Memoria è lotta

Pubblicato: 2020-11-23 21:21:43

Nell’ormai lontano 1943, mentre la sequela di sconfitte gettava nel fango le armate del Duce e del Re, all’aprirsi della crisi del regime fascista con le sue conseguenze di carattere sociale, alcuni nostri compagni (vissuti nella clandestinità, nell’esilio e nella prigionia, senza mai smettere di combattere per la difesa del programma comunista, pur subendo – come il resto della nostra classe – il peso della tragica disfatta della rivoluzione proletaria, senza però mai arrendersi) cominciarono a riunirsi come primo nucleo di comunisti organizzati in partito [1]. In partito: cioè in un organismo di lotta e di battaglia, proprio nel momento in cui le forze della borghesia italiana si stavano riorganizzando all’ombra delle potenze ormai vittoriose per dare continuità agli organi dello Stato, strappandone gli orpelli del ”regime” fascista per decorarle con la tappezzeria delle istituzioni democratiche.

I compagni del Partito comunista internazionalista, con il loro organo di stampa Prometeo, cominciavano dunque a combattere nelle file della nostra classe per contrastare, con l’azione di lotta e propaganda, le nefaste parole d’ordine e indicazioni pratiche di tutti i partiti borghesi, cercando di sviluppare obiettivi e percorsi antagonisti per l’indipendenza di classe, a partire dalle lotte, allora, dei grandi centri industriali contro tutti i partiti borghesi e contro l’agonizzante (e perciò ancor più fetente di quanto fosse stato nei vent’anni del suo splendore) “partito-regime” fascista.

Come è noto, quest’ultimo si organizzò, sotto l’ala protettrice dell’imperialismo nazista, come Repubblica sociale italiana: nome curioso, per un partito-regime nato nel 1922 con l’obiettivo di difendere il capitalismo nostrano e fornirgli gli strumenti per modernizzare lo Stato borghese e renderlo imperialisticamente capitalista collettivo. Nel disperato tentativo di “ingraziarsi” le simpatie di un proletariato che, con i poderosi scioperi del 1943 scoppiati a partire dalle richieste economiche, dimostrava non solo di essere economicamente, per l’appunto, allo stremo, ma di averne “le scatole piene” della guerra, la neonata Repubblica propose un piano di “socializzazione” dell’industria – piano irrealizzabile e demagogico – nell’illusione di “castigare” quella maggioranza di industriali che, pur essendosi allargati e arricchiti suggerendo al “regime” le più opportune “politiche economiche”, si stavano agganciando alle potenze che stavano vincendo, favorendo i partiti del “Comitato di Liberazione Nazionale”.

Per i nostri compagni, quella fu l’occasione per ribadire, anche contro l’ideologia staliniana (e trotskista!!) che identificava la “statizzazione” della proprietà industriale come elemento fondativo dell’ “economia socialista” (mentre non è altro che una premessa per rendere più agevole e veloce la centralizzazione delle forze produttive, che nelle mani dello Stato della dittatura proletaria potranno, allora sì!, essere avviate al complesso processo della socializzazione di tutta l’economia) per ribadire dunque la profonda differenza che corre tra una borghesissima socializzazione della proprietà e il “socialismo”. E lo fecero proprio con l’articolo che ripubblichiamo qui sotto

Naturalmente, ai “soliti saccenti del senno di poi” non sfuggiranno le “ingenuità” di questo breve testo, redatto dai compagni tra una fucilata nazifascista, un bombardamento alleato e una coltellata alla schiena socialdemocratica e staliniana… Ma Prometeo e il Partito comunista internazionalista, le battaglie di quei compagni nel pieno di quella guerra inter-imperialistica, sono stati un passo importantissimo verso il restauro dell’organo rivoluzionario di classe al quale noi, come loro, stiamo lavorando. Nei tempi successivi, verranno le analisi più complete della controrivoluzione e le precisazioni programmatiche.

 

SOCIALIZZAZIONE O SOCIALISMO?

Se occorressero altre prove del fatto che tutti gli Stati borghesi, fascisti e democratici, si trovano a dover fronteggiare gli stessi problemi e, nemici in guerra, sono uniti di fronte al comune pericolo di un’esplosione rivoluzionaria, basterebbe a dimostrarlo la circostanza che, proprio sul terreno sociale, i loro programmi tendono gradatamente a identificarsi.

Poco importa che i fascisti vantino un primo esperimento concreto di socializzazione e i democratici lo demoliscano in quanto demagogico e viziato all’origine dall’assenza di garanzia di libertà; poco importa che gli uni disputino agli altri la qualifica di “veri socialisti ” giacché attuata dai regimi fascisti o dai regimi democratici, la socializzazione non solo non rappresenta una deviazione dal sistema capitalistico, ma ne è anzi il potenziamento estremo; non solo non è il socialismo, ma è l’estremo espediente della classe dominante per sbarrare la via alla rivoluzione proletaria.

Che cos’è, infatti, la socializzazione che fascisti e democratici con metodi e accorgimenti diversi promettono agli operai?

E’ quella forma di intervento dello Stato nell’economia per cui esso Stato avoca a sé, dietro adeguato compenso, la proprietà privata di quelle imprese industriali che rivestono il più odioso carattere di monopolio o che la classe dominante giudica di massimo “interesse nazionale”; e assumendone la gestione, le inquadra in un piano economico, che non è più dettato da interessi singoli o di categorie, ma dalle superiori necessità della classe nel suo insieme.

Così intesa, la socializzazione non solo non annulla la proprietà privata nel vastissimo settore industriale che esorbita da questi confini ma, all’interno di questi non fa che operare un trasferimento di proprietà: lo Stato assorbe le aziende private, e il capitalista che già deteneva le azioni diventa il grande azionista dello Stato.

Il quale non solo gli garantisce un reddito fisso, ma assume su di sé i rischi che già pesavano sull’imprenditore e, in armonia coi piani di organizzazione nazionale dell’economia, finanzierà il settore industriale nazionalizzato, pompando denaro dalle tasche del contribuente o assorbendo nei nuovi complessi industriali le piccole aziende a capitale privato.

In tal modo, la concentrazione capitalistica dà allo Stato la fisionomia più sfacciata di organo di amministrazione degli interessi della classe, e, creando con la compartecipazione agli utili e coi consigli di gestione una forma di aristocrazia operaia legata agli interessi dell’industria e quindi allo Stato, ottiene l’effetto di passare agli occhi dei gonzi per una misura radicale in favore della classe lavoratrice.

E poiché la “socializzazione” così attuata ingigantisce e ipertrofizza l’economia nazionale, il suo ulteriore effetto è di dare nuove armi all’imperialismo, metodo ideale per preparare, condurre a termine e vincere (o perdere) la guerra.

La socializzazione ha un carattere socialista o borghese, progressivo o reazionario, non in se stessa, ma in rapporto alla classe che detiene il potere.

Proprio nella fase più critica dello sviluppo storico sovietico, nel 1927, la lotta a fondo contro l’avanguardia proletaria e la decapitazione della Sinistra coincisero con lo scatenamento di una grande offensiva interna per la collettivizazzione forzata e per i piani quinquennali, condotta da quegli stessi ceti dirigenti che avevano portato alle sue conseguenze più reazionarie la politica della NEP, e avevano combattuto l’esperimento della socializzazione e dell’economia diretta quando il potere politico era ancora saldamente in mano della genuina classe dirigente proletaria. La “socializzazione” servì allora da paravento ad un’evoluzione che sacrificava gli interessi permanenti del proletariato, necessariamente legati alle sorti della rivoluzione mondiale, alla formula reazionaria del “socialismo in un solo paese” e distruggeva di fatto le premesse del socialismo a favore di uno Stato chiuso, il quale, lungi dal deperire, reprimeva o insteriliva a poco a poco gli organismi più genuini del potere proletario: i Soviet.

E intorno a questo Stato si ricostituivano profonde diseguaglianze sociali e si generava uno Stato di “azionisti” della proprietà statizzata, mentre dietro il miraggio di una “ socializzazione equivalente al socialismo” il proletariato era spinto a lavorare con tutte le energie per la guerra o, se si vuole, per la “difesa della patria”.

Cosicché noi possiamo prevedere un punto in cui l’evoluzione del regime di produzione capitalistico verso una forma di socializzazione (o statizzazione) e l’evoluzione dello Stato proletario, verso una formula degenere di socialismo statale si incroceranno, e le democrazie borghesi assumeranno una veste sovietizzante, che lascerà intatta la sostanza dei rapporti fra capitale e lavoro e la sudditanza politica della massa operaia.

Sarà questo l’apice dello sviluppo capitalistico.

E, come il proletariato ha tutte le ragioni di intravvedere nella socializzazione fascista l’ultima beffa giocatagli dal capitalismo, altrettante ragioni ne avrà di considerare tale la socializzazione delle democrazie o di un falso sovietismo. E di affermare con gli atti che la socializzazione non può essere per la classe operaia che il socialismo, e che l’instaurazione di un regime socialista

presuppone la conquista e il vittorioso mantenimento del potere.

(da Prometeo, n. 6, 1 aprile 1944)

 

[1] Cfr. il nostro opuscolo Il proletariato nella Seconda guerra mondiale e nella “Resistenza”.