La “pace nel mondo” si riarma

Pubblicato: 2018-02-27 18:41:14

Settantatré anni fa terminava la Seconda guerra mondiale, che fra morti ai fronti, morti civili e invalidi permanenti mieteva più di 100 milioni di vittime. Vero “maestro di ballo” di questa carneficina, il capitalismo non ha mai smesso da allora di menare le stesse danze, e in questi lunghi decenni altri cinquanta milioni di persone sono caduti sotto il peso dell’imperativo categorico dell’odierno modo di produzione: massimizzare i profitti.

Si può dire che l’industria delle armi rappresenti la vera essenza del capitale: produzione e sovrapproduzione di morti; produzione e sovrapproduzione di umanità disumanizzata; produzione e sovrapproduzione di arnesi di morte; produzione e sovrapproduzione di materiale altamente inquinante; produzione e sovrapproduzione di manufatti inutili alla specie umana… In altre parole, produzione e sovrapproduzione dei presupposti per la realizzazione dei profitti, produzione e sovrapproduzione degli agognati profitti. Sottolineava Marx alla fine del Capitale: “‘Il capitale’, dice uno scrittore della ‘Quarterly Review’, ‘fugge il tumulto e la lite ed è timido per natura. Questo è verissimo, ma non è tutta la verità. Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento, - e diventa vivace; il cinquanta per cento, e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre. Prova: contrabbando e tratta degli schiavi’ (T. J. DUNNING).” [1] Oggi diremmo: guerre e quei fantastici profitti del 300% di cui si parlava agli albori del capitalismo oramai, alla fine di questo modo di produzione, si sono ridotti di un fattore cento e le peggiori nefandezze ora il capitale è disposto a compierle anche per un 3%.

Analizziamo allora, dopo 11 anni di crisi, lo stato di salute di questa fondamentale branca della produzione capitalistica – un’industria che l'umanità infine umanizzata del comunismo getterà tra i ferri vecchi della preistoria.

 

La produzione

Dobbiamo subito evidenziare che l'industria gode di un discreto stato di salute: dunque, di un buono stato di salute, se lo mettiamo in relazione al resto dell'industria che ancora si dimena nella palude della sovrapproduzione. E non potrebbe essere altrimenti: da millenni, le caste religiose e militari prosperano sulle crisi e sulle miserie altrui. Vi è poi da aggiungere che, nel contingente, la crisi economica ha di molto alzato la temperatura di tutti i fronti di scontro o frizione dove cozzano gli interessi imperialistici degli Stati, distribuiti omogeneamente sui cinque continenti, dando grande slancio alle linee produttive del settore.

Dai dati disponibili [2] sulle prime cento industrie del settore, si evince che a livello produttivo la parte del leone la svolge l’imperialismo dominante degli Stati Uniti che, con 238 miliardi di dollari, da solo rappresenta oltre il 62% della produzione. Seguono poi l’Inghilterra con 9,35%, la Russia con il 7,90%, la Francia con il 4,81%, l’Italia con il 2,62%, la Corea de Sud con il 2,36%, il Giappone con il 2,13%, Israele con il 2,03%, l’India con l’1,60% e la Germania con l’1,55%. Seguono altre 11 nazioni che possono annoverare proprie industrie nella classifica delle prime 100 del mondo, ma tutte e insieme sono meno del 4% del totale.

Dai data bases a nostra disposizione [3] resta fuori la Cina che non pubblica dati ufficiali sulla propria produzione bellica: ma possiamo tranquillamente stimare che, se essi fossero disponibili, di certo porrebbero quello Stato fra i primi 5 del mondo (e vedremo in seguito, quando prenderemo in considerazioni altri aspetti del comparto militare, le basi deduttive di questa nostra stima).

Gli Stati Uniti non sono solo i più grandi produttori di armi, di gran lunga superiori agli altri competitori in valore assoluto. Lo sono anche dal punto di vista della quantità di aziende coinvolte nella produzione di morte: con 44 aziende, i campioni della democrazia e della pace detengono infatti la quasi metà dell’industria mondiale di armi. Seguono, nella classifica dei primi cinque produttori d’armi, la Russia con 13 aziende, l’Inghilterra con 8, la Francia con 6 e l’Italia con 2. Presi insieme, i primi cinque Stati produttori di armi rappresentano 86% dell’intera produzione, con 73 aziende fra le prime 100 del settore.

Nel tempo, questo quadro quadro generale è rimasto alquanto stabile: nel senso che gli Stati che producono e vendono armi nel mondo sono sempre gli stessi da quasi un secolo, e sicuramente da dopo la Seconda guerra mondiale, con l’unica eccezione della Corea del Sud che solo in un secondo momento si è inserita nel gota degli sputafuoco. Questo si spiega soprattutto con il fatto che il know-how necessario per risultare al passo con le tecnologia necessarie a costruire e vendere armi di guerra non si inventa né in un giorno né in anni, visto che l’industria delle armi costituisce la punta di diamante della tecnologia avanzata di tutto il comparto industriale capitalistico.

 

Import export

Se prendiamo in esame la commercializzazione della armi nel mondo, abbiamo poi il seguente quadro. Per ciò che concerne l’esportazione, troviamo sempre gli Stati Uniti a farla da padrone. La classifica è la seguente: Usa 33%, Russia 23%, Cina 6,2%, Francia 6%, Germania 5,6%, Inghilterra 4,6%, Spagna 2,8%, Italia 2,7%, Ucraina 2,6%, Israele 2,3%. Questo il quadro della media degli ultimi 4 anni. Le esportazioni totali superano attualmente i 30 miliardi di dollari e i primi dieci Stati in classifica con quasi il 90% delle esportazioni saturano completamente il mercato delle armi mondiale. Il quadro risulta infine coerente con quello della produzione delle armi stesse, come sopraindicato, e non potrebbe essere diversamente.

Abbiamo in questo caso anche il dato della Cina che si posiziona come terzo esportatore nella classifica, e non è un dato da poco: storicamente, infatti, la Cina era stata un’importatrice netta di armi e ill fatto che oggi sia in grado di esportare armi e di farlo con una quota considerevole che la pone al terzo posto della classifica ci indica che quel Paese ha ormai raggiunto una capacità produttiva pari a quella dei suoi maggiori competitori imperialistici. Se uniamo questo fatto non secondario alla capacità produttiva della Cina in generale, capiamo che nel futuro il grande Stato asiatico sarà sempre più feroce e determinato nell’imporre i propri interessi a tutto il resto del mondo…

Se ora veniamo alla classifica dei maggiori importatori d’armi, il quadro che si delinea è il seguente: India 13%, Arabia Saudita 8%, Emirati Arabi Uniti 4,6%, Cina 4,5%, Algeria 3,7%, Turchia 3,3%, Australia 3,3%, Iraq 3,2%, Pakistan 3,2%, Vietnam 3%. Presi insieme, i primi 10 Stati per importazioni di armi rappresentano il 50% del mercato mondiale. In questo caso, due sono gli aspetti che più spiccano nella classifica. Il primo è il ruolo svolto dall’India come maggior acquirente d’armi: il gigante asiatico è in assoluto lo Stato che oramai da più di un decennio si sta riarmando – più della Russia e più della Cina. Stretta fra i grandi Paesi a nord e a est e in perenne guerra con l’odiato Pakistan (che pure, non a caso, compare al nono posto della classifica), l’India, che non ha ancora trovato una direttrice imperialistica preferenziale dove investire i propri capitali e da penetrare con le proprie merci, si sta gonfiando come un palloncino che prima o poi dovrà esplodere. Il secondo dato significativo è che quasi un quarto delle importazione mondiali è assorbito da Pesi islamici del Mediterraneo e del Vicino Oriente – il che dovrebbe non far dormire sogni tranquilli all’Europa, distante ben poco, in termini geografici, da aree che si stanno gonfiando di armi e munizioni e di fatto, da dieci anni, sono già impegnate, direttamente o indirettamente, nella carneficina di popolazione civile lungo le coste del Mediterraneo e dintorni.

 

Le spese militari totali

Se ora scendiamo nei particolari della spesa totale per il comparto militare dei vari Stati, dobbiamo notare che i grandi Stati classici del capitalismo, schiacciati dalla crisi, hanno progressivamente diminuito le proprie spese militari, mentre nuovi attori hanno di molto aumentato le proprie. Dunque, Stati Uniti e Stati europei sono in una fase di rallentamento nelle spesse militari, mentre India, Cina, in parte Russia, Paesi del Sud est asiatico e Paesi mediorientali, con alcuni Paesi africani hanno aumentato di molto le proprie spese in armamenti, con ambiziosi programmi decennali di riarmo. In altri termini, la somma algebrica fra i Paesi che hanno ridotto le spese per la difesa e quelli che le hanno aumentante è positiva: dunque, la spesa in armi è tendenzialmente in aumento nel mondo.

 

Entrando più nel dettaglio…..

Una cosa è la produzione, un’altra l’import/export. Questione del tutto differente è poi la spesa che ogni Stato destina al rammodernamento e mantenimento del proprio apparato di difesa. Nel mondo, la spesa totale per il mantenimento degli eserciti e dei loro apparati è pari a 1700 miliardi di dollar (mld$). Questo dato segna una prima novità: a partire dal crollo dell’impero russo, nei primi anni ‘90 del ‘900, le spese militari complessive erano diminuite costantemente per almeno un decennio. Con la Seconda guerra del golfo, si era visto un progressivo aumento delle stesse. Da un lustro, la spesa totale ha superato quella precedente il crollo dell’impero russo e per ora tale spesa, se pur in qualche modo contratta dalla sopravvenuta crisi economica, continua la propria salita inesorabile. Anzi, vi è da aspettarsi che la stessa crisi che l’ha frenata diventi al più presto un elemento di accelerazione, costituendo le spese militari e la guerra la classica “ricetta” capitalistica per superare le crisi storiche del proprio modo di produzione, come è quella degli ultimi 11 anni.

Se scorriamo questa particolare classifica, il quadro è il seguente: Usa 611 mld$, Cina 215 mld$, Russia 69,2 mld$, India 55,9 mld$, Francia 55,7 mld$, Inghilterra 48,3 mld$, Giappone 46,1 mld$, Germani 41,1 mld$, Corea del Sud 36.8 mld$, Italia 27,9 mld$, Australia 24,6 mld$, Brasile 23,7 mld$, Emirati Arabi Uniti 22,8 mld$, e infine Israele 18 mld$. I primi cinque Stati per spesa militare rappresentano una quota appena superiore all’80% delle spese militari mondiali: ma, cosa ben più impressionante, i primi quattro Stati rappresentano da soli quasi il 60% - cosa assai notevole, se si pensa che si tratta di Stati tutti dediti a… “esportare pace nel mondo”! Non a caso, questi Stati sono anche quelli più estesi e più popolati del mondo, anche se non nell’ordine in cui compaiono in questa classifica. Insieme alle altre tabelle, ciò sta a dimostrare che, nella fase di estrema putrescenza del sistema di produzione attuale, oramai gli Stati di più vecchio lignaggio, primi fra tutti quelli europei, sempre più soccombono dal punto di vista delle dimensioni complessive di fronte a Stati che da soli rappresentano quasi dei continenti interi: e ciò, in caso di una guerra guerreggiata, non è un aspetto secondario. Altro dato interessante è che il 20% delle spese si concentra nell’area asiatica: e, se contiamo la Russia, che certo non è disinteressata alle sorti di quell’area del mondo, giungiamo a ¼ delle spese militari totali. Possiamo ben dire che, partendo da ovest e procedendo verso est, alcune zone dell'Asia rappresentano vere e proprie polveriere pronte a esplodere. E, se pensiamo che, in un arco di appena 1500 km, si concentrano quattro fra i principali Stati che ormai da più di un decennio si stanno riarmando, si capisce che una piccola scintilla potrebbe provocare un reazione a catena, disastrosa al di là di qualsiasi volontà politica.

Come le altre classifiche, anche la presente è dominata dagli Stati Uniti, che da soli rappresentano oltre il 36% del totale. Ma in questo caso bisogna fare dei distinguo, perché le nude cifre possono essere fuorvianti. Lo strapotere degli Stati Uniti non è ancora messo in discussione, ma la distanza che li separa questi dagli altri grossi Stati è in veloce (e pericolosa, per gli equilibri generali) diminuzione. Infatti, il dato è gonfiato dal fatto che gli USA sono costantemente impegnati su tutti i fronti caldi del mondo e mantengono, oltre a un apparato di pronto intervento notevole, anche una quantità di basi perfettamente armate e operative su tutti i continenti. Dunque, in quei 611 mld$, alta è la cifra spesa, non per migliorie o ammodernamento dei mezzi, ma per spese vive di mantenimento della pletorica macchina di repressione mondiale. Per comprendere meglio quello che andiamo sostenendo, riportiamo tre esempi. Nel 2017, l’ammiraglio in capo della marina militare americana è stato costretto a dichiarare che, del totale degli arei imbarcati sulle dieci portaerei USA, circa la metà non era operativa per mancanza di pezzi di ricambio e in generale per manutenzione. Quando, nel 2008 fu varato il nuovo cacciatorpediniere stealth Classe Zumwalt, in programma vi era la realizzazione di ben 32 di queste navi, che dovevano sostituire i vecchi incrociatori Ticonderoga. Nel breve tempo, dei 32 previsti nel progetto originale si decise di costruirne solo 10, e oggi (2018) il programma è stato interrotto con solo 3 unita disponibili, ovvero da terminare, ma in stato di avanzata realizzazione. Inoltre, a fine anno 2017, la stampa specializzata [4] lanciava l’allarme, con titoli del tipo “La Marina militare americana perderà 1/3 della sua flotta entro il 2020”... Potremmo poi parlare del caccia multiruolo di quinta generazione F35, progetto che malgrado abbia aumentato notevolmente le sue spese realizzative, riguarda ancora un aereo di fatto difettoso e non in grado di essere operativo, o i miliardi spesi nel progetto del mezzo anfibio porta-truppe, ancora in alto mare dopo più di un decennio. Insomma, proprio come l'America First di Trump è un'America decadente, così, in pari grado, decade anche la sua possente macchina da guerra.

Diverso è il discorso per ciò che concerne Cina, India e Giappone. Questi tre Stati sono attualmente quelli con i programmi più ambiziosi di riarmo e ammodernamento dei propri mezzi. Tutti e tre non hanno ancora una proiezione strategica come quella americana e stanno spendendo le proprie risorse, non per le spese correnti, ma per il riarmo. Da questo punto di vista, la Cina ha attualmente l’esercito che più ha cambiato pelle: il dato più eclatante è che un Paese, che per secoli non ha avuto nessuna proiezione verso gli oceani, da dieci anni a questa parte ha totalmente cambiato strategia e oggi possiede una potente marina d’altura, con capacità operative che si spingono ben oltre i suoi confini. La sua è una marina paragonabile a quella americana, se si prescinde dalle portaerei, settore in cui, per ore, le proporzioni sono di 1 a 10, sebbene la Cina abbia già in pratica varato una seconda portaerei, mentre una terza è in costruzione. Ancor più importante è il fatto che la Cina, da importatrice di tecnologia militare altrui, oggi è divenuta produttrice in proprio, un aspetto che cambia completamente le sue capacità operative in tempo di pace – figuriamoci in tempo di guerra! Questa sua nuova potenza è stata immediatamente rivelata al mondo, con un atteggiamento molto aggressivo, nel Mar Cinese Meridionale fino agli stretti di Malacca, un’area fondamentale per il traffico di merci e materie energetiche verso i mercati est-asiatici. Navi, aerei, mezzi di fanteria, in tutti i comparti, oggi la Cina può vantare una capacità nuova e tutta da verificare nelle evoluzioni future.

Anche il “pacifico” Giappone viene ormai valutato come il 7° esercito del mondo. Ha anch’esso messo in pratica un programma di riarmo che ha proprio nella marina la prima voce di spesa. Ancora bloccato dalle pastoie della sua costituzione pacifista, il Giappone ha dovuto reagire al riarmo cinese e sotto questo aspetto – e per ora – ha goduto dell’occhio benevolo degli americani che quella costituzione hanno scritto. Sta di fatto che oramai il Giappone ha imboccato la via del riarmo e prima o poi i governi giapponesi metteranno in soffitta la propria costituzione. Non manca certo a questo Stato la capacità tecnologica e produttiva e quindi un altro imperialismo in nuce riemerge (avendo dopo la seconda guerra mondiale dovuto limitare e contenere di molto le proprie mire imperialistiche), che però si trova davanti un gigante come la Cina.

Infine, l’India. Come abbiamo detto, è il Paese che più di tutti si è andato riarmando in questi anni. Possiede marina d’altura, un’aeronautica di tutto rispetto, un esercito imponente e anche l’arma nucleare. Il suo attuale tallone d'Achille è però un’ancora relativa insufficienza dal punto di vista produttivo, che la espone alla necessità di acquistare ami all’estero. Questa necessità l’espone a un altro problema, diremo tecnico: in questi anni, l’India ha comprato tecnologia militare sia dal blocco occidentale che da quello orientale e in questo modo ha indebolito la propria capacità di avere una macchina bellica pienamente integrata e convertibile, incontrando così gravi problemi e maggiori costi di manutenzione e capacità di attacco.

Se gli Stati Uniti sono la potenza a interessi imperiali globali, differente è la condizione della Russia. La “nemica storica” degli ultimi settant’anni, ha ridotto notevolmente le proprie mire imperiali. Se, nel secondo ‘900, gli interessi russi spaziavano su tutti i continenti, oggi essi si concentrano sulla cintura dei paesi confinanti, un tempo facenti parte dell’impero russo, e poco altro. Sconfitta e umiliata alla fine del secolo, la Russia è tornata a essere una potenza regionale. Ma, nonostante il putiniano sfoggio di muscoli (che le permette di avere la seconda forza armata del mondo), nei fatti è una potenza di second’ordine. Le sue attuali preoccupazioni si concentrano sulla fascia occidentale e sud-occidentale del suo sterminato territorio. Sulla frontiera ovest, la Russia deve competere con la “politica di inclusione” dell’Europa Unita. Infatti, gli europei continuano la decennale politica “da ventre molle”, un ventre che, dopo il crollo dell’impero russo, si è notevolmente allargato verso est. Sebbene la Russia non appaia mai direttamente coinvolta negli avvenimenti che negli ultimi trent’anni hanno interessato paesi di sua precedente influenza o addirittura appartenenti al suo ex impero, l’Europa ha sempre provveduto a riconoscere sul piano del diritto internazionale, e su quello economico e militare (legale e illegale), i nuovi aborti di Stati nazionali che nascevano dai brandelli dell’ex impero russo, insieme ai vecchi Paesi del “patto di Varsavia”. Facendo ciò, la “pacifica Europa Unita” ha rosicchiato parecchie migliaia di miglia quadrate all’influenza russa e così la Russia, in vent’anni, s’è trovata circondata dall’Europa Unita, senza più paesi-cuscinetto a protezione dei propri confini, se si esclude la Bielorussia. A parte ogni altro aspetto, avere un diretto concorrente militare ai propri confini, che per di più rappresenta una macchina economica notevolmente più efficiente della propria, rappresenta un oggettivo motivo di tensione – un motivo di tensione che non rimane solo sulla carta e che solo per ora trova l’aperto e necessario conflitto nell’ultima delle aree contese fra Europa e Russia: l’Ucraina.

A sud-est, la Russia tenta di mantenere e rafforzare i suoi storici legami in Medioriente, e ciò sicuramente perché l’area è l’unica influenzabile al di fuori del proprio ex impero. Il fronte è poi irrinunciabile anche per questioni interne, che vedono un collegamento ideologico e materiale fra il nazionalismo islamico delle aree caucasiche russe (prima fra tutte la Cecenia) e le bande dei neri dell’IS: combattere in Medioriente è quindi necessario anche per fiaccare il nazionalismo caucasico interno. Ma l’area mediorientale è anche la vetrina sul mondo della propria potenza: vicina geograficamente e storicamente, quella regione è il teatro naturale degli interessi russi. Qui, la macchina da guerra russa può schierare i pezzi pregiati e, a suon di carne proletaria macellata, dimostrare la propria gagliardia.

Le forze armate russe rappresentano bene la situazione geopolitica attuale di quello Stato, mantenendo una discreta e potenziale capacità di proiezione strategica. La Russia possiede infatti la quarta marina militare al mondo, che, pur potendosi annoverare fra le marine d’altura, esprime una capacità operativa di controllo degli oceani mondiali poco incisiva ed episodica. Possiede anche la seconda aeronautica militare del mondo, anch’essa con un’ipotetica proiezione strategica attuata attraverso il mantenimento in servizio degli antiquati bombardieri “sovietici”. In generale, e soprattutto per ciò che riguarda la marina, la Russia, più che produrre nuove flotte, ha mantenuto attiva una parte delle vecchie, di matrice “sovietica”: una sola portaerei in funzione, mentre si parla della possibilità di varare due nuove portaerei nucleari… per il 2027! Viste le condizioni economiche del Paese, l’annuncio si può classificare più come una promessa di Pulcinella che una possibilità reale. Infatti, il governo russo, che all'inizio degli anni 2000, aveva messo in conto un notevole programma di riarmo, con la crisi delle materie prime ha dovuto di molto limitare i propri obiettivi. La Russia ha conservato il “gigantismo” dei carri armati (più di 20mila, ovvero un numero tre volte superiore a quello della Cina, seconda in classifica), che sono storicamente armi di superiorità terrestre, e poco adatte alla proiezione strategica necessaria a un imperialismo che voglia giocare su tutti i tavoli caldi del mondo.

In questo macro-quadro, gli Stati europei svolgono oramai la parte delle Cenerentole. Pur possedendo ancora eserciti riguardevoli, sotto la pressione della crisi, ma soprattutto a causa delle proprie dimensioni demografiche e economiche, essi stentano ad avere un esercito e risorse paragonabili a quelle dei giganti asiatici e americani. Ciò significa che, pur continuando ad avere una proiezione strategica fuori dai propri confini, e anzi avendo in qualche modo aumentato i propri interventi, in caso di vero conflitto aperto, ovvero di conflitto fra veri eserciti, tutti questi Stati avrebbero notevoli problemi a sostenerlo per un tempo congruo.

In generale, però, tutti gli analisti concordano nell’evidenziare che almeno da 30 anni le guerre fra Stati, anche piccoli, sono andate diminuendo, mentre le guerre interne agli Stati stessi sono aumentati notevolmente e a ciò van fatte risalire le ragioni dell’enorme numero di morti civili e proletari in questi anni. E questo è un aspetto su cui dovremo ancora tornare.

 

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Il quadro mondiale è dunque in piena evoluzione. Non si faccia però l’errore di interpretare la progressiva debolezza USA come un segnale di maggiore equilibrio mondiale e dunque di una maggiore propensione alla pace del sistema. Tutt’altro. La pace capitalistica, e in più generale dei sistemi che si fondano su stati classisti, non è più vicina quando le forze fra i contendenti sembrano avvicinarsi a un equilibrio. La pace capitalistica è pax imperialista, ovvero regge fin quando uno Paese domina incontrastato; comincia invece a scricchiolare quando le forze vanno parificandosi, proprio perché ognuno dei contendenti imperialisti pensa che sia giunto l’ora di dare la spallata all’odiato nemico. E non ci faccia stare tranquilli neanche il fatto che gli eserciti non risultano ancora pronti a una guerra guerreggiata: la storia ci insegna, ce l’insegna la Prima ma anche la Seconda guerra mondiale, che il conflitto generale non scoppia perché gli eserciti sono pronti per combatterla, non scoppia sulla base di “architetture tecnologiche”, ma dietro la spinta di necessità economico-sociali: scoppiano quando la crisi si rivela alla fine insuperabile e la classe proletaria scende di nuovo nelle piazze, con richieste insostenibili per il sistema stesso.

 

 

[1] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione VII, Capitolo 24: “La cosiddetta accumulazione originaria”, Paragrafo 6, “Genesi del capitalista industriale”, in nota, UTET, pag 949.

[2] Tutti i dati presenti nell’articolo sono tratti dai data-base presenti sito del SIPRI, https://www.sipri.org

[3] Idem

[4] https://it.sputniknews.com/mondo/201710095119571-difesa-sicurezza-navi-incrociatori.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)