“America First!” ed Europa tedesca

Pubblicato: 2017-09-21 19:11:33

Il latte e miele che con il presidente Obama sembrava scorrere a fiumi nelle relazioni internazionali con l’arrivo di Trump si è trasformato in una sostanza melmosa, fatta di un bla-bla economico, politico e sociale. C’è chi ha visto, dopo i vertici della Nato a Bruxelles, del G7 a Taormina e infine nei discorsi alla base militare americana di Sigonella, strappi laceranti tra le due sponde dell’Oceano e la rottura di quel cemento che ha tenuto insieme la solidarietà atlantica (l’impegno di mutua difesa). La borghesia è facile preda di paure, perché al fondo delle sue poche idee la muovono sempre fattori economici che essa non può controllare.

Pensando di alzare un nuovo sipario della storia, i “nuovi uomini della provvidenza” non fanno che recitare vecchie sceneggiate. Molto semplicemente, la realtà materiale a un certo punto erompe in superficie, scardinando strutture economiche e sociali che hanno fatto il loro tempo e con esse desueti e superati modi di pensare, giudizi e pregiudizi: e allora i tanti Pinocchio della Storia si mettono a sgambettare come se avessero vita propria sotto la direzione di Mangiafuoco, il Capitale. Con un bel boccale di birra in mano, la Merkel a Monaco, di ritorno dal G7, dichiara: “E’ finito il tempo in cui potevamo fare affidamento sugli altri… per questo noi europei dobbiamo davvero riprendere il nostro destino in mano. Ovviamente dobbiamo mantenere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti, Gran Bretagna e i nostri vicini compresa la Russia. Ma siamo noi a dover lottare per il nostro futuro”. Qual è questo “destino comune”? qual è questo “futuro”? chi sono i “noi europei”? di che impasto sono fatte queste “relazioni amichevoli”? Chiacchiere! I rivoluzionari sanno che solo con l’insorgere di violente lotte di difesa economica, di disfattismo economico e sociale sotto la guida del partito di classe un giorno tutto andrà in una rotta di collisione fra le classi. Che la grande nazione imperialista americana si faccia spazio tra le piccole entità nazionali, reali o fittizie, grandi o piccole, rovesciandole al suo passaggio come birilli, che presto o tardi il fetore nazionalista si espanderà come densa nebbia velenosa, è inscritto nella dinamica del capitale. Che lo spazio economico di ciascuna potenza economica si stia restringendo e si stia avvicinando lo scontro inter-imperialista è dimostrato dalla gigantesca sovrapproduzione mondiale in cui viviamo da quasi dieci anni. Il fatto che Germania, Cina, Usa, Russia, Giappone, India si attestino come potenti competitori commerciali è solo il preludio di futuri scontri militari, ma anche di… inedite alleanze. Niente è deciso e tutto è già scritto.

Rinascono le ideologie patriottiche, sovraniste e populiste: le tante piccole patrie invocano una partecipazione nell’affare di guerra che si preannuncia. Si accoda, spinta dalla crescente miseria, la piccola borghesia dietro le bandiere della grande, seguita dalle classi medie e dagli strati reazionari. Ma l’illusione di un nuovo domani per la borghesia si gioca ormai nei tarocchi o nei suoi rantoli, ultimi investimenti di sopravvivenza. Si svolgono a ripetizione i vertici economici, che svelano le guerre commerciali in corso, mascherate da disaccordi, divergenze e “incomprensioni”; ma si tengono anche vertici militari, mascherati da incontri “contro il terrorismo”, un “terrorismo” costruito ad arte. I temi cosiddetti economici si fondono ai temi dell’ambiente, delle migrazioni, della sicurezza ai confini degli Stati, mostrando contraddizioni sempre più profonde. A Wall Street, l’indice Dow Jones supera allegramente i 20mila punti e il debito pubblico degli Usa si avvicina a 20mila miliardi di dollari (in realtà, 18.237 miliardi di dollari, il 9% di quello mondiale): entrambi record storici. A livello mondiale, secondo i dati del FMI, se si somma il debito pubblico con quello privato si arriva a una montagna di 152mila miliardi di dollari, il cui messaggio martellante è: il mondo è pieno di debiti! (Il Sole-24 ore, 28 marzo 2017). I singoli Stati nazionali non hanno più l’intrinseca forza di reggere, come un tempo, alla concorrenza internazionale e all’urto possente tra le forze militari che presto o tardi si scatenerà. Il proletariato non è ancor pronto a battersi, ma la pressione economica violenta, che sta crescendo in uno spazio sempre più ristretto, lo spingerà sui campi di battaglia.

 

La macchina esportatrice tedesca e il disavanzo americano

Per la stabilità del sistema capitalistico, rimane vitale la presenza di un formidabile centro mondiale di potere economico e politico. La dinamica propria del capitalismo ci sta facendo assistere al progressivo affievolirsi degli Usa nella sua funzione centrale, in grado, da una posizione di forza, di “assicurare stabilità, garantire fiducia ed equilibrio al sistema”. Ma un nuovo centro di potere adeguato ai tempi, che sostituisca quello che lentamente e inesorabilmente va logorandosi, oggi come oggi non esiste. Non può la sola Germania essere il centro mondiale sostitutivo. La struttura e il potenziale di forza economica e politica della sola area asiatica, rappresentati da Giappone, Corea del Sud, Cina, India nel breve periodo non possono costituire, a loro volta, per ragioni storiche ed economiche complessive, che le contrappongono, quel nuovo centro in grado di affermarsi sulla scena mondiale. Comunque, la differenza tra centro primario (euro-atlantico) e centro secondario (asiatico) non può scendere al di sotto di una certa soglia, perché, così come il secondo accresce la sua accumulazione, altrettanto e più deve fare il primo.

Sulla linea di partenza (Il Sole-24 ore del 21/4/2017) sono quattro aree economiche: le prime 4 aree per esportazioni di merci sul totale del 2016 sono la Cina (16,8%), l’Unione europea (15,4%), gli Usa (11,6%), il Giappone (5,2%). Le prime 4 aree per importazioni sul totale del 2016 sono gli Usa (17,6%), l’Unione europea (14,8%), la Cina (12,4%), il Giappone (4,7%). Da questi dati risultano due linee di forza che si contrappongono: quella esportatrice dell’area sino-europea (32,2%), quasi doppia di quella Usa-giapponese (16,8%) e tale da reggere attualmente la produzione mondiale. D’altro lato, il commercio mondiale in rapporto al PIL totale dal 1960 al 2008 in quarantotto anni è cresciuto dal 25% al 61%, ma poi con la crisi è calato al 58% (2015). E’ statisticamente possibile che già dieci paesi asiatici, secondo i dati Ocse, entro il 2050 possano sfornare il 60% del PIL mondiale, cui la Cina provvederebbe per la metà. La sovrapproduzione ha innescato la crisi e la profondissima crisi attuale preannuncia la rovina del capitalismo. Non è chiaro ancora come si porranno nei prossimi anni le pedine degli Stati borghesi sulla scacchiera mondiale: sicuramente, l’arroccamento attuale, dovuto alla crisi economica, sta riposizionando gli Stati (i pezzi massimi della scacchiera) per gli scontri militari futuri.

Nei rapporti tra Usa ed Europa, la frattura tende ad allargarsi per il dispiegarsi delle diverse spinte economiche sotterranee. Alla Germania o all’Europa tedesca tocca, prima di tutto, subire la pressione americana: il consigliere del commercio USA Navarro accusa la Germania di sfruttare l’euro “scandalosamente basso” nella competizione con il dollaro. Riguardando gli ultimi tre anni, la moneta unica europea si è deprezzata di circa il 25% nei confronti del dollaro, ma la dinamica si è spinta oltre: nel luglio 2008, il suo valore era $1,5769 mentre in dicembre 2016 l’euro è andato giù fino $1,05429, con grande guadagno di competitività e aumento soprattutto delle esportazioni provenienti dalla Germania. Il commercio estero tedesco rappresenta ormai l’8,1% del PIL del paese, l’avanzo corrente più grande del mondo. C’è di più: la Germania è diventata il primo partner commerciale della Cina, la Francia è al secondo posto e gli Usa sono passati al terzo. Il nuovo inquilino della Casa Bianca dice di essere “intenzionato a liquidare” i principi del libero scambio, imponendo un protezionismo che salvaguardi la sua produzione nazionale e una Border adjustment tax (tassa alla frontiera) per bloccare non solo le importazioni dalla Germania, ma anche dalla Cina, dal Giappone, etc. – e, insieme alle merci, anche la massa operaia proveniente dal Messico e non solo.

Il 27 aprile 2017, Trump è uscito allo scoperto dichiarando i suoi obiettivi: puntare a una crescita del 3%, abbattendo il prelievo fiscale dal 35 al 15% e “disinnescando il peso dell’imposizione non solo sulle società ma anche sulle persone fisiche per spingere l’acceleratore sulla crescita”. Gli economisti di Trump non riusciranno comunque a spiegare in che modo il 3% di PIL possa essere raggiunto per l’ammontare del debito pubblico americano: un conto sono le “previsioni e i modelli”, un altro la realtà. Difatti, è impossibile ridurre il debito pubblico, da una parte diminuendo le “spese per la sicurezza sociale e le spese sanitarie”, tagliando gli “aiuti” all’estero, attaccando l’occupazione nel pubblico impiego, facendo rientrare una parte di truppe dall’estero, e dall’altra aumentando le spese militari e programmando massicci spese per le infrastrutture… E’ più probabile che il debito vada verso quota 25 mila miliardi di dollari, invece di restare sulla soglia dei 20 mila miliardi, ottenuta sotto la direzione debitoria alimentata da tutti i presidenti repubblicani o democratici: Reagan (1.7); Bush (1.5); Clinton (1.5); Bush (5.0); Obama (9.3) (in migliaia di miliardi di dollari). Ci vorrebbe una crescita sostenuta, tale da generare entrate fiscali tanto elevate da pareggiare i conti. Ora è certo che il rapporto Deb./PIL alla fine del periodo 1950-1980, sempre in diminuzione in quegli anni, non ritornerà più al 31,8%: perché dal 1980 la percentuale è cresciuta fino al 104,2% di oggi.

Abbattendo il prelievo fiscale dal 35% al 15% – afferma Trump – le cose cambieranno. La curva dell’economista Laffer gli darebbe ragione. Si tratta di una curva parabolica rivolta verso il basso, che lega le aliquote fiscali (asse orizzontale) al gettito fiscale (asse verticale). In essa, si rileva che il massimo gettito si ha quando l’aliquota è del 30%, mentre diventa un po’ più basso tra il 15% e il 30%. La curva, simmetrica rispetto all’asse verticale passante per il 30%, mantiene un valore di gettito ugualmente basso anche tra il 30% e il 45%. Ora, diminuendo l’aliquota fino al 15%, a detta di Trump, l’imprenditore verserebbe le sue tasse, felice e contento, mentre pagando (sempre che paghi!) una maggiore aliquota (fino al 45%), a parità di gettito allo Stato, sarebbe… infelice e scontento. Comunque, poiché le tasse sono parte del plusvalore, esse dipendono dallo sfruttamento della classe operaia. L’idea balorda sarebbe, che diminuendo le tasse, i capitalisti sarebbero spinti gioiosamente a utilizzare la quota risparmiata dal pagamento delle tasse… in investimenti produttivi (sic!).

Dal primo giorno d’insediamento di Trump (21 gennaio 2017), Il Sole 24 ore non ha mancato di sciorinare i dati del disavanzo commerciale degli Usa nei confronti dell’Eurozona nel periodo 2006-2016. Partendo da un disavanzo iniziale di 75,64 miliardi di euro, nei tre anni successivi di accumulazione pre-crisi (2006-2009), esso diminuisce fino a 36,23 miliardi, ma negli anni seguenti (2009-2015) risale rapidamente fino a 119,06 miliardi di euro. Non è tutto: a livello mondiale, la situazione del disavanzo internazionale degli Usa peggiora perché, nel saldo 2016, a essere in surplus negli scambi di merci con gli Usa sono la Cina (347,04 miliardi $), il Giappone (68,94 miliardi $), la Germania (64,87 miliardi $), il Messico (63,19 miliardi $), l’Irlanda (35,94 miliardi di $), l’Italia (28,45 miliardi $), il Vietnam (32,0 miliardi di $), la Corea del Sud (27,66 miliardi di $), la Malesia (24,8 miliardi di $), l’India (24,3 miliardi di $). Non si tratta dunque di un affare che riguardi solo la Germania!

Dal 2000 al 2016, la crescita annua del PIL tedesco dal 3,22% è scesa all’1,9% con una crescita media di 1,3%. Se è vero, dunque, che si è allargata la forbice tra esportazioni e importazioni, tuttavia la caduta del PIL e la sua media mostrano che il saggio medio di profitto tedesco continua la propria caduta. Tornando alla crescita tedesca: dopo l’1,7% del 2015, l’1,9% del 2016 presenta la più forte percentuale di crescita da cinque anni a questa parte, superiore alle attese degli analisti che puntavano su un 1,8%. Nel frattempo, i conti pubblici sono rimasti in attivo: il Paese ha chiuso l’anno 2016 con un surplus di bilancio di 19,2 miliardi di euro, pari allo 0,6% del PIL.

I dati che possono far comprendere come stanno le cose sono questi: la crescita del PIL Usa, dal 2000 al 2016, si è ridotto da 4,1% a 1,6% e quello dell’Eurozona da 3,8% a 1,7%. La disoccupazione Usa da 4,0% si è portata a 4,9%, mentre quella dell’Eurozona da 8,9% è salita al 10%. Segnali questi di un’altra possibile crisi, o – semplicemente – che non si è usciti dalla crisi. La lettura di questi dati da parte degli economisti mostrerebbe, al contrario, un superamento della crisi. L’indice generale d’inflazione dal 2012 al 2016 nell’Eurozona è sceso dal 2,7% a 1,8%, mentre l’inflazione core (esclusi alimentari ed energia) è diminuito da 1,9% a 0,9%.

Nelle capitali europee, l’atteggiamento di attesa sulle mosse concrete che verranno adottate dagli Usa alimenta uno stato di preoccupazione. “Compra americano e assumi americano” è lo slogan che tiene insieme il progetto del completamento del muro con il Messico con il blocco dell’immigrazione proveniente dai paesi dell’America centrale ma anche quello dai paesi arabi e il taglio delle tasse. I massicci investimenti americani di cui si blatera sono soprattutto nel settore militare (54 miliardi di dollari destinati alla difesa), visto e considerato che molti repubblicani, e non solo, hanno le mani in pasta nel settore armamenti. Le previsioni di crescita si orientano verso il finanziamento delle spese militari attraverso tagli alle spese federali (il 37% del Dipartimento di Stato e del budget per gli aiuti internazionali), mentre i proventi della deregolamentata produzione di gas e shale oil verrebbero investiti, dicono!, in opere pubbliche. Ci saranno anche investimenti infrastrutturali di 200 miliardi in dieci anni, che dovrebbero mobilitare 1000 miliardi in fondi privati. Tra gli aumenti svettano le spese militari con un’impennata del 10%, alle quali vanno sommati 2,6 miliardi per blindare i confini e 1,6 miliardi per costruire il muro con il Messico. I tagli riguarderanno anche i programmi sociali e quelli per i poveri, che proiettati su dieci anni raggiungerebbero i 4.500 miliardi. La lista nera riguarda anche la rete del welfare (i buoni pasto che perdono 193 miliardi pari a un quarto del totale, la sanità per i meno abbienti – Medicaid – dove svaniscono 900 miliardi). Altri piani di assistenza sono decurtati di 272 miliardi, i sussidi ai disabili (72 miliardi) con più stringenti criteri di ritorno al lavoro, mentre gli studenti in difficoltà dovranno rinunciare a prestiti per 143 miliardi (Il Sole-24 ore, del 24 maggio). Non c’è dubbio che il capitalismo sia portatore di guerra e di fame. Intanto, per proteggere l’industria americana, nell’agenda di Trump c’è il ritiro dalla Tpp (Trans Pacifico Partnership), che lascia aperto l’intero spazio economico alla Cina, ma anche dal Ttip (Trattato transatlantico), che permette di stabilire un ampio accordo tra l’Europa e il Canada, scavalcando il Nafta. L’uscita degli Usa dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) produrrebbe, a sua volta, l’imposizione di tariffe sulle importazioni, colpendo l’industria tedesca. Se aggiungiamo l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima, la panoramica sull’isolazionismo americano si fa più ampia, mentre si fa più solido l’accordo tra la Germania e la Cina. Di fronte alla prospettiva dei dazi americani, l’Europa tedesca nel frattempo ha accelerato il potenziamento delle rotte commerciali l’Asia, rispondendo alle immense infrastrutture messe in cantiere dalla Cina: “Una cintura - una strada” (One belt - one road). I dazi alle importazioni europee, a loro volta, che dovrebbero favorire gli Usa, risulterebbero invece devastanti per i consumatori americani: le misure protezionistiche, in realtà, non porterebbero ad aumentare i posti di lavoro del manifatturiero negli Usa, ma nemmeno lo farebbe la riapertura delle miniere di carbone, su cui punterebbe Trump. L’economia verrebbe aiutata solo temporaneamente dai dazi perché il deficit commerciale americano negli ultimi 35 anni non ha smesso di aumentare. La vera questione è, dunque, che l’economia americana a livello globale non regge, e arranca invece dietro i surplus commerciali mondiali degli altri paesi.

Diamo ora un’occhiata alla guerra commerciale nel passato e a quella in corso. Il bando europeo della carne trattata con gli ormoni nel settore alimentare ha già una lunga storia: nel 2008, lo scontro, ancora attuale, finì davanti al WTO, che diede ragione agli Usa, in quanto il bando della carne violava le regole internazionali del commercio. Trump ha già annunciato in questi giorni tariffe al 100% su alcuni prodotti come acque minerali e motociclette (a suo tempo colpite da Reagan con una tariffa del 45%). Più importante l’acciaio, uno dei settori cruciali della guerra commerciale: nel 2002, gli Usa, infatti, tentarono di mettere un dazio del 30% e furono costretti a ritirarsi di fronte alla minaccia di una ritorsione europea di 2 miliardi di dollari sulle esportazioni americane, tra cui gli occhiali da sole e il succo d’arancia. Negli anni ’80, il grande concorrente era stato il Giappone, oggi sono l’Ue e la Cina, due concorrenti di alto livello nel mercato mondiale. Per quanto riguarda la produzione di macchine industriali, oggi il gap tecnologico delle fabbriche Usa è assodato. Ma “Trump preferisce attribuire il proprio disavanzo agli iniqui trattati del libero commercio piuttosto che al suo sistema manifatturiero che non regge alla concorrenza”. Il Dipartimento del commercio Usa rivela per il 2016 un deficit commerciale di 4,1 miliardi di dollari: nei settori industriali c’è un arretramento strutturale americano differente da quello del 2003: il suo surplus è dovuto solo all’export di componenti ed equipaggi meno sofisticati, che vanno verso i paesi in via di sviluppo, mentre i macchinari più avanzati sono importati dalla Germania e dal Giappone. Le imprese americane nel settore continuano a perdere quote di mercato e l’Europa è divenuta il principale punto di acquisto delle imprese americane.

L‘economia più grande del mondo, dunque, è rimasta indietro rispetto alle altre nazioni: la situazione si fa risalire agli anni ’80, quando gli Usa persero il settore delle macchine utensili avanzate per diversi motivi tra cui il dollaro forte e il crollo della domanda. Con la globalizzazione in ritirata, le multinazionali tendono a “nazionalizzarsi” nei singoli mercati piuttosto che contare sull’export e sui legami globali. Ma c’è dell’altro. La Germania nel 2016 ha venduto merci e servizi agli Usa per 107 miliardi di euro, mentre ne ha comprati solo 58 miliardi: un surplus quindi di 49 miliardi, che ha spinto Trump a minacciare una tassa del 35% sull’import di automobili prodotte in Messico dalla BMW. Nel settore automobilistico, la Germania ha un attivo di circa 12 miliardi di euro e gli investimenti delle case automobilistiche negli Usa sono massicci: la BMW, in particolare, è il più grosso esportatore di auto. Al G7 di Taormina (27 maggio 2017), il commercio è stato uno dei più gravi fronti di spaccatura: lo scontro è stato evitato lasciando perdere ogni accenno al protezionismo. Anche lo stesso Giappone, che si sente minacciato dalla Cina e dalle distorsioni al commercio derivanti dal ruolo delle imprese statali e dai sussidi pubblici cinesi, ha momentaneamente sospeso il confronto. Tutto viaggia quindi sul filo di un approfondimento delle guerre commerciali.

 

Surplus commerciale tedesco e stagnazione europea

La questione del cambio euro/dollaro è diventata una cicalata generale. Dichiara Peter Navarro, consigliere economico di Trump: “La Germania macina record di surplus delle partite correnti, vendendo i suoi prodotti con una moneta che non è altro che un marco camuffato”; gli risponde Angela Merkel: “il surplus non dipende da inosservanza delle regole della BCE, è segno solo della forza del suo export, i prodotti tedeschi sono competitivi e nel mercato giocano ad armi pari con le altre merci… la Germania non vince sui mercati a causa dei bassi prezzi dovuti all’euro, ma per la qualità dei suoi prodotti”. Poi, Trump denuncia “una lunga e sotterranea svalutazione politica della moneta europea” e, in un’intervista al Financial Times, aggiunge che la Germania sta dominando con una “svalutazione competitiva”… E ancora: la responsabilità dell’uscita statunitense dal Trattato transatlantico (Ttip) è dovuta alla Germania che sfrutta gli altri paesi dell’Unione grazie all’euro; lo squilibrio presente con gli altri paesi europei e con gli Usa è conseguenza del fatto che l’Eurozona non è tenuta insieme da un trattato multilaterale, come si dice, ma da trattati semplicemente bilaterali.

Anche il quotidiano tedesco Die Welt fa rilevare che l’attacco USA non è tanto contro il tasso di cambio, ma contro il ruolo della Germania nell’Unione europea: la politica monetaria è messa dunque sotto accusa non solo dagli Usa ma anche dagli altri paesi dell’Eurozona e dagli alleati di governo. Non è un caso che i paesi euroscettici e i partiti d’opposizione in Europa premano per uscire dall’Eurozona o dall’euro. Non regge l’argomento che il 40% dell’export tedesco derivi da catene di produzione europee e che quindi ne beneficino anche altri paesi.

Il più importante dei dati è il surplus commerciale di 252,9 miliardi di euro nel 2016, rispetto ai 244 del 2015 (il più grosso attivo commerciale dalla fine della seconda guerra mondiale), di cui 60 miliardi nei confronti degli Stati Uniti. Dal 2009 al 2016, la macchina commerciale si è inerpicata da 140 miliardi di euro ai 253 miliardi: il valore più alto del mondo, il più alto di sempre. Da oltre 16 anni (in pratica da quando è nata l’Unione monetaria nel 1999), la Germania continua a esportare più di quanto importi, accumulando crediti finanziari nei confronti dell’Europa e del resto del mondo. Le vecchie polemiche anti-tedesche si accendono facilmente: i critici mettono in evidenza che i valori enormi dei surplus tedeschi non sono solo una conferma della competitività della Germania; la questione è che la continua debolezza della domanda interna tedesca appesantisce le importazioni a danno degli altri partner commerciali dell'Eurozona. Letto da due lati il successo tedesco è, dunque, indice di alta competitività dell’industria nei settori più avanzati o è il segnale di una popolazione che invecchia e che tende a risparmiare e a consumare meno? La grande industria ha sfruttato bene tutte queste condizioni: verso la Spagna, il surplus commerciale è triplicato, da 8 a 24 miliardi; quello verso la Francia è raddoppiato, da 15 a 30 miliardi; mentre nei confronti con l’Italia, si è passati da 5 a quasi 19 miliardi di maggiori esportazioni.

Tutto questo risparmio tedesco, queste entrate dovute alle esportazioni, dove vengono investite? È qui che la discussione diventa politica: in questo surplus è vista l’origine della stagnazione della zona euro, perché la prima economia dell’area approfitta della disponibilità a spendere del resto del mondo, ma la chiude dentro la Germania e non la rimette in circolazione. La Merkel risponde che di questo surplus i tedeschi sono “anche un po’ orgogliosi”, perché vi vedono un simbolo della loro efficienza. Avanzi tedeschi con il resto del mondo erano stati relativamente più limitati nei decenni passati, prima che la bilancia delle partite correnti iniziasse a esplodere dal 2003 fino ai livelli parossistici di oggi. Dunque, l’economia tedesca è accusata di applicare una politica diretta solo verso le esportazioni. Nonostante le azioni messe in campo dalla BCE (il Quantitative Easing), l’uscita dalla bassa inflazione verso il 2% richiede alla Germania l’imperiosa necessità di “un piano” in grado di stimolare la crescita economica attraverso investimenti e un maggiore sostegno ai consumi interni, dando più potere di acquisto a salari e pensioni, e con ingenti investimenti pubblici in opere infrastrutturali.

Il blocco dei salari e l’introduzione del salario minimo, già adottati dal 2012, sono stati i cardini della strategia tedesca, ma già nel 2009, per contrastare la crisi, la Germania ha adottato una “svalutazione fiscale” a sostegno delle aziende esportatrici, cioè un aumento dell’Iva (che colpisce i consumi ma non le esportazioni), abbinato a una riduzione del costo del lavoro, che attraverso una riduzione dei contributi sociali alleggerisce i costi. Nel 2015, tuttavia, le retribuzioni sono salite del 2,3% e il costo unitario del lavoro è aumentato dell’1,5% mentre la produttività è cresciuta solo dello 0,9%.

La questione non è nuova: l’attivo del gigante mondiale dell’export, la Germania, aveva spinto tempo fa lo stesso Obama a chiedere politiche di sostegno alla domanda interna tedesca attraverso tagli fiscali (alle imprese e ai lavoratori), resi possibili dal bilancio pubblico in attivo, e questo attivo avrebbe dovuto essere speso richiamando le importazioni straniere. Oggi, i tedeschi, facendosi trainare dagli altri paesi, hanno risparmi interni superiori ai consumi e quindi sono a tutti gli effetti un elemento frenante e non un elemento trainante: avrebbero dovuto giocare, si dice, un ruolo di locomotiva per l’intera Europa tedesca, facilitando la domanda interna. Perché la Germania non riesce a rilanciare la domanda interna, la vera assente dell’economia nell’attuale fase del capitalismo in crisi? Occorre spostare, si chiede, dalla spesa pubblica quel che serve per lanciare un massiccio programma di privatizzazioni interne; occorre poi continuare a richiamare le importazioni attraverso un aumento della spesa pubblica. La globalizzazione integra da una parte le reti economiche, ma reagisce dall’altra con una chiusura nazionalistica: il 25% del valore aggiunto delle esportazioni tedesche è generato all’estero, quindi non viene direttamente dalla produzione interna. Non si tratta di investimenti limitati: la forte domanda di beni tedeschi giunge proprio dai vicini. La Germania coinvolge nella catena del valore molti paesi, gli Stati Uniti innanzitutto, seguiti da Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e Cina. Occorre quindi (e così le si chiede) un ambizioso piano nazionale di riforme per aiutare a correggere il surplus commerciale che pesa sulla crescita dell’economia europea nel suo insieme.

La polemica comunque è destinata a crescere. Al vertice del G20 che si terrà ad Amburgo il 7-8 luglio 2017, la Merkel metterà sul tavolo il suo dossier sul commercio. Le dichiarazioni protezionistiche americane la preoccupano, non solo come prima economia dell’Eurozona, ma anche come terzo esportatore del mondo. La chiusura alle merci tedesche da parte del primo mercato di destinazione, gli Usa, le creerà grandi difficoltà, in quanto l’economia tedesca dovrà trovare nuovi sbocchi alla propria capacità produttiva in Asia e in Sudamerica. Trump sbraita soprattutto per il fatto che la Germania inonda di automobili il mercato americano mentre i produttori americani non hanno sufficienti sbocchi in Germania. A quel G20, la Merkel, oltre alla difesa del libero scambio, parlerà della lotta a eventuali guerre valutarie, che Trump innescherebbe con la sua dichiarazione di voler un dollaro debole. Se la Cina e la Germania, ma anche la Francia e l’Italia, porteranno al G20 anche il problema del cambiamento climatico (“un brutto accordo, che provocherebbe danni per 3000 miliardi all’economia americana e 2,7 milioni di posti di lavoro”, spiega Trump) lasciato fuori dalla porta al G7 di Taormina, inevitabilmente la contrapposizione tra paesi si allargherà mettendo gli Stati in rotta di collisione. Gli stessi temi agitano il fronte politico in Germania, mettendo l’uno contro l’altro i due partiti di governo, la CDU e la SDP.

Il dato diffuso da Destatis (l’Ufficio federale di Statistica tedesco) registra negli ultimi due anni un avanzo, pari rispettivamente a +0,7 e +0,3%. Sollecitato dalle istituzioni internazionali ed europee (FMI e Commissione europea) a utilizzare il surplus tedesco per un’azione di stimolo fiscale, ovvero di un insieme di iniziative di stimolo della domanda, di mantenimento dell’occupazione, di miglioramento della competitività e di promozione dell’innovazione (misure che dovrebbero essere tempestive, mirate e temporanee), il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble ha respinto ogni richiamo in quella direzione. La stessa Merkel ha sottolineato che la Germania è un paese vecchio come il Giappone, la cui dinamica demografica si traduce in attitudini spiccate al risparmio piuttosto che alla spesa e agli investimenti. Così, tutte le critiche si saldano necessariamente alle posizioni neopopuliste e sovraniste, anti-euro e anti-europee, e alla svalutazione competitiva interna grazie alla leva del contenimento salariale, oltre alle presunte manovre valutarie. Il FMI ha messo in luce le distorsioni dell’attivo corrente tedesco attribuendo all’euro un rapporto di cambio svalutato del 15% per la Germania e sopravvalutato del 6% per la Francia. Il ministro delle finanze (il “falco” dell’austerità) ha aggiunto che non intende utilizzare il corposo surplus di bilancio per innalzare le risorse stanziate (13 miliardi) per l’emergenza profughi: lo userà per ridurre il debito tedesco. Indignati, gli alleati di governo socialdemocratici chiedono che con quelle risorse vengano aumentati gli investimenti. D’altra parte, l’accumulazione del debito pubblico porterebbe all’implosione dell’intera architettura economica dell’Eurozona: il sistema europeo, per poter tornare a consumare e investire, deve prima ridurre drasticamente il suo debito, ma per la socialdemocrazia la spesa pubblica, che alimenta il debito, è lo strumento principale con cui riattivare la ripresa. Per il fronte opposto, le élite politiche devono puntare invece sull’austerità portando i parametri di Maastricht nei limiti dei criteri di convergenza. In questa generale confusione il bla-bla si contorce e si distorce alla maniera delle incisioni di Escher. Stagnazione o indebitamento crescente, liberismo estremo o protezionismo, dentro o fuori la crisi? Mala tempora currunt sed peiora parantur! Le cose vanno male e andranno anche peggio…

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)