Yemen: La prossima guerra del Golfo

Pubblicato: 2019-11-27 15:01:29

Breve storia dello Yemen

Dal XVI secolo fino agli inizi del XX, lo Yemen fece parte dell’Impero Ottomano, estesosi prima in Siria e poi in Egitto e infine all’intera Penisola Araba, occupando prima le città della costa e, in seguito, alcune zone meridionali yemenite. Nel 1839, l’impero britannico occupò il porto di Aden ed altri territori meridionali circostanti: l’espansione britannica doveva garantirne la sicurezza, decisivi com’erano dal punto di vista commerciale, essendo situati all’uscita dal Mar Rosso e dallo stretto di Bab el-Mandeb, di fronte a Eritrea, Gibuti, Somalia e Golfo di Aden e, dal lato opposto, a oriente, all’uscita dal Golfo Persico e dallo stretto di Hormuz. Le comunità dell’entroterra nella zona occidentale (emirati e sultanati), sotto il comando inglese, costituirono il protettorato di Aden, che si estese via via fino all’area desertica centrale e orientale dello Hadramawt. La sovranità britannica sul territorio, dapprima un semplice insediamento, diventerà una colonia, quindi una provincia e infine uno Stato, rimanendo però protettorato inglese fino al 1967.

 

Dopo lo sconvolgimento prodotto dal primo conflitto mondiale, nel 1918 il Nord Yemen si rese indipendente dall’Impero Ottomano: ma solo a una ventina d’anni dalla fine del secondo conflitto, nel 1962, fu proclamata la Repubblica araba dello Yemen (o Yemen del Nord). Alcuni anni dopo, gli inglesi, incalzati dall’insurrezione di forze popolari, si ritirarono dal protettorato britannico di Aden: così, nel 1970, si giunse all’istaurazione del cosiddetto “regime marxista” della Repubblica democratica popolare dello Yemen, nota con il nome di Yemen del Sud. Nel 1978, ebbe inizio nel Nord il governo di Alì Saleh, riconfermato nel 1983 e nel 1988, avente come obiettivo politico prioritario, per molti anni, lo sfruttamento comune delle risorse economiche del paese, comprese quelle petrolifere. Dopo alcuni anni di trattative diplomatiche, il 22 maggio 1990, nella capitale Aden fu proclamata la riunificazione del Paese: si trattava della fusione dello Yemen del Nord (già Repubblica dal 1962), dello Yemen del Sud (già protettorato britannico indipendente dal 1967) e della Repubblica democratica popolare (dal 1970). Nel 1990, la costituzione del nuovo Stato ebbe come priorità lo sviluppo delle infrastrutture: ma la guerra tra Iran e Irak negli anni ’80 e la Prima guerra del Golfo (antirakena) si abbatterono sul Medioriente con effetti catastrofici. Le difficoltà economiche, l’innalzamento dei prezzi, le agitazioni sociali produssero gravi contrasti fra i due partiti della coalizione governativa, ma quattro anni dopo, nel luglio del 1994, alcuni ufficiali e politici di “ispirazione marxista”, proclamarono la secessione della regione meridionale dello Yemen, che assunse il nome di Repubblica democratica dello Yemen: non riconosciuto a livello internazionale, il tentativo venne stroncato dopo alcune settimane di combattimenti. Avviate riforme politiche per evitare nuove ribellioni, l’elezione con voto popolare del Presidente della Repubblica chiuse temporaneamente questa prima fase dell’attività politica.

Nel 1995, la situazione interna dello Yemen cominciò a mutare, e il governo di Sana’a a Nord dedicò maggiore attenzione alle questioni economiche e ai problemi strutturali. Le elezioni politiche del 1997 diedero una vittoria schiacciante al Congresso generale del popolo (CGP), a danno del partito islamico. L’accordo politico con l’Arabia Saudita nel 2000 per la demarcazione dei confini, gli attentati ispirati dal partito islamico, la seconda guerra del Golfo del 2003 e la vittoria alle elezioni di Alì Saleh nel 2006 mostrarono le crepe profonde che si stavano aprendo nel Paese. Nel Nord rimaneva attiva la guerriglia della minoranza sciita Houthi, maggioritaria nell’area, colpita più volte da azioni militari da parte dell’esercito saudita. Introdotto il cessate il fuoco, nel 2010 si accese la protesta sociale e le manifestazioni minacciarono la secessione del Sud Yemen.

Non c’è pace nel cimitero yemenita

Dal 2011, le proteste, i cortei e le manifestazioni divengono sempre più frequenti. Gli attentati alle moschee e ai palazzi governativi e, un anno dopo, gli scontri nel corso delle “primavere arabe”, si concludono con il passaggio del potere al vicepresidente Mansur Hadi. In novembre, sono firmate le dimissioni di Saleh: la sua presidenza ad interim, comunque, prosegue con la formazione di un governo comune con l’opposizione. Nel 2013, la Conferenza del dialogo nazionale affronta la “transizione governativa”. Ma nel 2015 lo Yemen ripiomba nel caos con l’intensificarsi degli attacchi dei ribelli sciiti Houthi, rafforzatisi intanto nel Nord del Paese con un tentativo di colpo di Stato, appoggiato dall’Iran e guidato dall’ex Presidente Saleh.

Per fermare l’avanzata degli Houthi nella “guerra civile” yemenita, viene condotta dai Saud una guerra lampo, mai effettuata prima, con il sostegno di 10 paesi arabi, nel tentativo di riportare al potere Mansur  Hadi distruggendo le scarse risorse e le attrezzature militari degli insorti sciiti e acquisendo il totale controllo degli spazi aerei yemeniti. Nell’ottobre del 2015, un rapporto di Amnesty International accusa l’Arabia Saudita di crimini di guerra in Yemen per l’uso di bombe a grappolo e bombardamenti di scuole e cliniche, attacchi che radono al suolo città e villaggi e fanno a pezzi le popolazioni, nella cosiddetta guerra civile tra le diverse fazioni. Un anno dopo, gli stessi protagonisti dichiarano di voler ricostituire il “legittimo” governo dello Yemen. I massacri, da Nord a Sud, invece, colpiscono l’intero Paese: da una parte, le forze degli Houthi che controllano la capitate Sana’a, alleate alle forze fedeli al presidente Alì Saleh, e dall’altra le forze leali al governo Mansur Hadi con sede ad Aden, riducono il Paese ad un immane deserto, con decine di migliaia di morti tra le milizie e i civili, decine di migliaia i feriti e circa tre milioni di sfollati. Quale “legittimità nazionale”, quale “ricomposizione sociale”? Una cancrena consuma un corpo sociale, molto tempo fa definito “Araba Felix”, spinto alle condizioni acute di povertà e di fame. Una “guerra civile” che ha al suo fianco alleati come l’Iran e gli Herzbollah libanesi da una parte e un fronte di grandi e piccole potenze, mediorientali e africane, e di superpotenze come Usa, Turchia, Francia, Regno Unito e Canada, dall’altra. Tutte responsabili dell’immenso cimitero mediorientale.

Chi attacca chi? L’imperialismo minaccia la guerra totale

Il punto critico dei preparativi di guerra si verifica con il lancio di una decina di droni e di missili al cuore del sistema petrolifero saudita: vi è coinvolta tutta l’area che dal Golfo Persico, attraverso lo stretto di Hormuz, si spinge verso il Golfo di Oman, un’area su cui si affacciano tutti gli Stati del Golfo. Si tratta degli impianti petroliferi della Saudi Aramco. L’attacco del 14 settembre, il quinto, è il più grave fra quelli effettuati da maggio a settembre: a esso è seguito, l’11 ottobre, un attacco con due missili a una petroliera iraniana al largo di Gedda. Minaccia di guerra o atti di guerra? Nel primo attacco, vengono danneggiate quattro petroliere, di cui due saudite, al largo degli Emirati Arabi, il secondo è un attacco con droni su due stazioni di pompaggio di un oleodotto in Arabia Saudita, nel terzo due petroliere vengono silurate al largo dell’Oman, nel quarto si tratta di pozzi sotto tiro negli Emirati, senza conseguenze per la produzione, il quinto è un attacco pesante con droni e missili contro giacimenti e impianti per la lavorazione del greggio tra Ryiadh e Bahrain. Non è guerra questa? Le conseguenze sulla crescita del prezzo del greggio non si fanno attendere: da 62$ al barile sale a circa 67,5 $b. Le istallazioni colpite sono gli impianti di trattamento di Abqaiq e Kurais, il primo dei quali è il vero cuore del sistema petrolifero dell’Arabia Saudita con una capacità di lavorazione di sette milioni di barili al giorno. Ryiadh afferma d’essere pronto a riammettere sul mercato due dei cinque milioni di barili persi.

A questo punto uno “stato confusionale” agita i sonni dei capi di Stato, dei ministri e delle “guide spirituali”. Trump minaccia la “guerra a oltranza”, per difendere la casa dei Saud, mentre gli Houthi si autodenunciano per l’attentato: autodenuncia cui, a quanto pare, nessuno crede. Si minacciano sanzioni più dure all’Iran in quanto sarebbero stati i famosi Guardiani della Rivoluzione iraniani i responsabili dei bombardamenti: quelle sanzioni nate in seguito alla rottura dell’accordo sul nucleare con Obama, relativo all’attività di arricchimento dei materiali fissili, materiali e strutture che potrebbero essere stati messi in vendita da una qualunque delle potenze atomiche, Usa, Cina, India o Pakistan. Il fronte diplomatico, dunque, era in allarme: si agitano Hassan Rouhani e Mohammed Zerif, il suo ministro degli esteri, ma anche l’Onu e Mike Pompeo, il segretario di Stato americano. Quest’ultimo denuncia i bombardamenti contro le istallazioni petrolifere come opera degli iraniani: non direttamente, perché potrebbero essere responsabili proprio i ribelli Houthi-sciiti, che si trovano ovunque in piccoli o grandi nuclei in Siria, in Iraq, oltre che nello stesso Yemen. Ciò che non convince e che lascia perplessi è la distanza percorsa dai missili: forse 1000 km. I missili potrebbero, infatti, essere partiti ugualmente tanto dal nord-est quanto dal nord-ovest dello Yemen, come anche dal sud irakeno. Non c’è dubbio che i missili con una gittata adeguata potrebbero colpire gli immensi arsenali di armi riforniti negli anni passati dagli Usa all’Arabia, il cui valore monetario ammonterebbe a centinaia di miliardi di dollari e che dispongono di una capacità distruttiva superiore a quella di un ordigno nucleare. Ryiadh ha investito miliardi di dollari nelle tecnologie militari: solo i suoi sistemi di difesa aerea (Patriot) sono costati circa 6 miliardi di dollari. E tuttavia non è riuscita a proteggere i suoi più importanti impianti petroliferi.

La guerra nello Yemen si è trasformata, dunque, da quattro anni a questa parte, in un conflitto tra le due fazioni: gli Houthi (sciiti) e la coalizione militare a guida saudita. Il paese è ormai spaccato in due, se non in tre, se si contano le bande dell’Isis sparse un po’ dappertutto, anche nello Yemen. C’è chi dice che la miccia sarebbe stata accesa, chi in Irak, chi in Yemen, chi in Siria. Chi sono i protagonisti? Non si tratta solo di bande di ribelli, di nazionalisti, di etnie senza storia, di indipendentisti, di autonomisti o di congreghe religiose. Fossero questi, si tratterebbe di minutaglia incapace di possedere una “strategia da finale di partita” propria di una grande potenza. Chi guida verso il baratro queste sottoclassi nel quadro dell’imperialismo dominante mondiale sono l’Iran e l’Arabia Saudita per primi.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)