ad una disposizione attivista, che ad una ideologia dai contorni precisi o ad una unità organizzativa, poiché questo movimento era composto da una infinità di piccoli circoli, gruppi, riviste ecc. senza che ci fosse mai stato un partito che si fosse qualificato nazional-bolscevico. E’ curioso constatare come nessuno di questi gruppi o persone usò questo appellativo (se escludiamo la rivista di Karl Otto Paetel, "Die Sozialistische Nation") bensì che l’aggettivo fu impiegato in modo dispregiativo, non scevro di sensazionalismo, dalla stampa e dai partiti sostenitori della Repubblica di Weimar, dei quali tutti i nazional-bolscevichi furono feroci nemici non essendoci sotto questo punto di vista differenze fra gruppi d’origine comunista che assimilarono l’idea nazionale ed i gruppi nazionalisti disposti a perseguire scambi economici radicali e l’alleanza con l'URSS per distruggere l'odiato sistema nato dal Diktat di Versailles." (Josè Quadrado Costa, cit.)

6- Uomini politici e d'affari statunitensi che diedero il loro nome ai piani di intervento internazionali per risolvere il problema  delle riparazioni tedesche favorendo la ripresa dell'economia in Germania dopo l'iperinflazione (1923, piano Dawes) e concedendo condizioni di pagamento più favorevoli all'affiorare dellla crisi dei primi anni Trenta (piano Young). Entrambi i piani furono osteggiati come vessatori dalle destre nazionaliste e dallo stesso  KPD.

7- E. Nolte, La Repubblica di Weimar, Christian Marinotti ed., 2006, p. 211-212). Gli epigoni ultradestri di oggi danno la seguente lettura del rapporto tra KPD e rivoluzionarismo nazionale negli ultimi anni di Weimar: "Se nel 1919 il KPD si era rifiutato ad ogni apertura verso gli ambienti nazionalisti e nel 1923 il partito si era fatto portavoce di una politica nazionalista autonoma, nel 1930 si decise di percorrere l’unica via realmente possibile: quella di un progetto confederativo tra comunisti e nazionalisti tedeschi con il supporto della propaganda sovietica e in particolar modo della rivista moscovita 'Moskauer Rundschau'. Nel frattempo la nascita in Germania del Nazionalsocialismo, che inizialmente aveva radunato alcune personalità importanti delle sinistre nazionali quanto dei nazionalcomunismi e nazionalbolscevismo – si pensi ai nomi di Reventlow, Stohr, Strasser e tanti altri -, aveva acceso un forte sentimento antibolscevico. La necessità di concentrare le proprie forze sulla situazione politica interna alla Germania, piuttosto che alle più ampie dinamiche della politica estera fece naufragare velocemente il terzo ed ultimo tentativo nazionalcomunista [i primi due riguardavano rispettivamente gli amburghesi nel 1919 e Radek nel 1923, NdR]. L’allora capo del KPD Neumann, tornato dalle rivolte in Cina e dalle agitazioni popolari nella Ruhr cercò in ogni modo di coniugare le proposte comuniste con le istanze nazionaliste all’interno del paradigma della politica interna. Le soluzioni a cui si giunse furono l’annuncio del 'Programma per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco' seguito un anno più tardi, nel 1931, dal 'Programma di aiuto ai contadini'. Il risultato politico non fu dei migliori: la nazionalizzazione delle masse proletarie non avvenne e si creò piuttosto una setta nazionalista all’interno del KPD. Tuttavia il 'Programma di aiuto ai contadini' ottenne qualche felice risultato per i membri del partito. Primo fra tutti fu la forte lotta contro il nazionalsocialismo portata avanti proprio da un ex del Fuehrer, niente meno che il Generale delle Forze Armate del Reich Scheringer che pagò caro questo affronto qualche anno più tardi davanti al tribunale di Lipsia. Il Programma risvegliò anche una parte del 'Movimento di Comitato', ed in particolare due importanti filosofi politici del calibro di Bruno von Salomon e Bodo Uhle che aiutarono non poco alla sollevazione delle masse contadine affinché abbracciassero una politica comunista e comunitaria dai tratti marcatamente nazionalistici. La vittoria fondamentale del KPD, per quanto effimera, fu la conquista del generale Beppo Romer, Capo di Stato Maggiore e già ampiamente conosciuto nelle cerchie nazional-rivoluzionarie a seguito della strenua resistenza del bacino della Ruhr e per la sua attività in qualità di Rappresentante di Commercio in Russia. Romer divenne capo della 'cerchia insurrezionale' un gruppo paramilitare di nazionalisti comunisti che svilupparono il loro pensiero attorno alla rivista “Der Aufbruch“. Questi importanti successi vennero frenati però dallo strapotere del Nazionalsocialismo in piena ascesa e da una politica strategica che finì per creare divisioni fortissime all’interno dello stesso KPD; in particolare tra Neumann e Thalmann. Il decisivo crollo del progetto confederativo sancì anche la fine del tentativo nazionalcomunista da parte delle sinistre radicali tedesche. Nonostante rimasero attive piccole sette, come il 'Movimento di Comitato' di Von Salomon, la cerchia intorno a Otto Paetel, la Cerchia Insurrezionale, il gruppo di Uhle e i movimenti giovanili che si rifacevano a Wolffheim, l’esperienza si poteva considerare decisamente conclusa. Il colpo finale avvenne con la caduta di Neumann, quasi contemporaneamente alla stesura del 'Patto di non aggressione francese e polacco con la Russia'. Lo Stato sovietico aveva sacrificato i suoi seguaci tedeschi per garantirsi un breve periodo di pace, ma era stata dimostrata anche la contraddizione interna al nazionalcomunismo: mancando al comunismo ogni sostanza politica propria esso diventava, e a maggior ragione il nazionalcomunismo, un strumento politico della Russia comunista." (da F. Della Sala, “Nazionalcomunismo, mito o dottrina politica?”, Parte 2, Centro Studi sull'arco e la clava).

8-  E. Nolte, La repubblica di Weimar, cit. p.209.

9- Nella sua eterogeneità non mancavano nemmeno "gli influssi nazionalbolscevichi che erano immediatamente vicini alla KPD [...] Anche i comunisti avevano imboccato strade sorprendenti e poteva quindi sembrare possibile che essi avrebbero potuto trascinare dalla loro parte molti dei voti nazionalsocialisti". Idem, pag.210.

10- D. Guérin, Fascismo e gran capitale, ed. Controcorrente, 1994, pp.218-219. Sul "prezzo" pagato dalla borghesia rispettabile per usufruire dei servigi dei "plebei", vedi la nota a p. 227.

11- E. Nolte, La repubblica di Weimar, cit. nota 20, p.201.

12- Idem, p.214.

13- Idem, p.222

14- Cit. in Guérin, p. 236.

15- " Gli Strasser – come Rohm – criticavano la rapacità del sistema bancario e l'iniquità della vigente distribuzione della ricchezza nazionale, proponendo un piano di nazionalizzazioni. Erano rappresentanti della versione del nazionalsocialismo che voleva costruire la Terza Via fra capitalismo e comunismo e che attribuiva alla classe operaia l'egemonia nella futura società, punto di vista comune a molti gruppi fascisti europei" (A. Rossiello, “I fratelli Gregor e Otto Strasser, la seconda rivoluzione”, ripreso in "Rinascita" del 7.7.2009, pubblicato nel sito z3ro).

16- A questo proposito, scrive Nolte: "Nel febbraio del 1925 Hitler rifonda il suo partito... nel centro del lavoro di partito dovrebbero stare incrollabilmente il marxismo come cosa e l'ebreo come persona. Da Rohm Hitler si divide nella controversia sulla questione dell'autonomia e del carattere militare della SA. Dapprima deve dare a Gregor Strasser via libera per il suo lavoro nella Germania del Nord. Là domina una forte avversione contro 'Papi e dittatori' e non poca predilezione per un 'orientamento a est', per cui inclina anche Paul Joseph Goebbels... Sotto la sua direzione le 'NS- Briefe' cercano di unire socialismo e orientamento verso Est, mentre Alfred Rosenberg, quale caporedattore del 'Volkischer Beobachter' a Monaco tiene ferma energicamente l'equazione Russia sovietica= Giudea sovietica. Non deve meravigliare quindi che si formi praticamente un gruppo particolare del partito nella Germania del Nord, nel quale Otto Strasser, il fratello di Gregor Strasser, gioca un ruolo di spicco quale ex socialdemocratico nient'affatto moderato." (Nolte, La repubblica di Weimar, cit. p.177).

17- "Gli Strasser erano alternativi, dissidenti, anti-imperialisti, per l'unione tedesca e germanica e fautori di un'alleanza con l'est europeo, contrari alla democrazia disgregatrice e sovvertitrice dei valori, contrari alla monarchia ereditaria ed autoritario-repressiva, favorevoli all'annullamento del potere politico delle grosse aziende e dei capitali finanziari. Socialisti Nazionali, volevano 'sborghesizzare' e 'sproletarizzare' il popolo. Favorevoli all'organicità dello Stato, alla partecipazione della totalità dei produttori alla proprietà, alla gestione ed al profitto di una economia al servizio della nazione, per fondare il socialismo di volontà, autoresponsabile nella milizia del lavoro. Un idealismo che legava il popolo al suo ceto guida, un'unificazione federativa europea, contro gli stranieri, ma contrari alla supremazia etnica germanica perché favorevoli ad un solidarismo nazionalsocialista dei popoli d'Europa" (A. Rossiello, “I fratelli Gregor e Otto Strasser, la seconda rivoluzione”, ripreso in "Rinascita" del 7.7.2009, pubblicato nel sito z3ro).

18- Thierry Mudry, “Il percorso ideologico di Otto Strasser”, da Origini n.2, pubblicato dal sito z3ro.

19- "Si ha a che fare con una di quelle rivoluzioni materiali che coincidono con l'apparire di razze, a disposizione delle quali stette la magìa di nuovi mezzi, quali il bronzo, il ferro, il cavallo e la vela. Come il cavallo prende il significato attraverso il cavaliere, il ferro attraverso il fabbro, la nave attraverso il tipo del navigatore, del pari la metafisica dello strumentario tecnico si paleserà solo nel punto in cui apparirà la razza dell'operaio come una grandezza ad esso sovraordinata" (E.Junger, citato in J. Evola, L'operaio nel pensiero di Ernst Junger, Ed. Armando, 1960, p.48).

20- J. Evola, L'operaio nel pensiero di Ernst Junger, cit. pp. 89-91.

21- E. Nolte, La rivoluzione conservatrice, ed. Rubbettino, 2009.

22- "Se l'ebreo, con l'aiuto della sua confessione di fede marxista, trionfa sui popoli di questo mondo, allora la sua corona sarà la corona funebre dell'umanità e, allora, questo pianeta vagherà per l'etere, vuoto di uomini, come milioni di anni fa... Nel momento in cui resisto all'ebreo, io combatto per l'opera del Signore." (Cit da Mein Kampf, in Nolte, La repubblica di Weimar, cit. p.395). "Evidentemente - commenta Nolte - qui non si pensa che a niente altro che a quello che noi oggi chiamiamo 'globalizzazione' e 'l'opera del Signore' di cui Hitler parla è la totalità delle comunità armate e sovrane, il cui confronto e scontro costituì fino ad oggi il contenuto della storia universale. E, nonostante questo tentativo di restringere in maniera inammissibile l'angolo visuale sugli ebrei, Hitler aveva intuito qualcosa di giusto, poichè da quasi 3000 anni gli Israeliti e i Giudei si sono visti come 'il popolo di Dio' e quindi come 'il popolo dell'umanità', che nelle sue speranze messianiche era rivolto all'unità futura dell'umanità. Se si crede che questa unità dell'umanità pacifica sia in effetti la meta auspicabile della storia, non si può allora temere di affermare che raramente al popolo di Israele è capitato di ricevere un tale attestato di grande stima come accade in questa frase del suo nemico mortale." (Idem)

23- Lo storico delle religioni Troelsch, citato in Nolte, La repubblica di Weimar, cit. p.339.

24- In Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti,1969, pag. 104.

25- Riportata in P.J.Nettl, Rosa Luxemburg, il Saggiatore,1978,  p.621.

26- E. Nolte, La repubblica di Weimar, cit. pp.222.

27- Idem, p.208.

28- In un testo dal titolo emblematico (Nazionalcomunismo, Eurasia, prospettive per un blocco continentale) si cita un'intervista di Giorgio Galli rilasciata al "Giorno" del 17/5/94, dal titolo "Ma abbiamo tradito noi il ruolo dell'Occidente", in cui, alla domanda se la critica dell'occidentalizzazione è patrimonio della sinistra, risponde: "A questo proposito ti voglio segnalare la rivista 'Orion'[...]. Il gruppo che la pubblica si autodefinisce nazional-comunista e si dichiara contro l'Occidente come ordine basato sulla diseguaglianza. Ti cito letteralmente come si definiscono: una rivista antiborghese, antimoderna, antioccidentale, anticapitalistica cioè rivoluzionaria e popolare. Continuano con un linguaggio caratteristico: Gli sciovinisti e i razzisti di tutti i tipi, gli ipernazionalisti, i panslavisti e panturanici, pangermanisti e francofoni sciovinisti, sono tutti funzionali all'internazionalismo apolide dei mercanti e banchieri senza patria che nelle guerre etniche e tribali hanno costruito i loro imperi. [..] Comunque l'Occidente non può essere un modello mondiale ma una grande civiltà tra le altre. [...] per tornare a 'Orion' e alle difficoltà attuali di interpretare la cultura, dicono testualmente, rivendicando radici marxiste: Il nostro comunismo ha radici ben più antiche del marxismo, prodotto interno della logica libero-scambista, ma questo non ci vieta di utilizzare analisi ancora valide nel pensiero filosofico marxiano." (AAVV, Nazionalcomunismo, Eurasia, prospettive per un blocco continentale, Società Editrice Barbarossa, 1996, p.16). "In Russia questo progetto [l'Impero tellurocratico] è condiviso dai nazionalcomunisti, dagli eurasiatisti che, attorno alla rivista 'Den', si oppongono al panslavismo sciovinista, vera arma di riserva capitalista, di fronte al fallimento del liberalismo selvaggio di Eltsin. Sarà un caso se oggi, ad agitare la bandiera panslavista-imperialista in Russia, la destra ha trovato un ebreo ex-sionista?" (la frase è di Alexander Dughin, il maggior teorico di questa corrente, citato nello stesso testo, a p.107. Alle pagine 79-80 si riporta un articolo di Vittorio Strada che dà conto della 'nuova destra rivoluzionaria russa').

29- La tesi della affinità/continuità tra fascismo e comunismo nazionale italico post-bellico è confermata dalla conversione di molti intellettuali importanti. Ugo Spirito, teorico del "corporativismo radicale", approda al comunismo; Elio Vittorini aderisce al fascismo intendendolo come 'rivoluzione incompiuta', condanna i Patti lateranensi e la guerra di Spagna a fianco dei clericali, approda al comunismo sul finire del '42, e nel '49 fonda "il Politecnico", la cui redazione è composta da ex fascisti che scrivevano sul "Primato" di Bottai; Giorgio Bocca, già entusiasta delle leggi razziali, e P. E. Taviani, già insegnante di dottrine corporative diventano ferventi “antifascisti”Tra i "padri nobili" della degenerazione nazionale del comunismo, Bombacci meriterebbe un capitolo a parte. Nel 1923 interviene in parlamento, rivolto a Mussolini, per perorare la causa della Russia in questi termini: "La Russia è su un piano rivoluzionario: se avete come dite una mentalità rivoluzionaria non vi debbono essere per voi difficoltà per una definitiva alleanza tra i due paesi" (cit in “Nazionalcomunismo...”, p.76). Mussolini sarà il primo statista occidentale a rompere l'embargo a cui i governi borghesi avevano sottoposto l'URSS. Il discorso di Bombacci ha toni fortemente "nazionali", ma non tanto diversi da quelli usati da Radek nello stesso anno. Bombacci si rifiuta poi di dimettersi da deputato e viene espulso dal partito; sotto il fascismo, con l'aiuto d Mussolini, dirige la rivista "La Verità" dal '36, dove critica dall'interno sia il regime sia l'evoluzione dell'URSS; durante la RSI, influenza la "carta della socializzazione”. Nel '45 è catturato a Dongo e muore con il duce.

30- Nel secondo dopoguerra vi fu un "tentativo di riconciliazione tra ex fascisti e comunisti in funzione antiamericana, attraverso l'intervento di esponenti dei due schieramenti tutt'altro che insignificanti" (“Nazionalcomunismo...”, p.59), raccontato dal giornalista Enrico Landolfi in "Ragionamenti di storia", nn.21 e 22 del 1992. La rivista "Pensiero nazionale" (PN) di Stanis Ruinas (Alias Antonio De Rosas, detto scherzosamente il “cameragno”) sostiene nel dopoguerra, a partire dal 1946, la continuazione "della lotta antiplutocratica contro il capitalismo interno, 'rappresentato dalla DC' e 'protetto dalle potenze occidentali'... Alleato 'naturale': il blocco delle sinistre pilotato dal PCI e collegato con l'URSS". (Cit in “Nazionalcomunismo...”, p.61). Vi si parla di incontri tra giovani FGCI e giovani 'repubblichini', di Pajetta che sostiene la rivista, osteggiata invece dal MSI filoatlantista, dell'adesione al PCI di quadri medio alti della RSI, di gruppi di ex marò della X Mas di Junio Valerio Borghese, della partecipazione alla rivista di fascisti "corridoniani" tra cui Ruggero Ravenna, poi segretario generale UIL. Il gruppo che ruota attorno a PN è filocomunista, anticlericale, antimissino, antiamericano. Dopo la batosta del frontismo nel '48, la rivista prosegue l'attività, ma in un maggiore isolamento, specie a destra. Dopo la rottura tra Tito e Stalin, Ruinas paragona il primo a Dino Grandi, il ribelle a Mussolini del 25 luglio. L'ex fascista dissidente Ruggero Zangrandi nel 1949 indirizza una lettera ai fascisti di sinistra di PN di cui riconosce l'opera di chiarificazione tra fascisti e antifascisti, e li incoraggia a creare un movimento rivolto a trasmettere alla massa di ex fascisti di tutti i ceti “i contenuti della loro ricerca". Poi è Ingrao, direttore dell'Unità, a rivolgersi a PN, al quale risponde indirettamente un lettore che si firma "Generale Beltrami", e che rivendica con orgoglio l'antiamericanismo dei repubblichini, la lotta contro il Vaticano, la Monarchia, il capitalismo... "Un fatto incontestabile è pure che ammettevamo i consigli di gestione, le riforme più ardite e tutto il potere al popolo. La lotta contro il latifondo è un nostro vecchio slogan" (Cit. in Nazionalcomunismo..., p.68). Nella visione di questi "cameragni", "il MSI è ormai solo strumento della destra economica, candidato ad esserne il braccio violento; tale opzione reazionaria non può che portarlo alla lotta contro le masse popolari e i partiti democratici di avanguardia, accanto alla DC, al Vaticano e sotto l'egemonia USA..." (Idem). Non restava allora che schierarsi con i partiti operai, col PCI, e solidarizzare con l'URSS minacciata dall'imperialismo USA che già aveva sconfitto l'Italia.