Crisi economica mondiale e deflazione

Pubblicato: 2016-07-10 15:03:30

La crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali continua a produrre le sue conseguenze distruttive nell’economia capitalistica mondiale. Sono passati già otto anni da quando il “vulcano della produzione” ha rotto le pareti che contenevano la sua energia, riversandosi nella grande “palude del mercato” mondiale. Non ci sono ancora segnali di uscita: la crisi di sovrapproduzione generale che ancora oggi subiamo non pareggerà l’enorme sovrapproduzione di ieri. Finché sarà in piedi il sistema capitalistico ed esisterà l’estorsione di classe, la relazione dialettica che lega insieme lo scambio totale delle merci M con la quantità totale del denaro D non andrà mai in pari, come pretenderebbe invece la borghese teoria quantitativa del denaro. Solo abbattendo il sistema capitalista e con esso le funzioni di merce e di denaro (e soprattutto la merce che determina la creazione di plusvalore, la forza-lavoro), solo allora la relazione produzione-consumo assumerà caratteristiche umane.

La creazione di plusvalore è l’unica motivazione del sistema capitalista: anche la più piccola riduzione del suo incremento alimenta la crisi. Ogni nuovo ciclo di sovrapproduzione supererà i massimi precedenti, anche se gli incrementi della crescente accumulazione di plusvalore saranno minori. Le crisi continueranno a riprodursi nel tempo in forma più ampia e con effetti sempre più catastrofici, mentre il saggio medio di profitto proseguirà lentamente nella sua caduta tendenziale e detterà le condizioni “necessarie ma non sufficienti” per il suo crollo. Perché la caduta non è più forte e più rapida, si chiede Marx? E si risponde: “Qui devono essere in gioco influenze antagoniste, che contrastano e neutralizzano l’azione della legge generale, dandole solo il carattere di una tendenza”. Nel capitolo XIV del III Libro del Capitale, Marx elenca le “cause contrastanti”: “l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro; la diminuzione del compenso del lavoro; il ribasso di prezzo degli elementi del capitale costante; la sovrappopolazione relativa; il commercio estero; l’aumento del capitale azionario”.

Nel corso della crisi di sovrapproduzione, ciò che viene messo in primo piano dagli economisti borghesi è il fenomeno della caduta generalizzata dei prezzi (deflazione), definita dalla cosiddetta “legge della domanda e dell’offerta”. Il calo della domanda, dicono gli economisti borghesi, ha fatto diminuire i prezzi: ergo, per uscire dalla crisi occorrerebbe ripristinare la domanda, facendo rialzare i prezzi. Fantasticando che causa della crisi, e non effetto, sia la riduzione dei prezzi, dicono che non resterebbe altro che applicare manovre politiche inflattive di spesa pubblica e di investimenti, per uscire dalla crisi. La strategia più comune che si conosca (la politica monetaria ultra-espansiva) consiste nell’inondare il mercato di denaro reale o fittizio, sicché la spesa possa generalizzarsi e il consumo possa riprendersi ed espandersi. La soluzione di stampare denaro per far ripartire la domanda è, tuttavia, solo una pia illusione, poiché non può sanare la contraddizione tra sviluppo della produzione e circolazione del denaro.

Da quando il denaro è diventato, oltre che mezzo di circolazione, mezzo di pagamento, credito da saldare, spostato nel tempo, per permettere un’accumulazione di plusvalore sempre più spinta, l’equilibrio economico nella circolazione di merci e capitali (secondo la teoria borghese) è rotto irreparabilmente: la legge della circolazione monetaria per far fronte alla produzione di merci e capitali è diventata molto più complessa. L’idea che ci si trovi all’interno di una crisi di sovrapproduzione mondiale è del tutto estranea al pensiero borghese; l’idea stessa di una crisi di “valorizzazione e non solo di realizzazione” spaventa gli economisti borghesi, siano essi mercantilisti o monetaristi. Il vero motivo è che essi ignorano, come spiega Marx commentando Smith e Ricardo, le cause delle crisi mondiali.

Per far risalire l’inflazione almeno al 2%, come da obiettivo istituzionale europeo, la BCE da alcuni anni ha lanciato il piano di immissione di Quantitative Easing (QE), ovvero la “creazione di moneta”.Con questa moneta fittizia, vengono comprati titoli diStato, ma altresì attività finanziarie,azioniotitoli (anchetossici) dallebanche,con effetti positivi sul loro bilancio, salvandole così dalla massa di “sofferenze bancarie”. Nel periodo della grande accumulazione, precedente la crisi, le banche commerciali e di investimento, gli istituti assicurativi e i fondi pensione si sono saturati di titoli tossici derivati dallacartolarizzazionedeimutuie prestitisubprimedi scarsa qualità o a rischio di insolvenza (accettando cioè crediti, per i quali l'azienda cedente non fornisce garanzie, in caso di mancato pagamento da parte dei debitori). La liquidità del QE fornitaal sistema dalla BCE serve a impedire la “stretta creditizia” generale, ma anche a mantenere l'inflazionea livelli compatibili e a evitare che la caduta dei prezzi li conduca sotto il costo unitario di produzione, determinando perdite e fallimenti.

Come viene spiegata dagli economisti borghesi la stretta creditizia? Le crisi economiche sarebbero prodotte dalla “tendenza storica” a risparmiare e non investire, e ciò per una “propensione al risparmio, alla conservazione, alla tesaurizzazione”. In condizioni normali, non di crisi, spiegano i tecnici, lapolitica monetariaha la possibilità di agevolare la crescita economica, sia aumentando l'offerta di monetain circolazione sia abbassando itassi di interesse e favorendo così il credito alle imprese. Il segno caratteristico della vera e propria “trappola del credito” è però la caduta dei tassi di interesse a breve (vicini a zero) e il verificarsi della circostanza per cui “variazioni della base monetarianon si riflettono in corrispondenti variazioni nell'indice generale dei prezzi”. In questa situazione, lebanche centralinon possono far scendere ulteriormente i tassi e gli strumenti a disposizione dellapolitica monetariasi esauriscono. Senza far partire la domanda, si innesca un aumento ulteriore delladisoccupazione, minoriredditi, e dunque minoriconsumieinvestimenti, e così via, in una spirale che si autoalimenta.

La sovrapproduzione è nascosta tra le pieghe della circolazione in quanto realizzazione del valore delle merci, scrive Marx: ma non è la circolazione a determinare la crisi, è il sistema di produzione che entra in crisi di valorizzazione. La legge (teoria quantitativa) che permette di determinare la circolazione quantitativa del denaro in relazione alla produzione del valore delle merci è espressa da Marx in questo modo: “La legge sulla quantità di denaro circolante, come risultava dalla considerazione della circolazione semplice del denaro, è modificata sostanzialmente dalla circolazione del mezzo di pagamento. Data la velocità di circolazione del denaro, sia in quanto mezzo di circolazione, sia in quanto mezzo di pagamento, la somma complessiva del denaro circolante in un dato periodo sarà determinata dalla somma complessiva dei prezzi delle merci da realizzarsi, più la somma complessiva dei pagamenti in scadenza della medesima epoca, meno i pagamenti che si elidono reciprocamente mediante compensazione” (Per la critica dell’economia politica, “Il denaro ovvero la circolazione semplice”, Editori Riuniti, 1957, p. 130,). La causa determinante dello squilibrio merce-denaro non proviene dall’equivalente monetario, dunque, ma dal sistema di produzione, laddove si definisce il rapporto tra lavoro necessario e plusvalore in relazione alla giornata lavorativa. Marx quindi sposta l’analisi della crisi economica mondiale alla riduzione del plusvalore, e non alla mancanza di liquidità (denaro) del sistema “dovuta” alla “propensione al risparmio e all’assenza di domanda”. Le grandezze in gioco dell’equilibrio (squilibrio) quantitativo sono la somma dei valori delle merci creati nella produzione (il che include la continua creazione di plusvalore), la velocità di circolazione del denaro e la quantità di denaro come somma di circolante monetario + pagamenti a scadenza nella stessa epoca + pagamenti che si elidono reciprocamente.

Per quei tali motivi (risparmi, tesaurizzazione), “spiegano” i borghesi, nel corso della crisi una massa considerevole di liquidità monetaria verrebbe sottratta alla reale dinamica capitalista, e il tasso d’interesse delle banche e dei titoli di Stato, molto basso, non riesce a svegliare il capitale dallo stato di catalessi. Questo processo è proprio dell’età parassitaria del capitale, quella dell’imperialismo, in cui la funzione finanziaria del capitale è divenuta dominante. Lo Stato dovrebbe intervenire, afferma Keynes, riportandola liquidità alla sua necessità mediante lavori pubblici, emissione di denaro, assistenza pubblica e sociale – aumentando il debito pubblico per far ripartire l’economia rimasta bloccata. L’ipotesi monetarista di Milton Friedman nega invece qualunque possibilità all’intervento pubblico di far ripartire l’economia: anzi, l’intervento aggraverebbe la situazione di crisi in cui il sistema è entrato. Il processo andrebbe così lasciato al suo decorso: quello che si può fare è diminuire gli intralci al libero movimento dei capitali. E allora si abbassino le tasse, si liberalizzi ovunque l’economia intralciata da strutture con troppe inerzie, si alimenti la possibilità di accedere a liberi capitali, si abbandonino al loro destino tutte quelle aziende e associazioni che non riescono a portarsi al livello che richiede il libero sviluppo delle attività produttive, distributive e di consumo, e delle associazioni lavorative. Insomma, si liberalizzi quanto più è possibile il mercato. Perché non stampare più moneta per alimentare la domanda? Se nell’economia si crea un vuoto di domanda, bisogna che qualcuno ricominci a spendere, occorrono investimenti per far partire l’economia reale se non si vuole che il paese si avviti in una spirale depressiva. La Banca centrale è il solo candidato alla “creazione di soldi dal nulla”. E qui Friedman e Keynes contemplano ricorsi estremi: “basterebbe seppellire banconote invitando i cittadini a scavare e spendere o di buttare giù da un elicottero pacchi di banconote (Helicopter Money)”. Le cose allora si rimetterebbero a posto, raccomandando però ai beneficiari di non spendere la manna direttamente, ma permettendo alle banche stesse di finanziare la spesa coprendo le false banconote con titoli ancor più falsi, a scadenza infinita.

L’idea HM occupa da un po’ di tempo i giornali economici. Essa consentirebbe agli Stati membri, per un periodo limitato, politiche di bilancio espansive a sostegno della domanda aggregata, senza aumentare il debito pubblico. Poiché l’esperimento dovrebbe far crescere l’inflazione, è sicuro che i possessori di denaro dovranno accollarsi in anticipo il tasso di inflazione differita, a parte il cambiamento delle regole del gioco nella BCE e le proporzioni delle quote azionarie di ciascun Stato nel capitale della BCE. Il motivo di preoccupazione più eclatante per la borghesia è che, scoperto “l’albero della cuccagna”, qualche buontempone si possa mettere in testa di scassinare la cassaforte della BCE per risolvere i mille problemi sociali contingenti; e che l’ultimo dei “buoni di spirito” si possa domandare: “perché non migliorare la sanità ed eliminare la povertà? perché non ridurre le tasse? perché non migliorare i trattamenti pensionistici con questo sistema a distribuzione aerea?”. O forse v’è motivo di ritenere che masse sempre più disperate si avventino per le strade sui capitalisti, sui ricchi, sulle classi medie, sull’aristocrazia operaia? Si pensa seriamente, data la massa di precari, di disoccupati, di inoccupati, di migranti, di operai coperti da un salario di fame, di distribuire assegni gratuiti di sopravvivenza? Si vuole rimediare ai salari di fame distribuendo miseria?

Scrive ancora Marx: “È una pura tautologia dire che le crisi nascono da mancanza di consumo solvibile o di consumatori solvibili. Il sistema capitalistico non conosce specie di consumo che non sia quella solvibile, fatta eccezione per il consumo sub forma pauperis e per quello del ‘mariuolo’. Che delle merci siano invendibili, non significa se non che per esse non si sono trovati compratori in grado di pagare, dunque consumatori(sia che le merci vengono comprate in ultima istanza, a scopo di consumo produttivo o di consumo individuale). Ma se si vuole dare a questa tautologia una parvenza di più profonda giustificazione dicendo che la classe operaia riceve una quota troppo misera del suo prodotto; che, quindi, al male si porrebbe rimedio qualora ne ricevesse una parte maggiore, e di conseguenza il suo salario crescesse, c’è solo da osservare che le crisi sono preparate ogni volta proprio da un periodo in cui il salario in generale aumenta e la classe operaia riceve realiter una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo. Dal punto di vista di questi cavalieri del sano e “semplice” buon senso, quel periodo dovrebbe viceversa allontanare la crisi.Sembra dunque che la produzione capitalistica implichi condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo in via momentanea, e sempre soltanto come segno premonitore di una crisi, permettono quella prosperità relativa della classe operaia” (Marx, Il Capitale, Libro II, cap. XX, paragrafo IV: Mezzi di sussistenza necessari e mezzi di lusso, Ed. UTET).

Ora la sovrapproduzione ha già prodotto la crisi e la miseria proletaria s’è accresciuta mentre i consumatori paganti si sono dileguati. Si sosteneva che quando tutto si fosse trasformato in scambio equivalente M-D, in totale equilibrio, tutto sarebbe andato liscio come l’olio senza crisi. Nel modello di società borghese di Marx, il credito è solo di capitale e non di consumo; nelle “teorie del benessere” si dà a intendere, invece, che si possa consumare per un vasto credito di beni di consumo senza pagare. In realtà, la formula del capitalismo resta sempre, nonostante le vendite a rate, quella che si conoscono solo consumatori paganti, ossia paganti in contanti, e il credito (la rateizzazione) non cambia nulla a tutto il giro. La formula del socialismo è invece questa: il consumatore non paga, né oggi né domani; il denaro non occorre, né oggi né domani.



La forza lavoro, creatrice di valore, dicono, non serve: al suo posto basterebbe infilare le mani nel cilindro, da cui non escono conigli ma denaro. E tuttavia il cappello magico dello Stato non basta da solo a risollevare l’economia. Lo capì, con le mani lorde di sangue dei compagni comunisti assassinati, lo Stato-tipografo di Weimar nel 1923, quando, oppresso per i debiti di guerra verso la Francia che non riusciva a pagare, si mise a stampare denaro, creando una gigantesca bolla inflattiva, da cui fu possibile uscire solo grazie ai prestiti americani: quelli sì “degni di fiducia”, in quanto l’economia degli Stati Uniti, usciti indenni dal conflitto, erano già in piena sovrapproduzione e continuavano a macinar profitti. Quella Germania che aveva avuto i suoi grandi leader teorici socialdemocratici, che aveva avuto disoccupazione, miseria, sovrappopolazione, tecnologia industriale, infrastrutture poi spazzate via dalla guerra e dalla crisi seguita nel 1920-21, pensava di costruire una grande fabbrica di denaro? Poco tempo dopo, la crisi del 1929-32 si abbatté nuovamente sulle metropoli mondiali a innescare la nuova guerra. Lo capirono tutti che occorreva finanziare ancora una volta con denaro fittizio il nuovo conflitto, per uscire dalla Grande Depressione, dominata dalla deflazione. Tra gli orrori della Seconda guerra mondiale e le Grandi Ricostruzioni nazionali, nella messa in schiavitù di una massa enorme di popolazione proletaria, la rinascita si ebbe con la distruzione di una parte immensa del territorio mondiale e con il massacro di milioni e milioni di esseri umani. Seguì l’epoca della “guerra fredda”, della “distensione”, delle ultime “guerre di liberazione”, del cosiddetto “benessere”. E non durò molto perché il capitale riprendesse a correre, accumulandosi dopo Bretton Woods, fino alla sovrapproduzione e alla crisi che ne seguì, nel 1974-75. Poi, nella prima metà degli anni ‘80, venne il neoliberismo, che altro non era che imperialismo all’ennesima potenza: quello in salsa thatcheriana o reaganiana, che si vantava di aver sotterrato per sempre i minatori in Inghilterra o i controllori di volo negli USA. Gli anni ’90 furono poi l’equivalente degli anni ’20: una sovrapproduzione, durata dieci anni, di capitale industriale, monetario, finanziario, precipita il secolo XXI nella nuova crisi ancor più pesante di quella del 1929: quella in cui soffochiamo. Ancora una volta deflazione.

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Nella cosiddetta “supremazia del denaro sulle merci” (secondo la visione borghese) occorre riconoscere una diversa specificità nelle funzioni del denaro: mettere sullo stesso piano il denaro come mezzo di circolazione e il denaro come mezzo di pagamento determina una distorsione nell’analisi. Nel cap. 28 del III Libro del Capitale, Marx si chiede quale sia la differenza tra mezzi di circolazione come denaro e come capitale produttivo d’interesse, ovvero tra forma monetaria del reddito e forma monetaria del capitale. E’ importante questa sottolineatura per comprendere il ciclo del capitale entro queste due forme non equivalenti. Gli economisti del suo tempo (Tooke e Fullarton) confondevano queste determinazioni funzionali, chiedendosi a quanto ammontasse la “quantità totale del denaro circolante” e quali fossero i “rapporti relativi fra le due quantità” nelle sue funzioni e, quindi, nelle due sfere del processo di riproduzione. Marx afferma che la diversa determinazione non muta per nulla il carattere del denaro in quanto mezzo di circolazione: esso conserva questo carattere sia che adempia all’una o all’altra funzione. Certo, nel caso della forma monetaria del reddito, esso funziona più come mezzo di circolazione (moneta, mezzo d’acquisto); nel secondo caso, della forma monetaria del capitale, funziona meglio come mezzo di pagamento. Si tratta di una distinzione inerente al denaro, spiega Marx: non una distinzione fra denaro e capitale. E poi aggiunge: “qualunque sia la sfera nella quale esso circola, e indipendentemente dalla sua funzione, di realizzare reddito o capitale- per la quantità della sua massa circolante valgono le leggi che noi abbiamo sviluppato trattando della circolazione semplice delle merci”.

 

Occorre chiedersi solo questo: come si manifestano quelle due funzioni nei periodi di prosperità e di crisi? Il risultato generale è, spiega sempre Marx, che in periodi di prosperità cresce decisamente la massa del mezzo di circolazione, che serve alla spesa del reddito, mentre la circolazione del capitale è caratterizzata dal credito, elastico e facile. La circolazione monetaria è piena in tutti i sensi: la parte del trasferimento di capitale si contrae almeno relativamente, mentre la parte della spesa del reddito si accresce assolutamente. Nei periodi di crisi si verifica il contrario: la circolazione che riguarda il reddito si contrae, i prezzi diminuiscono, e così pure i salari, il numero degli operai occupati diminuisce, la massa delle transazioni si riduce e, nella circolazione dei capitali, con il contrarsi del credito cresce il bisogno di prestiti monetari, che coincide con il ristagno del processo di riproduzione.

 

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La borghesia dimentica che la quantità di denaro capace di riavviare la macchina capitalistica non può risolversi con un “decreto” dello Stato borghese, o con la “buona volontà” dei capitalisti e delle Banche con la creazione di denaro. Il denaro è mezzo, misura dell’economia reale: è fattore derivato dal valore-tempo delle merci prodotte. Non esiste merce che sia prodotta senza il valore che l’accompagni. I capitalisti stessi lo capiscono quando affermano che “la politica monetaria non può garantire una crescita duratura ed elevata”. Nella circolazione, non si crea plusvalore: lo si crea solo nella struttura produttiva e in rapporto all’uso delle forza lavoro. Il denaro non crea né valore né plusvalore: solo il “tempo di lavoro socialmente necessario” di una massa determinata di proletari e il saggio del plusvalore possono farlo. Non è l’investimento in quanto tale, non l’acquisto di nuove macchine super produttive, a permettere di essere più competitivi dei concorrenti e di strappare loro i mercati supplementari in grado di assicurare i profitti. Le macchine non sono caratterizzate da maggiore o minore produttività: produttiva (tramite le macchine) è la forza lavoro umana. La composizione organica dipende dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile: ma è l’uso del capitale variabile che crea il plusvalore, sono l’intensità e la produttività della forza lavoro che, conservando il capitale anticipato e creando nello stesso tempo il plusvalore, spingono l’accumulazione sempre più in alto, fino alla sovrapproduzione e alle crisi.

Oltretutto, perché possa crescere il profitto, occorrerebbe una dose massiccia (e sempre più massiccia nel tempo) di investimenti in capitale costante, sebbene il suo valore unitario possa essere più ridotto, e in capitale variabile, tale che l’incremento del primo sia molto più grande di quello del secondo. Incapaci di comprendere la dinamica del processo di accumulazione, gli economisti borghesi immaginano che se le riduzioni di spesa produttiva (per riduzione del numero degli occupati) fossero accompagnate dall’aiuto dello Stato (distribuzione di bonus alle imprese decotte e agli operai in liquidazione e precarizzati), l’uscita dalla crisi sarebbe assicurata.

 

Per riprendere l’accumulazione della massa di profitti e spingere in alto il tasso medio di profitto dovranno certo diminuire le spese in capitale variabile e crescere il tasso di sfruttamento. Una parte del capitale verrebbe svalorizzata, un’altra andrebbe in malora: le imprese che non sono riuscite a sopportare la crisi e la concorrenza falliscono o sono riacquistate a prezzi stracciati dai loro concorrenti più forti – ciò che porta a nuovi licenziamenti. La dilatazione dell’esercito di riserva permette di svendere la forza lavoro e aiuta il capitale a ridurre i salari dei lavoratori, che conservavano ancora un impiego. Ma aumentare la produttività e l’intensità di lavoro, sostituendo il lavoratore con macchine tecnologicamente più avanzate, va solo ad alimentare altro esercito industriale di riserva. Sovrapproduzione di capitale e sovrapproduzione di popolazione operaia significano avvio di una nuova crisi di sovrapproduzione. E sovrapproduzione di capitali significa anche sovrapproduzione di credito, perché la dinamica produttiva sia sempre attiva.

 

Ogni impresa contribuisce alla produzione dei mezzi di produzione e con ciò partecipa alla ripresa della macchina produttiva capitalistica e alla riduzione drastica del lavoro necessario. Solo quando questo movimento si generalizza a un numero sufficiente d’imprese e di settori importanti, alla scala non solo nazionale ma internazionale, allora il movimento della produzione capitalista nel suo insieme riprende ad accelerare. In altri termini, il capitalismo non esce dalla crisi grazie all’aumento dei beni di sussistenza, ma, all’opposto, aumentando la produzione dei mezzi di produzione cui soggiogare la massa dei proletari rimasti. Allargando ogni volta la sua base produttiva, il capitale esce dalla crisi solo preparando le condizioni di crisi ulteriori e più vaste. Questa progressione spasmodica fatta di alternanze di espansione e di crisi gli è inerente e necessaria, come la respirazione alla vita umana. Si parla di ripresa economica un giorno sì un giorno no. Si parla di debito pubblico e privato nella speranza che venga a segnalarsi una loro diminuzione. Si parla di disoccupazione di massa e di disoccupazione giovanile, mai viste prima, di chiusura di fabbriche a migliaia, di miseria crescente, di salari e di pensioni sempre più basse. Si denuncia l’invasione di masse di migranti in cerca di riparo e di sostegno… Ma di ripresa dell’attività produttiva non c’è traccia.

Il lungo periodo di crisi di sovrapproduzione mondiale, che continua a imperversare da otto anni, dovrebbe alla fine – secondo gli “esperti” – aver lasciato in mano alle famiglie (capitaliste, medio-borghesi, ceti improduttivi, aristocrazie operaie: non certo proletarie!) più denaro da spendere a causa della diminuzione dei prezzi. Dal denaro risparmiato (nei costi dei mezzi di produzione, nelle materie prime ed energetiche e nella forza lavoro), dovrebbe derivare l’aumento della domanda e quindi del consumo, ovvero la ripresa degli investimenti e quindi la crescita economica. I dati del Pil nell’area Euro, invece, dall’inizio della crisi 2008 al 2015, presentano valori annui tra 1% (max) e -0,9% (min). Nonostante con vari modi la Bce tenti di far salire i prezzi al consumo, oggi gli indici presentano percentuali su base annua tra -0,2% (min) e +0,3% (max), che si accompagnano allo sviluppo produttivo e non accennano a portarsi verso quel tasso d’inflazione (2%), tanto agognato dai “piani europei”.

Scrivono gli economisti, nel loro linguaggio fantasioso, che “il mercato vede” al ribasso le attese sul costo della vita nel vecchio continente, che “il mercato è convinto” che in Europa i consumi non decolleranno per lungo tempo e che la politica monetaria della Bce non riuscirà nel suo intento. Niente risparmi da bassi prezzi, niente denaro liquido, niente consumi, niente inflazione, niente ripresa. Per giunta, il movimento dei vari indicatori finanziari dimostra che cosa gli investitori “pensino” del cosiddetto “bazooka della Bce”: affermano che l’effetto del QE si mostrerà “nel mondo della finanza, ma non in quello reale”. Il bazooka pomperà le quotazioni sui mercati, ma “non cambierà molto la vita delle famiglie e della gente comune”. Questa riflessione critica e pessimista, frutto amaro del crollo dei mutui subprime e poi della massa di denaro fittizia, utilizzata per salvare gli istituti finanziari all’indomani della crisi generale, oggi, con la crisi perdurante, trova sempre più nuovi adepti, stanchi di soffrire della pesante e non risolta penuria di credito.

Le panzane sul “Dio mercato” non convincono più: si rivelano della stessa consistenza reale del “gratta e… spera”. In confronto alla capacità e alla perspicacia delle zingare nell’azzeccare il futuro leggendo la mano o del pappagallino che sceglie il biglietto della fortuna, la cosiddetta “scienza economica borghese” e il suo ente metafisico chiamato Mercato lasciano il tempo che trovano. Da quando è stata proposta e avviata la “manovra espansiva” (il Quantitative Easing europeo), la deflazione ha continuato il suo scivolone. Pur essendo le varie specie di titoli senza alcun valore reale, essi rimangono comunque un attestato di proprietà che ne legittima l’incasso come quota del plusvalore, cioè di quella parte della giornata lavorativa che non costa nulla al borghese. La stessa promessa di liquidità sollecita il mercato finanziario, ma quello reale langue. Dunque, il bazooka finanziario non basta, il calo delle materie prime non basta e neppure Draghi ci azzecca sul ribasso dell’euro tanto sospirato per aumentare le esportazioni dell’area Euro: ben inteso, dice qualcuno, “i mercati spesso sbagliano le previsioni!”…

Così si specula, s’inventano grandi masse di capitale fittizio superiori a qualunque ricchezza reale: ma della crescita economica e dell’inflazione (in quanto segno di grandi giri d’affare, di un’accresciuta circolazione di merci e di capitale, di credito) non c’è traccia. Non servono manovre monetarie e finanziarie, sostiene qualcun altro: ci vogliono investimenti produttivi; non basta la distribuzione miserabile di bonus ai proletari e riduzioni di tasse alle aziende decotte: solo l’intervento dello Stato sul sistema produttivo – dicono – può invertire la rotta. Quella massa enorme di lavoratori disoccupati, quell’immenso esercito di riserva flessibile e precario, quella massa operaia logorata e quella popolazione giovanile ancora da spremere che si presenta davanti ai luoghi di lavoro, alle agenzie, agli uffici, e quell’altra costituita da migranti e “clandestini” in fuga da guerre e carestie, che fine faranno nel corso della crisi? E le fabbriche, le unità produttive, le infrastrutture?

I borghesi sanno per esperienza che, non appena scoppia la crisi economica di sovrapproduzione con la caduta del saggio di profitto e il crollo dei prezzi, il credito con le sue mille ramificazioni ipersensibili si scioglie come neve al sole. Il credito fugge da chi lo richiede, compare dove non era impiegato, getta nel panico chi ha bisogno urgente di denaro, affretta la decomposizione sociale generale, accelera la crisi monetaria sovrapposta alla crisi economica. Prima della crisi, il borghese diceva che la vera ricchezza era la merce; ora, nel corso della crisi, dice che la vera ricchezza è la moneta.

Ai capitalisti, la crisi monetaria (e del credito) non appare come effetto della crisi economica; al contrario, la crisi economica diventa una conseguenza della crisi monetaria. Siccome il rallentamento notevole della rapidità della circolazione della moneta (dovuto alla compressione del volume degli scambi) caccia via dalla circolazione una notevole quantità di moneta, si spiega questo fenomeno come “insufficienza dei mezzi di circolazione”. In realtà, la massa monetaria messa a disposizione del credito sparisce proprio perché non è solvibile, perché non può produrre da sé interessi, che non appartengono al campo della circolazione, ma a quello della produzione in quanto parti del plusvalore. Il processo complessivo di produzione e circolazione entra in uno stato di decomposizione. La deflazione rimane un dato specifico delle crisi di sovrapproduzione. L’effetto classico in generale è la distruzione di valore, sia in termini di valori d’uso che di valori di scambio. Per uscire dalla crisi, non esiste altra possibilità che l’avvio rapido della controtendenza alla caduta del saggio medio di profitto: che implica drastica diminuzione dei salari, licenziamenti, flessibilità della manodopera, aumento dello sfruttamento, e soprattutto la messa alla catena dei disperati della terra, disoccupati, precari, immigrati, consegnati a uno stato di schiavitù. Le relazioni che nel periodo di grande accumulazione avevano spinto nel credito, nella fiducia, l’uno verso l’altro, individui, gruppi sociali, classi, proponendo nell’immaginazione una collettività illusoria, si sciolgono e l’intera società tende a scomporsi negli interessi contrapposti.

E la lotta di classe, quella vera, ricomincia.

 

Partito comunista internazionale

                                              (il programma comunista)