1922: il Partito Comunista d’Italia di fronte alla reazione, per la strenua difesa del programma comunista internazionale

Pubblicato: 2016-09-08 20:39:19

Se possiamo considerare le “Tesi di Roma” sulla tattica, discusse e approvate dal PCd’I nel marzo 1922, come il momento culminante di tutto il processo storico che, originato dieci anni prima nel seno del PSI, aveva portato la Sinistra alla direzione del partito, i convulsi dieci mesi successivi rappresentano, in perfetta continuità tattica con le considerazioni teoriche sviluppate in precedenza dal Comitato Esecutivo (CE), il periodo delle verifiche sul terreno delle lotte rivendicative e militari imposte dalla crisi economica, sociale e politica in atto in Italia.

Come noto, il periodo precedente (dal gennaio 1921, fondazione del PCd’I, al marzo 1922, con le “Tesi di Roma”) è stato definitivamente liquidato dagli storici di regime, ispirati da un gramscismo filtrato da alcuni decenni di convinta adesione al nazionalcomunismo staliniano, come quello della nascita “sbagliata”, “troppo a sinistra”, del partito sotto la direzione della Sinistra; “troppo dottrinale”; troppo ossessionato da una presunta ortodossia; troppo rinchiuso nella sua turris eburnea della purezza dottrinale a scapito della perdita di contatto con le grandi masse. Il periodo successivo (gli infuocati mesi estivi del 1922, dei quali tratta il quinto volume della nostra Storia, di prossima pubblicazione, di cui qui di seguito sintetizziamo i contenuti) è quello della prova del nove: che cosa dice, e soprattutto che cosa fa (è, quella del fare, l’ossessione di tutti gli immediatisti!), il partito? è alla guida, o è al rimorchio della classe?

Il partito e le masse

La questione primaria del rapporto partito-masse non era certo stata trascurata dalla direzione del partito. La posizione nostra (di allora e di oggi) è molto chiara: il contatto con la classe è uno dei compiti primari del partito, l’intervento nelle lotte (tutte le volte che è possibile farlo: senza fretta, senza illusioni) è assolutamente vitale, allo scopo di diffondere le nostre posizioni rivoluzionarie, di porci all’avanguardia di ogni movimento, perfettamente consapevoli (allora come oggi) che le nostre parole susciteranno sempre un’accanita opposizione, una totale mobilitazione di tutto l’apparato ideologico borghese, e spesso anche l’incomprensione da parte del proletariato.

Attirare nelle nostre file il proletariato, trasformare le esitazioni, le titubanze, le indecisioni sempre presenti in maggiore o minore misura nella classe, in azione rivoluzionaria: questa era la consegna che imponevano le direttive dei vertici dell’Internazionale comunista a tutte le proprie sezioni nazionali. Vi era poco da obiettare, in astratto, a tali indicazioni. Ma in concreto, come realizzarle? Dovevano valere per l’Europa pienamente sviluppata in senso capitalistico, anche nel senso della composizione sociale, le medesime soluzioni tattiche che la storia aveva imposto al partito bolscevico nella Russia prerivoluzionaria nei suoi rapporti con le altre formazioni politiche operaie? Questo era, in sintesi, il nocciolo della questione controversa che oppose la Sinistra “italiana” al IV Congresso dell’IC.

In un certo senso, le indicazioni che da mesi arrivavano da Mosca (doversi cioè preparare, dopo il periodo delle scissioni dai partiti riformisti, al recupero di intere frazioni di questi; e, quando ciò si dovesse dimostrare impossibile, venire almeno ad accordi tra i vertici, senza escludere soluzioni di tipo governativo parlamentare) trovavano il terreno più fertile non già nelle file del proletariato orientato in senso nettamente rivoluzionario, ma piuttosto nel partito riformista, per il quale, storicamente, le masse erano messe prima della classe, la classe prima del partito e, se possibile, l’elettore prima del militante.

L’accusa di dottrinarismo, così facilmente e superficialmente rivolta alla Sinistra, nasce da coloro che hanno difficoltà a comprendere che tra azione e programma vi è un nesso indissolubile, e che nessuna azione che permetta la maturazione di un processo rivoluzionario all’interno della classe può svilupparsi all’esterno di un programma che abbia fissato con assoluta chiarezza le prospettive, le finalità e i princìpi che stanno alla base di un partito comunista.

Che tutto ciò non potesse essere condiviso dai partiti socialisti europei che si erano sviluppati per la massima parte nel seno della II Internazionale, con la convinzione che le masse andavano conquistate attraverso la applicazione di tutto l’armamentario messo a disposizione della democrazia borghese, fino a giungere alla conquista pacifica del Parlamento e del governo, non può sorprendere. In misura più o meno grande, tutti i partiti europei furono infetti dall’ottimismo riformista, legato all’espansione industriale, almeno fino a quando, a partire dal 1912, prima con le guerre balcaniche e poi con lo scoppio della guerra mondiale, il mito del progresso ininterrotto del capitalismo crollò trascinandosi appresso le illusioni socialiste. Il partito che forse più di altri soffrì della catastrofe, pur non riuscendo a trovare una soluzione autenticamente marxista, fu il partito tedesco. Ancora per lunghi mesi a rimorchio di un incendio sociale che, subito dopo la fine della guerra, fece vacillare le basi stesse del regime borghese, il movimento rivoluzionario in Germania non seppe individuare con chiarezza la necessità di organizzarsi in un organo direttivo, il partito fortemente centralizzato, che si ponesse decisamente alla testa di tutti quegli altri organismi che la lotta aveva spontaneamente suscitato (consigli operai, consigli dei soldati, sindacati, leghe e cooperative, ecc.); e quando si formerà il KPD, attraverso una scissione dal vecchio partito socialdemocratico, sotto la spinta di alcuni gruppi più decisi, la sua direzione si affannerà alla ricerca di una qualche forma di fusione con coloro da cui ci si era appena separati, con l’illusione – che impregnerà la politica dell’Internazionale con dolorosi riflessi anche e soprattutto per il partito italiano – che un “partito di massa” fosse l’unica, suprema condizione per il successo rivoluzionario 1. Levi avrebbe usato parole molto dure nei confronti della scissione di Livorno; il portavoce del partito tedesco nell’Internazionale, Karl Radek, non si sarebbe mai stancato di denunciare il “settarismo” italiano, condizionando pesantemente le decisioni prese dall’Esecutivo dell’IC durante tutto il 1922 (e in seguito) nei confronti del PCd’I.

Senza dubbio, la politica del KPD fu soggetta alle direttive dell’IC in modo ben più profondo di quanto avvenne per il PCd’I, che seppe, per i due anni in cui fu diretto dalla Sinistra, tenere la rotta marxista che si era dato all’atto della sua formazione, cercando di evitare che i contrasti con l’Internazionale, nati dopo il III Congresso, si acuissero.

Il partito rivoluzionario che promuova tattiche in contrasto con i propri fini si condanna alla sconfitta, perché crea confusione nelle masse proprio in quei momenti di massima tensione, nei quali le direttive nell’azione devono essere immediatamente da tutti riconosciute. La “conquista” della maggioranza del proletariato alle tesi e all’azione comunista non può passare attraverso accordi né con nemici dichiarati né con falsi amici pronti a voltar gabbana quando la crisi sociale raggiunge la sua massima tensione. Questa era stata, tra l’altro, la lezione di quei pochi mesi che, dopo l’aprile 1917 e il ritorno di Lenin in Russia, anticiparono la Rivoluzione di ottobre.

Il Partito di fronte all’Internazionale

Al difficilissimo compito di chiarire quali devono essere i delicati equilibri, i limiti invalicabili, tra l’azione pratica (che è necessariamente, in molti periodi, limitata a rivendicazioni di carattere immediato, economico) e la prospettiva storica dell’affermazione rivoluzionaria, il PCd’I si era accinto fin dal momento della sua formazione: precisando innanzi tutto il proprio programma generale, le proprie finalità basate sui propri principi teorici, e fissando quindi, in assoluta coerenza, le proprie tesi tattiche. All’assise del IV Congresso, programma e tesi vennero presentati con forza, non essendo compresi e anzi, per quanto riguarda il programma, venendo la discussione rinviata all’anno successivo (un programma verrà approvato infine solo nel 1928), come se si trattasse di una cosa secondaria, almeno rispetto alle pressanti questioni tattiche del momento! Messo così il carro davanti ai buoi, non può stupire che arrivassero da Mosca direttive prima esitanti, poi poco chiare e infine, nel corso del 1922 e 1923, così fuori rotta da preludere all’imminente catastrofe.

Rigettando o evitando di discutere le tesi presentate dalla Sinistra “italiana”, il IV Congresso si perdeva in mille tentativi di far digerire al proletariato mondiale le parole del governo operaio – fosse o no sinonimo di dittatura del proletariato; fosse o no da applicare in un qualsiasi momento della lotta di classe oppure solo all’atto supremo della conquista del potere; fosse o no una delle numerose tipologie individuate nella analisi di Zinoviev, a grado diverso di “autenticità” – concludendo infine che il programma minimo, tanto caro a Radek, doveva consistere nell’armare il proletariato, nell’instaurare il controllo della produzione, e nel far ricadere sui ricchi gran parte dell’onere delle tasse!

In effetti, nell’affannosa rincorsa “alle masse” – che non significava altro che una politica di blocco con i partiti riformisti, sia pure mascherata, per lo più, da parole di apparente intransigenza – il partito tedesco già nel febbraio del 1923 traduceva le direttive del IV Congresso dell’IC assicurando che “i capi socialdemocratici, sotto la pressione della masse, decideranno alla fine di non essere più l’ala sinistra della borghesia e diventeranno l’ala destra degli operai” 2.

Al IV Congresso le dichiarazioni lette a nome del PCd’I misero in guardia l’Internazionale contro quei cedimenti nei confronti delle “Condizioni di ammissione” approvate dal II Congresso due anni prima, cedimenti che minacciavano di ampliare pericolosamente certi “margini di possibile manovra” in vista di riconosciute “particolarità nazionali”. In omaggio a queste “particolarità”, si era accettata l’adesione quasi totalitaria dell’ex Partito socialista francese, solo per dover constatare, a ogni nuova sessione dell’Esecutivo, di avere di fronte lo spettro malamente riverniciato della vecchia socialdemocrazia parlamentarista e perfino sciovinista; prima ancora, si era avallata la fusione del KPD con la “sinistra” degli Indipendenti tedeschi, solo per vederseli sfuggire di nuovo dopo aver largamente inquinato il partito o averne aggravato le malattie di origine; si era praticato al vertice, per esempio nei confronti del PSI, quel “federalismo” che si rinfaccerà poi, l’anno dopo, nei partiti norvegese e danese, ogni qualvolta e in qualunque paese sembrasse profilarsi una vaga prospettiva di reclutare nuove forze numeriche; e, accanto ai partiti comunisti, si erano accolti nelle file dell’Internazionale rivoluzionaria – quasi alla pari – partiti sedicentemente“simpatizzanti”.

E nella stessa misura in cui si constatavano errori, deviazioni, cedimenti (veri o presunti), e si cercherà di rimediarvi rimaneggiando comitati centrali o esecutivi, si andranno sempre più imponendo da un lato il “pugno di ferro” e dall’altro la sua idealizzazione come metodo e norma interna del Comintern e delle sue sezioni, e come antidoto di sicura efficacia contro, non già gli avversari o i falsi amici, ma i compagni. La Sinistra spiegò allora, con pazienza e con fermezza, a un uditorio che iniziava a diventare sordo, che “la garanzia della disciplina non può essere trovata che nella definizione dei limiti entro i quali i nostri metodi devono applicarsi, nella precisione dei programmi e delle risoluzioni tattiche fondamentali, e delle misure di organizzazione” (Discorso di Bordiga, 11 novembre 1922). In seguito, al V Congresso, si ripeterà ch’era illusorio rincorrere il sogno di una disciplina di tutto riposo, se mancavano chiarezza e precisione nei campi pregiudiziali a ogni disciplina e omogeneità organizzativa; ch’era vano cullarsi nella chimera di un partito mondiale unico, se la continuità e il prestigio dell’organo internazionale erano continuamente distrutti dalla “libertà di scelta”, concessa non solo alla periferia ma al vertice, nei princìpi determinanti l’azione pratica e in questa stessa azione.

Il Partito e le lotte in Italia

Impegnato costantemente nel suo ruolo di sezione nazionale di un movimento internazionale dalla cui guida dipendevano le sorti della lotta sull’intero continente, il Partito non trascurava certo, né avrebbe potuto farlo, per pure ragioni di sopravvivenza, le vicende locali, che vedevano via via accresciute le pressioni sulle classi lavoratrici. Esso affrontava il fatidico 1922 con 1400 sezioni e 70 federazioni, tre quotidiani, una rivista teorica periodica, un bollettino sindacale, un forte movimento giovanile con un proprio giornale, un ufficio sindacale e un ufficio illegale militare.

Soprattutto, esso poteva contare sullo slancio di un proletariato che non aveva per nulla perduto le sue capacità di lotta, nonostante percentuali elevatissime di disoccupazione, l’aumento del costo della vita e la diminuzione dei salari reali. Per tutta la prima parte dell’anno, si susseguirono scioperi in tutti i settori industriali, e i braccianti del sud continuarono le agitazioni, talora con carattere violento. Chimici, edili, tessili, ceramisti, lavoratori del legno, metallurgici scesero ancora una volta in lotta per la difesa del salario e della giornata lavorativa di otto ore, cercando invano, nella neo-costituita Alleanza del Lavoro (AdL), un elemento unificatore delle lotte. Ma, dominata da vertici riformisti non diversi da quelli delle singole organizzazioni sindacali, l’AdL si segnalerà, nel corso della sua breve esistenza (si scioglierà dopo l’esito dello sciopero “legalitario” dell’agosto di quell’anno), per l’incapacità di organizzare le lotte, di dirigerle e di portarle a termine in modo favorevole. E nonostante questo, la forza e la volontà di resistenza proletaria non furono fiaccate che dalla forza delle armi nella seconda metà dell’anno, mostrando a lungo quanto la migliore parte del proletariato lottasse non per la democrazia antifascista, ma per la difesa delle proprie posizioni di classe rivoluzionaria. E si fa veramente fatica a comprendere quanto, molti anni dopo, un transfuga della prima ora, Giuseppe Berti, scriverà a proposito di quelle battaglie: “È un Partito scoraggiato, che mostra ‘disinteresse’ per i problemi urgenti della vita dell’officina e dei campi, che mostra preoccupazione per l’evolversi sfavorevole della situazione politica” 3.

Non questo è il quadro che traspare dalla documentazione fornita da lettere, circolari, articoli, dibattiti all’interno del Partito, che il V volume della nostra Storia metterà a disposizione del lettore; né questo veniva imputato alla sua direzione dai vertici dell’Internazionale.

Per tutto l’anno, e a tutti i livelli di organizzazione, il partito lottò con tutte le sue forze 1) per l’unificazione delle lotte, che i vertici sindacali cercavano invece di ostacolare andando a trattative “caso per caso” (come allora si diceva) col padrone; 2) coerentemente con questa posizione, per invitare la classe operaia allo sciopero generale, visto non come il momento conclusivo dell’assalto al potere (posizione, questa, caratteristica del sindacalismo anarchico, col quale la Sinistra non aveva nulla da spartire), ma come formidabile mezzo per rafforzare la solidarietà di classe, e al tempo stesso 3) per preparare le proprie squadre militari, in modo da difendere tutte le proprie organizzazioni minacciate dalle devastazioni e dagli incendi operati dai fascisti. È all’Alleanza del Lavoro che veniva demandata l’organizzazione e la proclamazione degli scioperi, e ciò non perché si ritenesse che questa nuova struttura potesse di colpo superare esitazioni, limiti, divisioni e incapacità dei vertici sindacali; ma perché essa avrebbe potuto rappresentare, alla condizione di riuscire a conquistarne la direzione, un mezzo efficace per realizzare quel fronte unico proletario che era da sempre la parola di agitazione del partito. Proprio a tal fine, le disposizioni tassative impartite dal Comitato Esecutivo e pubblicate sui principali organi di stampa erano che “i comunisti non devono chiedere né accettare di partecipare come delegati del Partito a riunioni di comitati e di convegni dell’Alleanza”; ma i comunisti interverranno sempre, “e senza alcuna eccezione motivata da pretesi motivi di opportunità”, per presentare “le nostre direttive circa lo scopo, i mezzi e l’organizzazione dell’AdL”. E, a scanso di equivoci – e quasi prevedendo le menzogne di cui saranno intessute nei decenni successivi le varie “Storie” prodotte dal PCI – si sottolineava: “Queste disposizioni sono impegnative per tutti i compagni, ed è superfluo avvertire che si procederà, in via disciplinare, contro quei compagni che non le osservassero” (Il Comunista, 31 maggio 1922). Falso, dunque, che il PCd’I si dimostrasse “guardingo”, o che volesse “ripudiare” questa “prima, ancorché insufficiente, espressione” del fronte unico sindacale, come sostengono Spriano 4 e, a ruota, tutta la folta schiera di storici di matrice gramsciana e staliniana.

Se volessimo individuare i momenti salienti della vita del partito comunista durante l’intero 1922, potremmo dunque dire che la sua attività si svolse su un doppio binario. Quello internazionale, con un occhio sempre costantemente rivolto non solo ai rapporti, via via più tesi, con l’Internazionale, ma soprattutto all’evoluzione generale della situazione europea, nella quale si manifestavano, tanto in Russia 5 quanto in Germania, tendenze più o meno apertamente di destra. Si chiese più volte, perciò, che il “debito” contratto dalle sezioni nazionali nei confronti della Russia venisse ora saldato da queste nei confronti del primo Stato comunista, portando il proprio bagaglio di esperienze di lotta sviluppate da decenni in economie pienamente capitalistiche e compiutamente democratiche, a sostegno delle minacce che si profilavano nello stesso partito bolscevico. E quello interno, in cui si trattava di proseguire la battaglia violentemente polemica col riformismo di tutte le tinte (sia quello dei vertici sindacali sia quello del massimalismo serratiano) che aveva ancora troppa influenza tra le masse; di preparare le masse allo sciopero generale unitario (fu questa la direttiva principale seguita dal Partito quando, a partire dai primi mesi dell’anno, intere categorie di lavoratori incalzate dall’attacco padronale si misero in lotta); di proseguire nell’organizzazione delle squadre militari, la cui funzione era evidentemente di fondamentale importanza, ora per rispondere alle preponderanti forze dell’apparato repressivo dello Stato alleato con le squadre in camicia nera.

La frettolosa proclamazione dello sciopero generale da parte dell’AdL all’inizio di agosto, che rispondeva strumentalmente alle peggiori manovre di tipo parlamentare attuate da Turati e soci per premere su una soluzione favorevole alla crisi ministeriale, portò alla massima mobilitazione proletaria allora possibile e a una sconfitta che, come possiamo giudicare a distanza di quasi un secolo, avrebbe segnato il definitivo arretramento del movimento rivoluzionario.

La lezione ricavata da quell’episodio, in seguito esposta al IV Congresso dell’IC, non farà che ribadire che nulla poteva (né potrà mai) essere intrapreso senza una guida sicura nell’azione, e che questa non poteva (né mai potrà) trovarsi nelle file di partiti od organizzazioni riformiste, come i sindacati, che esitano di fronte alla lotta aperta perché non credono che essa possa effettivamente risolvere la questione del potere. Nello sciopero, fu solo il Partito a dare direttive sicure e precise, perfettamente coerenti con tutta la sua azione precedente; l’insuccesso venne, una volta di più, a confermare che senza unità di azione, senza un coordinamento quasi militare delle forze, la sconfitta è sicura. L’inchiesta promossa dal Partito nelle settimane successive dimostrò le chiare responsabilità da parte dei funzionari sindacalisti socialisti e “l’attitudine degli organi centrali a completare l’effetto dell’attacco fascista” 6. La conseguenza fu che parecchie organizzazioni operaie si sfasciarono e che se, in quel momento, i massimalisti furono contro la politica dei riformisti a capo dei sindacati, ormai “nessuno più li ascolta e ogni giorno di più essi perdono influenza e importanza”.

All’inizio di ottobre di quell’anno venne infine la scissione tra i massimalisti e la destra di Turati, quella scissione che Serrati non aveva voluto né nel 1919 né a Livorno nel !921, rendendosi responsabile di quel ritardo irreparabile che favorì la vittoria del fascismo. Il vecchio partito socialista, che teneva assieme comunisti e riformisti, stringendo alleanze quando il caso con anarchici e sindacalisti, diffondeva attorno a sé la falsa impressione di essere un partito pronto alla mobilitazione generale, mentre nella realtà esso si cullava dei successi elettorali: il falso estremismo massimalista, contro cui fu condotta una lotta inesorabile, era il vero principale ostacolo alla costituzione del fronte unico proletario richiesto dal PCd’I; ciò non fu compreso dai vertici dell’IC, che vollero imporre una riunificazione fittizia (che in realtà non avvenne, per la successiva disgregazione del centro massimalista), con l’idea che essa avrebbe permesso di riconquistare le masse. Il bilancio di questa operazione coatta era ben chiaro:

La stessa scissione di Roma tra massimalisti e riformisti, avvenuta alla vigilia del trionfo del fascismo, dimostra come i massimalisti, ritardando col loro equivoco contegno una soluzione inevitabile, e avvalorando la tesi di una unità così falsa che nemmeno essi hanno potuto mantenerla, sono stati i veri responsabili del disastro; si prova facilmente come fino al luglio del 1922 essi si sono comportati come i protettori della dittatura riformista nella Confederazione e nella Alleanza del Lavoro” 7.

Conclusione

La storia non si fa con i se. E tuttavia tutto l’armamentario critico, di matrice socialista o stalinista, contrario alla direzione di sinistra del partito in quegli anni, si riduce in fondo a questo: SE il PCd’I non avesse assunto quella nota posizione “infantile”, “settaria”, “inconcludente” nei confronti del partito socialista, della democrazia, del fascismo; SE esso non si fosse separato così drasticamente dal Partito socialista che aveva largo seguito nelle masse; SE esso non avesse continuato a mettere ostacoli alla fusione così fortemente voluta dai vertici dell’IC; SE esso avesse rinunciato a essere quello che era stato fin dalla sua nascita; SE avesse rinunciato al suo atteggiamento ostile al parlamentarismo e alla partecipazione a governi “operai” in associazione con i partiti riformisti, ALLORA il fascismo sarebbe stato probabilmente sconfitto. Chi sostiene queste tesi non dice però in che modo si sarebbe prodotta una tale sconfitta. Per via elettorale? Per via ministeriale? Per via militare? La storia dice ben altro: in tutte le situazioni nelle quali un partito comunista decise di scendere sul terreno dell’alleanza con altri partiti, di fatto perdendo la propria indipendenza e la propria identità, ne seguirono sconfitte catastrofiche. Così era stato in Ungheria, così sarebbe stato in Germania 8, nei timidi tentativi di “governo operaio” applicato, e subito sconfitto. Così sarà ancora, anni dopo (nel 1926-27), in Cina. Nessun partito “operaio” riformista in Europa era pronto a resistere con la forza all’apparato militare dello Stato sceso a sostegno di camicie brune o nere; e, in realtà, nessun partito “operaio” riformista l’avrebbe voluto, pronto com’era invece a barattare una del tutto teorica prova di forza con la propria partecipazione a qualsiasi forma di governo democratico. Quei partiti “operai” non avevano nel proprio statuto alcuna forma di consegna militare; il loro “antifascismo”, quello che li porterà nella cosiddetta Resistenza alla lotta per la conquista della democrazia borghese, sarà alimentato solo dalle armi e dai soldi dei regimi borghesi alleati, pronti a dividersi i destini del pianeta a guerra finita.

Non voler accettare di scendere a patti con quei partiti “di massa” che avevano nel proprio programma solo la visione del socialismo gradualista della II Internazionale poteva certo condurre, come avvenne, il Partito comunista alla sconfitta sul piano militare, alla sua più o meno totale disgregazione fisica (e di ciò, tuttavia, non si occupò solo il fascismo!); ciò che si sapeva di poter salvare per le generazioni a venire era l’integrità del programma comunista, dei suoi fini e dei suoi principi, l’intero bagaglio storico delle sue sconfitte e delle sue vittorie. Accettare la via opposta, quella dell’opportunismo e del riformismo, significò per il proletariato europeo, e non solo, la perdita del proprio ruolo nella storia, della propria identità di classe in lotta, in termini che si misurano ancora a distanza di decenni e decenni.

 

 

1 Si veda il nostro Nazionalismo e internazionalismo nel movimento comunista tedesco, Quaderni del Partito Comunista Internazionale, n. 7, 2014.

2 Cit. in P. Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi 1977, pag. 628.

3 G. Berti, Appunti e ricordi. 1919-1926. Annali Feltrinelli 1966, pag. 113.

4 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci. Einaudi, Torino, pag. 195.

5 Secondo Lenin, molto preoccupato per la rapida trasformazione nella composizione sociale in atto nel partito bolscevico, si doveva urgentemente “trovare dei mezzi che permettano di epurare di fatto il partito” (Opere complete, Vol. 33, pag. 234); e ancora al IV Congresso dell’IC, parlando del programma, egli riconosceva che la difficoltà maggiore, per una sua stesura definitiva, stava nel fatto “che non abbiamo quasi affatto riflettuto sulla possibilità di una ritirata e sul modo di assicurare questa ritirata” (ibid., pag. 386): posizione, questa, con molti punti di contatto con quanto sostenuto dalla delegazione italiana, sempre attenta al quadro internazionale.

6 Relazione del PCd’I al IV Congresso dell’IC, Ed. Iskra, 1976, pag. 39.

7 A. Bordiga, “Divisioni e polemiche nel campo proletario”, Stato Operaio, 20 marzo 1924.

8 Si proclamò orgogliosamente che le forze militarmente organizzate in Sassonia e Turingia in quel drammatico ottobre 1923 ammontassero a circa 100mila uomini. Ma per quanto riguarda l’armamento, si va da “un minimo di 600 ad un massimo di 50 mila fucili, il che significherebbe, nell’ipotesi più favorevole, un fucile ogni due combattenti” (P. Broué, op. cit., pag. 716). Ma, a parte la deficitaria preparazione tecnica, vi era a monte, ben più grave, l’illusione di poter far fronte agli eventi con l’appoggio della socialdemocrazia. Il prezzo pagato furono una sessantina di morti proletari, una sconfitta praticamente senza lotta, l’immediata sostituzione del fantomatico governo operaio con un’amministrazione esclusivamente socialdemocratica, la sepoltura senza onore delle grandi speranze nei fronti unici interpartitici che i vertici dell’Internazionale – Radek e Zinoviev in testa – avevano imposto a tutto il movimento rivoluzionario europeo.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)