E il Nord Est d’Italia?

Pubblicato: 2019-02-21 18:28:01

La situazione dell'economia del Friuli Venezia Giulia si riassume in alcuni dati: dal 2008 al 2017 in FVG nel settore privato si sono persi 6500 posti di lavoro, segno che la crisi non è stata affatto superata. Interessanti anche i dati sulle assunzioni: se è vero che nel 2018 (gennaio-settembre) sono in aumento del 3,3% sullo stesso periodo 2017, solo il 9% sono a tempo indeterminato! A dieci anni dallo scoppio della crisi (dati CISL), la regione risulta la più colpita del Centro Nord: 90 mila lavoratori inutilizzati (tra disoccupati, scoraggiati e sospesi dal lavoro), oltre 4000 imprese in meno, di cui circa 1500 manifatturiere, 320 imprese in meno solo nell'ultimo trimestre. Il tasso di crescita sta rallentando,  un migliaio di posti di lavoro sono a rischio per crisi aziendali, 2500 lavoratori che usufruiscono di ammortizzatori vari,  entro il 2019 perderanno il diritto al supporto al reddito. Quali saranno le conseguenze per una manifattura che si regge sull'export quando l'esaurirsi della debole fase espansiva mondiale aprirà le porte a una nuova recessione?

Gli effetti dei processi di concentrazione e razionalizzazione produttiva dovuti alla crisi incontrano una debole resistenza. Tra le lotte d'azienda si registrano per lo più  scaramucce, piccole resistenze che si disperdono in un breve arco di tempo. Emblematica una recente lotta all'industria Dm Elektron, con sede a Buia (UD), dove 60 posti di lavoro  sono a rischio per le politiche di delocalizzazione adottate dall'azienda. Gli operai si sono allarmati quando hanno visto portare via macchinari destinati agli stabilimenti aziendali in Romania e hanno deciso di scioperare e bloccare i cancelli. La dirigenza ha protestato le sue buone intenzioni: qui i posti di lavoro sono garantiti almeno fino a maggio. Poi si vedrà. Chi può dirlo? E' il mercato, bellezza. Quanto allo sciopero, la direzione ha addossato la responsabilità ai sindacati “di fuori” e l'azione di presidio a elementi estranei all'azienda. Come a dire che i mansueti operai locali mai e poi mai si sarebbero spinti a tanto, che tutto questo ingiustificato trambusto si deve ai “sindacalisti” sobillatori e forse alle manovre politiche collegate al “decreto dignità”, con le sue conseguenze – evidentemente nefaste per l'azienda – sull'occupazione e le delocalizzazioni.  “Se volevamo andarcene l’avevamo fatto da un pezzo”, ha dichiarato un manager in un italiano zoppicante (forse per formazione, forse perché il proletario non merita lo sforzo di usare il congiuntivo) ma efficace nel chiarire i reali rapporti di forza tra le classi. Dovrebbero ringraziare l'azienda, i pezzenti infreddoliti ai cancelli, se è loro assicurato uno straccio di lavoro per sei mesi ancora. E invece gli ingrati che fanno? Scioperano!

Questi beceri agenti del capitale non hanno nemmeno il coraggio morale di riconoscere le conseguenze, queste sì nefaste, delle loro azioni sulla carne viva dei lavoratori, e di accettare che questi, con le povere armi di cui ancora dispongono, cerchino di opporre una minima resistenza al destino di disoccupazione e miseria che li attende. Hanno scioperato e bloccato gli ingressi per una settimana. Attorno a loro la stampa a denunciare, le istituzioni locali a rassicurare, i preti a consolare (mancava poco al Natale...) . Per nulla tranquillizzati dall'abbraccio democratico e spirituale, le maestranze hanno  bloccato i cancelli per una settimana. Poi si sono rassegnati a smobilitare, convinti una volta ancora da quei sobillatori del sindacato. Due pezzi grossi (si fa per dire) locali di CISL e CGIL si sono prodigati a spiegare loro che continuare a scioperare equivaleva a “passare da vittime a carnefici”. La funzione del sindacato si può riassumere in un monito del sindacalista all'operaio che potrebbe suonare così: “Amico caro, se la legge del mercato e della concorrenza non la capisci da solo guardando i fatti, te la spiego io. Se continui a scioperare questi si incazzano, chiudono baracca  e tu te ne vai a casa prima”.  Si così è riprodotto una volta di più il solito cliché che, alla fine, vede ogni tentativo di fronteggiare l'aggressione del capitale sopraffatto da avvoltoi di tutte le risme.

Passando ai lavoratori pubblici, va segnalata la forte adesione locale allo sciopero dei medici (70%), in un settore sempre più sotto attacco e orientato alla privatizzazione. Le lotte sindacali nella scuola sono invece pressoché assenti, se si fa eccezione per le agitazioni dei precari e gli scioperi indetti da organizzazioni talvolta fantomatiche, alla ricerca di un po' di visibilità e di consensi. I confederali galleggiano grazie ai patronati e al presidio dei gangli periferici dell'amministrazione. Nonostante molti precari non percepiscano da mesi lo stipendio, manca completamente quel clima di solidarietà necessario a generalizzare la lotta. La categoria è la più vecchia d'Europa, e i vecchi sperano solo di abbandonare il barcone prima possibile, ma soprattutto è una categoria frammentata, lo stesso precariato è diviso in sottocategorie con problemi diversi, e la cosiddetta “autonomia” delle scuole ne ha minato la coesione  e rafforzato le divisioni tra chi ambisce a ruoli nella gestione e chi no. Talvolta la conflittualità, quando sopravvive, si manifesta proprio per i problemi sorti dalla gestione autonoma dell'attività e le diverse interpretazioni delle norme contrattuali tra singoli istituti, ma questo porta a circoscrivere la lotta entro un orizzonte ristretto.

L'incancrenirsi della crisi ha contribuito a fare della regione terreno di conquista della Lega. I 5stelle hanno invece una presenza affatto marginale.  L'egemonia leghista è un segnale delle difficoltà di un territorio non più, ormai da tempo, “isola felice”. Cresce la ricchezza da un lato, dall'altro aumentano le sacche di povertà. Aumenta il ricorso al lavoro nero, segnale tanto delle difficoltà delle imprese a reggere la concorrenza, quanto del grado di disperazione dei proletari in cerca di un lavoro. In questo quadro il tema dell'immigrazione fa da catalizzatore delle tensioni. Il confine con la Slovenia è stato a lungo un colabrodo. Oggi i controlli sono molto più stringenti ed efficaci, ed interrompono già in Croazia e Slovenia la direttrice balcanica delle migrazioni. Nonostante questo, alcuni quartieri delle città capoluogo sono ad alta intensità di stranieri e ciò crea una diffusa ostilità che, se solo raramente assume forme razziste, si traduce senz'altro in una richiesta di controlli e di ordine che alimenta il partito oggi maggioritario. Non mancano i fascisti dichiarati, tra i quali militano giovani proletari e disoccupati, la cui presenza si manifesta anche con banchetti di associazioni solidaristiche rivolte “agli italiani”. Il fascismo “sociale” gioca sulla presunta scomparsa della prospettiva classista e sulla ormai generale riabilitazione dell'idea di “popolo” e “nazione”.

In un panorama così stantio e gravido di segnali poco rassicuranti, si intravede però il progressivo venir meno delle condizioni che garantiscono la stabilità sociale, che sembra ancora reggere più sulla ricchezza accumulata nei precedenti cicli di espansione che su quelli attuali o previsti. Quest'angolo a Nordest è via di transito di capitali (in uscita) e di forza lavoro dequalificata (in entrata), ed è proprio questa forte internazionalizzazione a provocare fenomeni di chiusura identitaria e nazionalistica. Ma concentrazione della produzione, delocalizzazione, contrazione dei servizi sociali garantiti dal sistema pubblico, aumento della disoccupazione e del lavoro nero, crescente povertà ed emarginazione tra autoctoni e immigrati costituiscono altrettanti fattori potenzialmente esplosivi per quella descritta in passato come  “isola felice”, per quanto possa essere “felice” una terra ammorbata dal capitale.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)