La bolla nera: storia di guerre e di prezzi

Pubblicato: 2016-07-10 15:30:23

(Riprendiamo le considerazioni anticipate dai due articoli pubblicati su Il programma comunista: “Affoghiamo in un mare di petrolio”, sul n.6/2014, e “Oro nero, autosufficienza americana e giochi di guerra nella crisi di sovrapproduzione”, sul n.1/2015)

E’ passato più di un anno e mezzo da quando il Brent fu quotato 51 dollari il barile (d’ora in poi, $/b) e il WTI 48$/b (Il Sole 24 ore, 7/1/2015). All’inizio di quest’anno, il prezzo del petrolio ha raggiunto la soglia dei 27$/b tornando sotto i minimi di 13 anni fa e sorpassando al ribasso il livello di 36$/b all’epoca dell’attacco Usa all’Iraq, nel 2003 (Il Sole 24 ore, 21/1/2016). Da gennaio a fine aprile, è bastato un imprevisto rialzo al di sopra dei 45$/b per far pensare a una possibile alleanza tra produttori: prima, in febbraio, l’approccio fra Russia, Arabia saudita, Qatar e Venezuela, poi, il 17 aprile, il tentativo di accordo al vertice di Doha in Qatar, fra Arabia saudita e Russia (cui si sono associati una ventina di paesi, Opec e non), sulla necessità del congelamento o del taglio della produzione – cui non crede nessuno, e infatti l’incontro s’è concluso con un fallimento. Il che dimostra quanto contrastato sia lo scontro economico-politico, non tanto – come sostengono alcuni – “per l’assenza in quest’incontro di Iran, Usa, Canada, Norvegia, Messico, Cina” quanto per la forte concorrenza dei molti fronti nazionalisti in cui si trovano ad agire i paesi produttori.

Il prezzo del greggio segna dunque ancora, come da due secoli a questa parte, la realtà economica e ci dice la crescente proletarizzazione dell’intero Medioriente. Più che “il ruolo egemone” saudita nel contrastare con i bassi prezzi la concorrenza americana, russa ed iraniana, i dati non fanno che confermare l’attuale crisi di sovrapproduzione mondiale, nella quale tutti gli Stati dell’area sono coinvolti. La funzione politica destabilizzante (l’elefante nella cristalleria) riconosciuta al regno saudita è strettamente proporzionale all’alleanza fondata su molti fattori, sul petrolio, sul denaro e sulla presenza militare americana, nello stesso tempo in cui lo stato di rottura con l’Iran non lascia dubbi sul proseguimento e sull’estensione della dinamica di guerra. La riduzione del prezzo è solamente un aspetto dell’attuale guerra economica: ridurre tutto a una questione di quotazioni del greggio contro il concorrente è, tuttavia, solo una fantasia economicista. La pericolosità della situazione, che vede alleati contro l’Isis una frazione dei sunniti, e sciiti, russi, siriani da una parte e americani, turchi, sauditi e islamici delle varie specie dall’altra (tutti, in realtà, su fronti di alleanze equivoche), lascia pochi margini duraturi a un cessate il fuoco in Siria e nell’area turco-kurda, tanto quanto ogni tentativo di accordo sui prezzi. La minaccia saudita (“la nostra battaglia non teme i prezzi bassi, la richiesta del taglio da parte nostra della produzione è ridicola”) di aumentare quest’anno financo a 12,5 mbg (dagli 11,5 attuali) la produzione, era sulla stessa linea dell’incontro di Obama a Riyad per definire un contratto di massicce forniture militari all’Arabia saudita.

Lo stato di deflazione del greggio si affianca ancora alla riduzione della maggior parte dei prezzi delle materie prime non energetiche e l’economia rimane in uno stato di generale crisi. Le cause e gli effetti si compenetrano e si scompongono in una dialettica complessa, in cui alla famosa legge borghese della domanda e dell’offerta si fa giocare il ruolo di protagonista, mentre altre e più profonde sono le leggi di natura strutturale che intervengono. E qui solo la teoria marxista è capace di sciogliere i nodi della dinamica economica in corso. Essa ci spiega che il valore di un barile di greggio (159 litri) è legato, come per tutte le merci, al “tempo di lavoro socialmente necessario” alla sua produzione. Il prezzo (costo di produzione) è la misura di questo “valore-tempo di lavoro” in denaro, di cui il rappresentante ufficiale oggi è il dollaro, espressione della moneta mondiale dominante. I costi di produzione per barile (la media della spesa per estrarre un barile di petrolio o gas equivalente negli impianti – i cui costi di sviluppo sono stati già ammortizzati – è di 43$/b: dati AIE, Bloomberg) vanno dagli 8 $/b per l’Arabia Saudita ai 44$/b del Regno Unito (al di sotto della media 43$/b si ha un “utile”, al di sopra si ha “perdita”). Approssimativamente tra gli 8 e i 10$/b si trovano tre paesi Arabia, Iraq e Iran; tra 19 e 22$/b, Russia, Indonesia, Usa (non shale), Norvegia; tra 23 e 29 $/b, Usa (shale), Canada, Venezuela e Nigeria; tra 35 e 44/$/b, Brasile e Regno Unito. Le relazioni tra compratori (le grandi compagnie petrolifere), venditori (i grandi paesi produttori mondiali del cartello Opec, che controllano il 78% delle riserve mondiali di petrolio e il 50% di quelle di gas naturale) e i grandi paesi industriali consumatori, attraverso le più varie transazioni monetarie, finanziarie, borsistiche (nel lungo periodo), rendono manifesta la realtà economica del valore (petrolio, gas).

A pesare sui prezzi attuali del greggio sarebbe l’immensa offerta produttiva (costituita dalle estrazioni dei paesi Opec che hanno viaggiato a livelli record, dall’azione innovativa svolta negli anni recenti dallo shale oil e suoi tempi di produzione, dalle ampie scorte accumulate negli Usa, dall’immensa gestione petrolifera-gasifera russa e dalla ripresa della trivellazione irakena e iraniana, etc.) e la ridotta domanda dell’economia reale mondiale, dovuta alla crisi di sovrapproduzione cominciata otto anni fa, in cui siamo ancora immersi e i cui caratteri distintivi sono la chiusura delle aziende, la riduzione degli investimenti produttivi industriali, la crescita della disoccupazione, l’estendersi della flessibilità con l’ampliamento del precariato mondiale, il salvataggio di banche sature di prodotti tossici, di titoli spazzatura, di enormi debiti pubblici e privati. La riduzione della crescita del Pil cinese, di molti paesi orientali emergenti, delle maggiori economie sudamericane (Brasile, Argentina, Venezuela), oltre all’affanno dell’economia europea, sono le manifestazioni di un’emergenza che potrebbe alimentare una catastrofe.

L’alternarsi di caduta e di aumento del dollaro e, in rapporto a esso, delle altre valute (yuan, yen, €), la guerra di tutti contro tutti in Medioriente e i giochi di alleanze che si intrecciano e si sciolgono con la caotica dinamica produttiva di greggio e armi e corrispondente distruzione del territorio siriano ed yemenita, confermano la crisi dell’economia mondiale. Lo scenario è quello dell’assottigliarsi sul piano mondiale dei profitti e delle rendite con la caduta del saggio medio di profitto, il taglio drastico degli investimenti industriali, la diminuzione dell’occupazione mondiale, l’aumento del precariato a livello planetario e la riduzione generalizzata dei prezzi con un indice di inflazione che sfiora lo zero. La sfida al ribasso generalizzato dei prezzi sembra in attesa di uno stato di biforcazione critica in cui l’intera economia si porti rapidamente a una situazione di crescita inflattiva, alimentata da una creazione di denaro fittizio – una biforcazione, che, attraverso una guerra tra valute prima e un nuovo protezionismo poi, spiani il terreno a una realtà di guerra.

Breve storia dei prezzi del petrolio

I dati storici relativi al prezzo del greggio raccontano processi economici di grande accumulazione di capitale, drastiche recessioni, crisi di sovrapproduzione. All’interno di crisi politiche e sociali (guerre, scontri, embarghi, sanzioni), i prezzi permettono di dare un senso reale alla gigantesca dinamica capitalistica costituita da immense rendite e profitti commerciali. In linea generale, sembra dai dati storici che in 150 anni la media del prezzo del petrolio (in dollari 2016) sia di 32$/b, per cui non meraviglia l’attuale tendenza verso il basso. Esaminando i prezzi, vediamo che, dal 1970 al 2016 (46 anni), il prezzo ha manifestato non solo una grande volatilità verso l’alto o verso il basso in epoche diverse, ma ha determinato soprattutto straordinarie trasformazioni economiche e sociali in Medioriente. L’Arabia saudita così come il Texas non sono affatto lande sperdute, disseminate di trivelle: per intenderci meglio, ai prezzi del petrolio e delle materie prime vanno associati grandi processi produttivi, sviluppo economico, ricchezza a un polo e al polo opposto l’immensa miseria dei senza riserve. Il prezzo del greggio (così come il prezzo delle materie prime industriali) è un potentissimo strumento politico-economico, sia dalla parte dei paesi produttori sia da quella dei paesi consumatori: è un termometro che misura lo stato di salute dell’economia mondiale, un barometro che segnala l’avvicinarsi di qualche tempesta geopolitica. Esso incide sulla variazione delle rendite, dei profitti, degli interessi dell’economia mondiale in quanto è una materia prima che sta al centro di una macro-economia di merci essenziali: benzina, gasolio, kerosene, nafta, lubrificanti, concimi, plastica, paraffina, asfalto, oli combustibili... Al gas delle lande siberiane e di quelle sparse ovunque sulla terra e allo shale gas, si associa il prezzo dei metalli della London Metall Exchange (LME), anch’esso in caduta.

Gli anni del miracolo economico e la forte crescita economica cominciata all’inizio degli anni ’50 del ‘900 in Occidente imposero la loro dinamica di sovrapproduzione. Se nei paesi industriali si festeggiavano i “trenta anni dorati” del dopoguerra, in molti paesi del cosiddetto Terzo mondo il lento ma costante peggioramento delle ragioni di scambio sembrava non finire mai. Questi erano fortemente dipendenti dalle esportazioni delle loro materie prime, visto che la loro industria manifatturiera era a uno stadio embrionale ed essi erano costretti a importare la maggior parte dei prodotti industriali dall’estero. La crisi di sovrapproduzione che sopraggiunse negli anni 1974-’75 sconvolse l’impalcatura economica e sociale, e impose la non convertibilità dell’oro nei confronti del dollaro (15 agosto 1971): il che volle dire non solo la fine di Bretton Woods, ma soprattutto l’ingresso in un periodo di guerre in Medi Oriente, a loro volta destinate a portare all’aumento del prezzo del petrolio, che si mantenne tale per più di un decennio. Fenomeni concomitanti con la sovrapproduzione furono poi il surriscaldamento del rapporto capitale-lavoro nell’autunno caldo (1968-‘69), in Italia e Francia in particolare, e l’aumento del costo del lavoro, contemporaneamente alla crescita dei prezzi dei prodotti industriali e al raddoppio del tasso d’inflazione.

Dal 1972-73 al 1978-79, gli eventi che spingono rapidamente in alto il prezzo del greggio sono la guerra del Kippur e il primo shock petrolifero (a causa dell’embargo saudita), la crisi mondiale del 1974-’75 e, pochi anni dopo, le lotte, i grandi scioperi e le proteste di massa che preannunciano e seguono la cacciata di Reza Phalavi di Persia (cui si affianca il secondo shock petrolifero), manifestazioni che sfoceranno nella “rivoluzione” komeinista. Il prezzo sale da un minimo di 8$/b a un massimo di 35$/b, che rappresenta il più rapido aumento del prezzo del greggio mai avutosi, tale da caratterizzare la crisi generale mondiale, a metà decennio: quella che noi abbiamo chiamato “crisi storica” (crisi di sovrapproduzione mondiale) e gli economisti borghesi “crisi di stagflazione” (stagnazione-inflazione). Tuttavia, la dinamica economica ha un suo determinismo che non può essere deviato nel lungo periodo: la sovrapproduzione deve seguire il suo corso, e il processo inflazionistico (soprattutto delle materie prime) doveva trovare un’altra soluzione, quella deflattiva. Così, è la crisi di sovrapproduzione del 1974-75 a determinare, con effetto ritardato, la successiva caduta dei prezzi del greggio (bassa inflazione), dalla prima metà degli anni ’80 in avanti: dal 1979 al 1989, si torna ai 18$/b. L’intero Medi Oriente viene scosso, dall’Egitto alla Palestina-Israele, al Libano; la repressione in Iran e l’attacco antioperaio nello stesso periodo rimettono in moto il fronte di classe anche in Europa: lo sciopero e l’occupazione della Fiat da parte dei metalmeccanici in Italia, la lunga lotta dei minatori in Inghilterra, i grandi scioperi nei cantieri navali polacchi di Danzica e Stettino e la guerra Iran-Irak con il suo milione di morti, occupano 8 anni di questo decennio. E’ la famosa (per gli storiografi) “epoca reaganiana-thatcheriana”, che imporrà una svolta al capitalismo mondiale. In termini economici, la crisi del 1980-81 come coda della crisi 1974-75, quella elettronico-informatica in Giappone (1987) e quella economico-politica russa (1989) completano alla fine del decennio il quadro economico con un blocco ventennale dell’economia giapponese, la crisi profonda della struttura economica (industria pesante civile e militare) e sociale della cosiddetta Unione Sovietica e la stagnazione tedesca per l’aggregazione della Germania orientale.

Il decennio che segue è un susseguirsi di eventi di guerra e di crisi economiche e politiche: la crisi economica generale dei primi anni novanta (1990-’91), l’invasione irakena del Kuwait e la prima guerra del Golfo (1990), impongono prima la risalita del prezzo a 40$/b e poi la sua lenta discesa sui 20$/b. Quel decennio presenta anche una crescita straordinaria dell’economia: un’immensa massa di capitale monetario e finanziario in circolazione determina un lungo periodo di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati. Accompagnano la crescita le crisi in Sud America e nel Messico e, ancora alla fine del secolo, quella delle tigri asiatiche. Nel primo anno del nuovo secolo, una nuova pesante crisi di sovrapproduzione (2000-01) si abbatte sull’economia mondiale: il prezzo rimane stazionario tra i 25 e i 30$/b anche dopo l’11 settembre 2001 (attacco alle Torri gemelle).

E’ con l’attacco degli Usa all’Iraq (2003) che il prezzo del barile ricomincia a salire. Nel secondo dopoguerra irakeno, inizia la rapida ascesa: nel 2004, il prezzo da 29$/b (gennaio) si porta sui 50$/b, ma è con l’inizio della crisi di sovrapproduzione del 2006 che il prezzo del greggio si spinge già ai 70$/b. Prima la crisi tra Usa e Iran, poi la crisi dei mutui subprime (Fed e Bce immettono nel frattempo liquidità sui mercati) spingono il prezzo sui 78$/b. Nel gennaio 2008, il WTI raggiunge i 100 $/b, in maggio la quota sale a 120 $/b, il 26 giugno WTI e Brent salgono oltre i 140$, nel luglio (per la nuova tensione Usa-Iran) il greggio arriva alla quota massima di 140,7 $/b.

A questo punto, con l’entrata nel fronte della crisi, la più profonda dal crollo 1929, si ha prima un crollo rapido del prezzo e poi un processo altalenante: il 12 settembre 2008, il greggio ritorna ai 100$/b, il 16 settembre la bancarotta Lehman Brothers spinge il 22 settembre il barile sotto quota 90 $/b, poi il barile schizza ancora in alto da 105 a 130 in una sola giornata per il dollaro debole; il 6 ottobre (il lunedì nero delle borse mondiali), il petrolio è però sotto quota 90, e il 17 febbraio 2009 la recessione deprime drasticamente il prezzo del barile fin sotto i 35$ (il punto più basso di questa discesa). A maggio, il WTI ritorna a sfondare quota 60$ e il 9 giugno del 2009 in rialzo la domanda Usa il WTI si trova sopra i 70$/b. Il rimbalzo continua fino a metà del 2011 (125$/b). Per tre anni, sembra che il prezzo presenti una certa stabilità, intorno ai 100$/b. Poi, nel luglio 2014, la tendenza al ribasso prevale sull’oscillazione altalenante: un nuovo crollo riporta il prezzo a 50$/b. Per tutto il 2014 e fino a gennaio 2015, si mantiene la tendenza deflattiva. Tra piccoli balzi e rinculi, arriviamo così sotto i 27$/b della fine di gennaio 2016. A maggio di quest’anno (Brent: 45,52$/b; WTI: 44,66$/b), la dinamica economica non cessa di mostrare le sue contraddizioni: mentre le trattative naufragano a Doha, il surplus di greggio che da due anni pesava sulle quotazioni del barile scompare per un duro sciopero dei lavoratori che ha ridotto la produzione del Kuwait di quasi 2 milioni di barili al giorno (mbg), cui si aggiungono il grande incendio in Canada con la riduzione di 1-1,6mbg e gli scontri terroristici sul delta del Niger. L’Arabia saudita intanto sogna di liberarsi della dipendenza del petrolio, ma nel frattempo si propone di affilare le armi per un ulteriore aumento della produzione: si prevede un aumento della domanda di greggio di 1,2mbg. Salta il patto di non belligeranza con la Russia in merito al congelamento della produzione: “ci impegneremo a soddisfare la domanda esistente e addizionale della nostra crescente base di clienti, col sostegno della massima capacità produttiva sostenibile”. Ma un nuovo crollo dei prezzo si prevede per l’aumento della produzione in Iran, una crescita velocissima che sfiora i 4,2mbg, più di quanto si estraesse prima delle sanzioni.



Il big oil crash e il proletariato

La crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali, spiega Marx, determina effetti storicamente distruttivi, non solo in generale, ma soprattutto nei settori delle materie prime, dell’energia e dei mezzi di sussistenza generali. Le crisi manifestano i caratteri classici della deflazione, ovvero la caduta dei prezzi, e, se si tratta di petrolio, anche la chiusura di aziende, il taglio della produzione, l’arresto delle trivellazioni, le dismissioni degli assets, i tagli dei costi produttivi e ancora la revisione dei bilanci, le difficoltà dei pagamenti, la ricerca affannosa di credito, il rinvio degli investimenti e, ultima ma non ultima, la fusione di aziende dello stesso settore. Nella dinamica dei prezzi entrano in conflitto non solo i produttori, ma anche compagnie petrolifere e consumatori finali. Se l’immensa offerta di greggio cresce così da ridurre il prezzo unitario, tuttavia il fatturato dei paesi produttori (la massa di rendite, gli interessi e i profitti: quindi, le entrate) si restringe fino a livelli cosiddetti insopportabili. E’ allora inevitabile che si faccia sentire il “costo sociale”: le masse proletarie attive e di riserva saranno spinte sull’orlo della miseria, e a esse si dovrà pur dare qualche “risposta” perché possano difendersi dal prosciugamento delle fonti di entrata (redditi, pensioni, salari, elemosine, assistenza sociale). Marx chiama “distruzione dei capitali” gli effetti prodotti dalla crisi di sovrapproduzione nella quale valorizzazione e realizzazione del plusvalore si bloccano come effetto della sovrapproduzione precedente. L’interruzione dei flussi, i ritardi nella circolazione, gli eventi politici e militari ostacolano la continuità del flusso delle merci e di capitali, imponendo la riduzione dell’incremento del processo di accumulazione.

Dunque, l’ulteriore riduzione del prezzo del greggio (l’immensa bolla deflattiva) trascina verso il basso il prezzo di molte materie prime (rame, alluminio, ferro), ma anche la massa enorme di prodotti alimentari. Che si faccia concreta la possibilità di uno scoppio della bolla immobiliare cinese, rivelata dal crollo della borsa di Shangai e di Hong Kong; che, a causa della diminuzione del Pil al di sotto del 6,5%, il valore dello yuan scenda per spingere le esportazioni (timori di svalutazioni competitive); che, collassando, la maggior parte dei paesi emergenti trascini tutta l’economia mondiale; che la Fed si prepari ad alzare i tassi d’interesse per “frenare l’attuale crescita americana” (cosa che non convince molto), comunque sia il timore è che la crisi economica si trasformi in una tempesta che tornerà a investire i paesi sempre più in difficoltà, mentre un’immensa polvere continua a sollevarsi dai bombardamenti in Medio Oriente.

Tra il 2003 e oggi, si è assistito quindi a un’enorme tsunami di petrolio e di gas, preparato, ben prima della crisi, da investimenti, organizzazione della produzione e sua messa in produzione – o da un più lungo intervallo di tempo (trent’anni), per lo sviluppo di nuove tecnologie come quella del fracking, che sta dietro al boom della produzione Usa. Capacità produttiva e reale offerta sono grandezze non equivalenti: c’è uno scarto temporale notevole tra la prima e la seconda, perché la prima indica la dinamica produttiva e la seconda la dinamica circolatoria, ovvero la reale presenza del petrolio sul mercato – a dimostrazione che non esiste una dinamica di equilibrio tra produzione e consumo, tra vulcano della produzione e palude del mercato. Lo stato di saturazione – abbiamo scritto negli articoli citati all’inizio –sopraggiunge quando la sovrapproduzione tocca livelli per i quali gli incrementi di plusvalore iniziano a diminuire o, meglio, quando il saggio di sfruttamento “nella produzione” dà segni di rallentamento, trascinando con sé nella discesa (nella circolazione reale) la realizzazione del plusvalore e con essa profitti, rendite e interessi.

Il rallentamento degli investimenti nel corso della crisi lega sia i paesi produttori che le compagnie petrolifere: i primi vorrebbero continuare a produrre anche a prezzi ridotti, mantenendo i ritmi produttivi e auspicando che la crescita della massa di profitti giochi a favore della diminuzione del costo unitario contro la caduta del saggio medio di profitto. La sovrapproduzione negli Usa è stata preparata dalla “rivoluzione” tecnologica delle produzioni da giacimenti di shale oil, che hanno permesso di produrre oltre 4 mbg in più rispetto al 2006, insidiando così l’Arabia Saudita e la Russia come primi produttori mondiali di petrolio. La vera preoccupazione dei concorrenti è stata che gli Usa cominciassero a esportare il loro petrolio, superando l’auto-embargo del passato nei confronti dell’Opec. La decisione del Congresso americano di esportare la produzione all’estero ha messo in moto la concorrenza internazionale, al centro della quale è nata una guerra commerciale tra i grandi colossi produttori tradizionali e produttori di shale oil. Questa crisi spiega anche molte altre cose: per esempio, la riduzione dei prezzi operata dall’Arabia saudita nel tentativo di aumentare in Asia le proprie quote di mercato; le quote insufficienti richieste dalla Cina a causa della riduzione del suo Pil; la situazione di guerra venutasi a creare in Ucraina con il conflitto sanguinoso tra interessi politici e lotta commerciale tra consumatori, gestori e produttori; il grande sviluppo della produzione petrolifera e gasifera in quest’ultimo decennio, con il posizionamento di oleodotti e gasdotti che dalla Siberia si dirigono verso l’Occidente europeo e l’Oriente cinese (e che attraverseranno le profondità del Mar Nero, del Mar Caspio, del Mar Baltico, del Mar del Nord e le plaghe asiatiche). E ci dice – questa crisi – che i grandi protagonisti hanno cominciato a posizionare sulla scacchiera mondiale alcuni dei loro pezzi più importanti, per il prossimo war game.

Come influisce la crisi di sovrapproduzione sulla guerra in corso e sul proletariato? L’Arabia saudita (con la sua compagnia petrolifera di Stato, la Saudi Aramco, il maggior gruppo mondiale del settore, con riserve accertate oltre i 360 miliardi di barili più altri 50 miliardi di gas) può permettersi di resistere al crollo, dato il prezzo ridottissimo del “costo di produzione”, nello stesso momento in cui le sue entrate petrolifere sono scambiate con le armi americane leggere e pesanti (un contratto da 95 miliardi), e di alimentare così la guerra in Siria e in Yemen: realtà, questa, che non è quella di Venezuela, Russia, Brasile, Indonesia e Nigeria, dove le casse dello Stato si stanno svuotando per la drastica riduzione delle entrate. Riguardo alla guerra che sta sconvolgendo il Medio Oriente, tutte le supposizioni dei media sulla cosiddetta presa di distanza americana sono solo bufale, così come lo è la versione neutralista di Israele.

Per ciò che riguarda le compagnie petrolifere, l’effetto della crisi si è riversato principalmente sulle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia: la britannica British Petroleum (Bp) ha comunicato 4 mila licenziamenti (il totale dei dipendenti della Bp ammonta a 80 mila, di cui 40 mila nel settore esplorazione e produzione), mentre la brasiliana Petrobras, oppressa dai debiti, dalla speculazione e dalla svalutazione del real, ha ridotto per la terza volta in sei mesi il budget per gli investimenti di 32 miliardi di dollari. Le più grandi compagnie, la statunitense Exxon Mobil, il maggior gruppo privato del pianeta, e la messicana Pemex, stanno facendo salti mortali per ridurre le spese. Per essere sostenibili, le quotazioni richiederebbero almeno un prezzo di 60$/b. Le compagnie si indebiteranno, dovranno ridurre i dividendi, cedere altri assets, oppure (ed è certo) il proletariato non solo dovrà tirare la cinghia, ma precipiterà in un abisso di miseria. Per i lavoratori dell’industria petrolifera, i licenziamenti sono stati pesanti (si parla di 250 mila posti persi in un anno e mezzo) e potrebbero continuare. Il flusso dei lavoratori cacciati dai luoghi di lavoro e dei migranti espulsi dai territori di guerra è ormai un viaggio senza ritorno: la merce forza-lavoro in sovrappopolazione si spinge, come durante le grandi carestie del passato, verso il territorio europeo, dove pensa di sopravvivere. Si prevede che, nel settore del Gas&Oil, gli investimenti si ridurranno a livello globale di circa 600 miliardi di dollari.

Nei prossimi anni, la conseguenza di un andamento come quello che si registra nell’altalena storica tra crescita esponenziale dei prezzi nel processo di sovrapproduzione e profonde cadute in quello della crisi potrebbe essere – ci raccontano – un crollo della produzione petrolifera globale, una fuga dalla produzione seguita da un blocco del mercato. L’altro lato della prospettiva è una risalita impazzita del prezzo per una crescita della domanda… bellica. Le difficoltà di Petrobras (la compagnia brasiliana più indebitata) sono maggiori. Dieci anni fa, gli scenari erano positivi, con i giacimenti offshore che spingevano alla sovrapproduzione; adesso, con i tagli agli investimenti, cominciano ad arrivare revisioni al ribasso dei target di produzione. Non solo. Nei mesi scorsi, la BP ha sborsato a sua volta una quantità notevole di miliardi per tre eventi concomitanti: il ribasso del petrolio (64% inferiore al profitto realizzato l’anno scorso), il disastro ambientale sulle coste della Louisiana (18,7 miliardi di dollari) e la crisi libica. E non basta: dall’instabilità del Nord Africa, in particolare della Libia, altre note dolenti vengono alla BP per ciò che riguarda la quota che essa possiede (19,7%) del gruppo russo Rosneft, a causa delle svalutazioni e della caduta degli utili.

C’è poi un altro aspetto della crisi. Con il petrolio in caduta libera, si accendono i segnali delle fusioni interne. Così, a utili dimezzati per il crollo del petrolio, l’olandese Royal Dutch Shell tenta si salvarsi fondendosi con il British Gas Group: il colosso anglo-olandese è stato la prima delle grandi compagnie petrolifere a tentare, l’anno scorso, l’acquisizione. Ma soprattutto si metteranno le mani su aree particolarmente importanti, come quella delle acque profonde brasiliane, dell’Africa orientale e dell’Australia, dove il British Gas Group opera da tempo. Per gli operai, ci sarà il taglio di 10 mila dipendenti, mentre gli investimenti scenderanno al di sotto di 33 miliardi di dollari.

Il ciclo di sovrapproduzione ci dice dei grandi investimenti mondiali che, nei decenni passati, prima della crisi iniziata nel 2008, hanno “rivitalizzato” le produzioni di petrolio in ogni parte del mondo, e non solo negli Usa. Una delle risorse capitalistiche in quegli anni è stata di allungare la vita produttiva dei giacimenti ritenuti in declino, rendendo possibili produzioni un tempo non economiche, a causa degli enormi investimenti richiesti. E attestano questa legge le migliaia di morti nelle miniere di carbone, di diamanti e materie prime di tutte le specie, nelle condizioni peggiori di sfruttamento e di risparmio di capitale costante, con il ricavo di enormi extraprofitti ai prezzi medi di mercato. Quanto allo shale oil, è il prodotto della necessità di ottenere una produzione a basso costo, utilizzando una tecnologia che ha devastato interi territori: un’immensa massa di credito è stata fornita a piccoli e medi produttori (indebitati fino al collo) che speravano di vincere la concorrenza mondiale con un prezzo che si aggirasse attorno ai 50$/b. La diminuzione sotto i 30$/b ha spento i loro furori d’arricchimento.

***

Gli scenari futuri? La crisi ha scavato e sta scavando ancora più in profondità. Non solo le guerre e il terrorismo attuali, non solo i massacri tra la popolazione e la fuga di milioni di civili sono al centro della devastazione generale. La “corsa agli armamenti”, che riprende quota, indifferente a qualsiasi fronte di guerra, ha rapidamente mutato gli equilibri di forza economici: Cina (maggior consumatore mondiale di energia) e Usa (che, contendendole questo primato, è divenuto un grande esportatore con lo shale oil) sono diventati gli aghi della bilancia mondiale. Non a caso, all’interno delle strutture istituzionali che hanno caratterizzato la realtà economica e politica energetica, l’AIE (Agenzia internazionale per l’energia, che ha garantito la vita ai paesi consumatori), l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e l’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di Petrolio, che controlla il 40% della produzione mondiale) stanno entrando (o sono già) in rotta di collisione: si parla infatti di divorzio fra i primi due sulla gestione finanziaria e organizzativa, alla prima essendo affidato il compito di coordinare le riserve strategiche di petrolio dei paesi membri. Quanto a AIE e OPEC, la loro crisi è ormai sotto gli occhi di tutti: una dichiarazione dell’industria petrolifera russa ne dichiarava la morte, mentre le divisioni all’interno dell’OPEC sono cresciute fino a logorarne l’organizzazione unitaria da quando il gruppo ha accettato il cambio di strategia dei sauditi (la decisione di non ricorrere a tagli di produzione), lasciando alle forze del mercato il compito di risollevare i prezzi del greggio – una posizione che avrebbe provocato enormi perdite economiche ai paesi membri, con i più fragili ormai al collasso.

Entro questo scenario di guerra e di morte si consumeranno gli anni in attesa del prossimo conflitto mondiale. Se, prima, il proletariato mondiale non scenderà di nuovo sul terreno della lotta aperta in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro e, sotto la guida del suo partito, dell’attacco a un modo di produzione ormai solo distruttivo.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)