Dietro i recenti scoppi delle “bolle” e le svalutazioni monetarie, l'affanno dell'’economia cinese e mondiale

Pubblicato: 2015-12-16 22:00:43

I recenti scoppi delle “bolle” finanziarie cinesi e le successive svalutazioni dello Yuan rappresentano altri segnali allarmanti dell’aggravarsi non solo dell’economia cinese ma di tutta l’economia capitalistica mondiale.

Come si era formata la bolla

E’ bastato che, lo scorso giugno, la Banca Centrale cinese ritirasse liquidità nel tentativo di “calmare” un mercato finanziario a dir poco in fermento perché tale misura venisse interpretata dagli investitori come “quasi” la fine della politica monetaria espansiva. Da qui, lo sgonfiarsi di una “bolla” borsistica che la stessa Banca Centrale aveva invece contribuito a gonfiare, immettendo nel tempo continua liquidità con lo scopo di stimolare l’“economia reale” che dava segni di rallentamento o stagnazione, a fronte anche di uno sgonfiarsi della bolla immobiliare che negli anni passati si era gonfiata a misure mastodontiche e aveva dato luogo a grandi speculazioni (senza minimamente aver fatto fronte, come si dava a intendere, al generalizzato bisogno di abitazioni).

E’ evidente che, con tutti i suoi esperti, analisti finanziari, tecnici, ecc., il sistema capitalistico non può comprendere le proprie stesse tragiche vicende passate, come la bolla giapponese degli anni ‘90 o quella dei mutui subprime – per citare solo alcuni dei numerosi terremoti finanziari verificatisi a partire soprattutto dagli anni ’80, da cui si è sviluppata la crisi ancora in atto. I prestiti alle imprese erano aumentati del 15%, a fronte di una crescita del PIL ormai ferma al 7%; si era andata formando l’ennesima bolla, sia sul fronte del credito alle imprese che su quello del mercato azionario. Ma in realtà le banche, più che investire sulle imprese, cioè sulla cosiddetta “economia reale”, avevano trovato molto più conveniente speculare e sovraspeculare, investendo sempre più, e concedendo credito, sul mercato azionario, tanto che nel solo ultimo anno, dal giugno 2014, la bolla della borsa azionaria si era gonfiata del 150%.

Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2007, le continue, massicce iniezioni di liquidità avevano prodotto un rapporto tra gli utili (reali) delle società e il loro valore sul mercato borsistico e azionario di ben 70 volte a vantaggio di quest’ultimo. I prezzi delle azioni di banche e di grandi società spesso pubbliche, nei mesi passati, erano schizzati in alto, recidendo sempre più ogni legame e ancoraggio con l’economia reale, con la reale crescita economica. “I dati relativi all’attività economica hanno avuto un inizio d’anno debole, per dare delusioni straordinarie a marzo” (1), dichiarava un “esperto”, mentre i listini proseguivano la loro corsa. Ad alimentare quest’aumento dei prezzi era pure la crescita abnorme del debito totale cinese, che include, oltre a quello pubblico, anche quello privato (banche, imprese e famiglie): secondo il McKinsey Global Institute, il debito totale, che nel 2007 era al 153% del PIL, si portava al 300 % nel 2014, con un raddoppio in soli otto anni. Si trattava soprattutto di debiti contratti dai suddetti soggetti con investitori soprattutto stranieri, che vedono ancora più o meno positiva la situazione economica cinese – debito che famiglie e banche cinesi, a loro volta, hanno convertito in investimenti sul mercato azionario cinese. Un debito privato cresciuto a dismisura per andare ad alimentare soprattutto il corso dei titoli: in altre parole, la bolla finanziaria. Sono soprattutto piccoli e medi borghesi quelli che oggi mettono in moto, su basi speculative, la macchina del consumo interno, cronicamente debole; che comprono automobili e beni spesso d’importazione; che dispongono, oltre che di alti stipendi, di una rilevante disponibilità di credito e strumenti finanziari; che mettono in moto consumi, investimenti – e bolle finanziarie pronte a scoppiare e a rallentare la corsa di uno degli ultimi mercati ancora in espansione nel mondo, rendendo più accidentato il cammino della stessa economia mondiale che su di esso fa ancora buon conto. Un consumo interno, quello cinese, che non è mai salito ai livelli europei o giapponesi, essendo stato il PIL cinese quasi del tutto dipendente dalle esportazioni (2).

Sullo sfondo poi, sempre più, l’incapacità o impossibilità di smuovere l’economia reale, appesantita, tra l’altro, dalla zavorra di apparati pubblici sclerotizzati e inefficienti, col corredo di una corruzione profonda e capillare. Lo spettro di un “blocco” dell’economia come quello del Giappone (3) agita certamente i sonni del capitalismo mondiale.

Le misure governative

Dopo il ritiro di liquidità, lo scorso giugno, in tre sole settimane i listini di Shanghai e di Shenzen perdono il 30% del loro valore: si stima che vengano bruciati ben 3900 MLD, più del doppio del valore del PIL italiano, 16 volte quello della Grecia – cifre che fanno impallidire quelle del debito greco, intorno ai 400-500 MLD. L’8 luglio, poi, la borsa di Shanghai chiude con un ribasso del 5,9 %, quella di Shenzhen del 2,94%, mentre l’indice di Hong Kong cede il 7,7 %: iI peggior calo dal 2008. Viene subito sospeso dalla contrattazione un totale di 1.400 titoli, il 43 % del totale dei titoli, un terzo della capitalizzazione del mercato borsistico cinese che è di 2.800 MLD (più della borsa italiana, inglese, francese, russa e messicana messe insieme) (4). Per evitare nuove vendite, s’impone ai grandi azionisti, manager e amministratori, di non toccare i propri pacchetti di titoli per sei mesi. La Banca Centrale cinese, facendo dunque marcia indietro, annuncia così, già il 9 luglio, che “garantirà la liquidità necessaria a stabilizzare i mercati borsistici cinesi e a scongiurare rischi sistemici”, e impone il divieto alla vendita per chi ha partecipazioni azionarie sopra il 5%. L’autorità che regola il mercato finanziario (la China Securities Regulatory Commission) ordina anche ai 112 colossi imprenditoriali statali, di non vendere azioni loro o delle loro controllate, ma anzi di acquistarle dalle società che controllano, per stabilizzare il valore delle loro azioni; oppure impone misure come l’aumento della quantità di azioni che le compagnie di assicurazioni possono acquistare.

Caratteristiche delle bolle

Molti hanno parlato di una crisi simile a quello americana del 1929 per il fatto che, tra le misure prese, 21 grandi broker cinesi hanno messo sul piatto quasi 20 miliardi di dollari, ripetendo in un certo modo, l’iniziativa dei loro colleghi americani alla vigilia del crac; oppure, perché anche quella di allora ebbe origine dallo scoppio della bolla immobiliare; o per il continuo alternarsi di bolle che, prima del crac, si formavano e poi si sgonfiavano... Altri hanno sottolineato invece una certa somiglianza con la bolla giapponese degli anni ’90: una sorta di economia “da Giappone” del tipo di quella degli anni ’70, con alti tassi di crescita, non ancora “bloccata”, ma con un sistema finanziario già dissestato come nel Giappone anni ‘90 (5).

Il “rientro” in poco tempo, invece, dopo le misure governative, ha fatto parlare anche dell’estrema volatilità (e quindi pericolosità) della bolla cinese, che da un giorno all’altro passa dunque da un -4 a un +6%, ben dieci punti percentuali di differenza: una prova in più di come l’economia cinese (e in genere quella mondiale) sia sempre più instabile e legata a filo doppio alle sorti del mercato borsistico e alle speculazioni (derivati, titoli tossici, ecc). La paura che i prezzi crollino, che la bolla insomma scoppi fino in fondo (e non del solo 30% come avvenuto questa volta, dopo una crescita del 150 % nel solo ultimo anno), fa temere fortemente per la stessa crescita dell’economia reale, ormai prossima a scendere fino al +6,5 %, dopo il calo degli anni scorsi. Fa temere, insomma, che da “stimolativa” e “acceleratrice”, l’influenza delle speculazioni borsistiche diventi negativa, faccia da freno alla stessa economia reale, come è avvenuto, d’altra parte, per la crisi iniziata nel 2007 e ancora in corso. Un’economia, che per mantenere i propri livelli, le proprie quote (ormai oltremodo basse), deve comunque continuare a essere sempre più “dopata” da un mercato borsistico a quote di gran lunga superiori a essa; un mercato borsistico, che certamente fa sempre “affidamento” a una economia reale ancora solida, per quanto in declino.

Ma le quotazioni irreali e l’euforia per i titoli tecnologici che ricordano quelli della “new economy” di fine anni ‘90 in USA o in Giappone attirano ormai milioni di piccoli risparmiatori con operazioni rischiose e la lusinga dei facili guadagni. Si dice che in Cina ci siano ormai più scommettitori in borsa che… iscritti al partito: più di 93 milioni di novelli azionisti che si sarebbero avvicinati alla Borsa negli ultimi mesi. I grandi investitori, in caso di pericolo, trovano sempre il modo di resistere meglio agli alti e bassi della borsa, oppure di fare espatriare i propri guadagni in giro nel mondo; a rimanere fregati dallo scoppio della borsa sono, come sempre, i piccoli risparmiatori. In Cina, vi è inoltre la “spada di Damocle” del “sistema bancario ombra”, che immette anch’esso liquidità nel sistema produttivo e sfugge al controllo della Banca centrale, e la cui incidenza sull’economia reale, ma anche l’enorme debito, vanno sempre più aumentando. Molti investitori, da anni, si rivolgono a esso anziché alla banche ufficiali, che, indebitate ancora più fortemente, concedevano meno prestiti. Ci si aspetta anche qui lo scoppio di una bolla di dimensioni grandissime e il contagio a tutto il sistema bancario ufficiale (6).uotazioni irreali, euforia per i titoli tecnologici simile a quella della “ new economy” Quotazioni

Le ripercussioni a livello mondiale

Le ripercussioni sulla borsa di Tokio non potevano mancare: lo stesso 8 luglio, l’indice Nikkei cedeva l’1,6 % , a quota 20.042. Ma già le stesse borse asiatiche, il giorno seguente (9 luglio), dopo il varo delle misure, segnavano un forte “rimbalzo”: soprattutto Shanghai, che chiudeva al +5,8%, seguito da Hong Kong (+3,73) e Tokio (+0,6). Pure in Europa, dopo due giorni di forti vendite, si registrava il “rimbalzo” dei listini: Milano guadagnava l’1,7 %, mentre Londra saliva dello 0,6%, Francoforte dello 0,5%, Parigi dello 0,7%. L’euro era in rialzo rispetto al biglietto verde; lo spread nell’area era in calo a 160 punti, con i BTP a 10 anni che rendevano il 2,21.

Pericolo scongiurato, allora: almeno, così sembrava, anche per le performances positive dei giorni seguenti, sia per le borse asiatiche che per quelle europee, grazie a quelle misure di emergenza che impedivano che lo scoppio della bolla deflagrasse fino in fondo, producendo tutti i suoi pericolosi effetti. Ma è bastato questo scoppio, limitato e parziale, per allarmare tutta l’economia mondiale: calava il prezzo del petrolio, del ferro e del rame (pessima cosa soprattutto per economie come quella del Brasile, principale fornitore della Cina); calavano, per la prima volta in cinque anni, i prezzi delle auto, con riflessi immediati sui titoli dei colossi europei (BMW, Mercedes, Volkswagen); si riduceva l’interscambio commerciale con l’Indonesia, che aveva già visto una riduzione delle esportazioni in Cina e un contrarsi del PIL; lo stesso succedeva per l’Australia, principale cliente della Cina… E che fine avrebbero fatto i progetti per ferrovie, porti, tagli di “istmi” (Panama), ecc., per finire con quello della “via della nuova seta”? I titoli di lusso italiani risentivano pure il colpo, e quelli più esposti alle vendite in Cina si domandavano se la capacità dei consumi in Cina terrà i suoi livelli anche nei prossimi mesi: la Salvatore Farragamo, che vede il 36% dei suoi ricavi provenire dall’Asia, in poche ore perdeva il 2% della capitalizzazione; peggio ancora andava Tod’s, che dalla Cina trae il 21% del suo fatturato e che in un solo giorno cedeva il 4% del valore di borsa. Anche i grandi titoli cinesi quotati a Wall Street perdevano di valore: Alibaba, icona della nuova industria cinese nel mondo, cedeva il 17% del suo valore, mentre Com., provider di servizi on line di gioco d’azzardo, in un mese lasciava il 40 %.

Nel frattempo, in Italia, la Banca Centrale cinese era entrata anche nel capitale delle due principali banche: la Unicredit col 2,005% e il Monte dei Paschi di Siena con il 2,010%), per un investimento totale di 770 mil. di euro. Inoltre, il 20 e 30 giugno, investiva oltre 5 mil. di Euro in alcune società quotate in borsa (Generali, Eni, Enel, Prysmian, Mediobanca, Intesa San Paolo, Fiat e Telecom) (7), cosa che equivaleva a un sostegno per le quotazioni dei titoli e a garantire importanti flussi di cassa alle stesse aziende.

Se l’economia cinese e la finanza di Pechino rallentano, potrebbero le aziende occidentali, quella europea in particolare, da tempo ormai fragile, contare ancora su questo afflusso di denaro? Le dimensioni della bolla creditizia cinese supera di gran lunga il 200% del PIL, con una crescita di 60 punti percentuali nell’ultimo quinquennio. “Un processo di indebitamento meno estremo mise in ginocchio il Giappone oltre un ventennio fa, condannando ad una crisi strisciante, da cui non si è mai più ripreso, un paese che tutti ritenevano pronto per dare l’assalto alla leadership americana” (8).

Mentre tutto il mondo economico-finanziario era attanagliato da questi problemi, relativi allo scoppio parziale della bolla borsistica, il 27 luglio, dopo un recupero in tre settimane del 16%, si ha invece un altro scivolone della borsa, dell’8% alla borsa di Shanghai (con Hong Kong a -3,1% e i listini europei che chiudono tutti in negativo), peggiore di quello dell’8 luglio e il peggiore in assoluto dal 2007. La situazione finanziaria era dunque tutt’altro che da archiviare dopo le misure governative. Il nuovo crollo risentiva dei dati sulla produzione industriale, discesa dello 0,3 % a giugno, mentre l’indice manifatturiero segnava una contrazione ai minimi degli ultimi 15 mesi. Le materie prime ampliavano ancora i ribassi, soprattutto il petrolio (-20% in un mese) e l’oro (da 1200 dollari l’oncia a 1100). Il giorno seguente, si aveva però un nuovo rimbalzo, con un contenimento delle perdite e una nuova stabilizzazione, soprattutto per le borse europee: segno di un mercato azionario assuefatto.

Le svalutazioni

Ma non era finita: arriva un’altra “bomba”! L’export del mese di luglio registra un -8,6%, mentre i dati sulla crescita del PIL al + 7% non sembrano più attendibili e la produzione industriale segna il passo, con un 6% rispetto alla previsione di un 6,6%. Dinanzi a tale situazione, anziché continuare a pompare denaro con la riduzione dei tassi di interesse (dal 6% dello scorso novembre al 4,85 dello scorso giugno, senza peraltro alcun effetto di rilievo come stimolo all’economia e alle esportazioni), la Banca Centrale cinese svaluta lo Yuan: l’11 agosto, dell’1,9; il giorno dopo, di un altro 1,6%; e il 13/8, di un altro 1,1% – per un totale di 4,6%, portando il valore della moneta ai minimi storici degli ultimi tre anni nei confronti del dollaro. E’ la svalutazione più alta dal 1994, quando venne istituito il moderno mercato dei cambi con una svalutazione del 33%. Da parte del governo e della Banca Centrale, si vuole impedire un altro scivolone incontrollato della Borsa, allentando la pressione sul mercato azionario e manovrando questa volta sul tasso di cambio delle monete per rilanciare le esportazioni, frenare il deflusso dei capitali (dati negativi anche sui consumi, gli investimenti, le immatricolazioni e sull’import). Le autorità dichiarano di puntare a dare più spazio al mercato nel determinare i tassi dei cambi (9), con il plauso del Fondo monetario internazionale (e quello “contradditorio” degli USA), anche se in realtà la svalutazione della moneta cinese arriva dopo quelle australiana, della Corea del sud e di Singapore, cioè delle potenze economiche dell’area: segno che era già in corso la cosidetta “guerra delle valute” (e sicuramente continuerà dopo le attuali svalutazioni cinesi).

Le materie prime risentono subito della svalutazione, con una nuova caduta dei prezzi dopo quella dovuta allo scoppio delle bolle nel mese di luglio: petrolio (ai minimi da sei anni, a 43,08 al barile) e minerali. I beni di lusso richiesti dalla nuova oligarchia cinese (auto, moda, gioielli) subiscono perdite alle Borse di Milano e Parigi, mentre le altre, specie quelle europee e Wall Street, reagiscono male, con cali netti di fronte alle prime due svalutazioni (l’Europa brucia 227 miliardi di dollari); alla terza svalutazione, dinanzi alle continue rassicurazioni del governo cinese, del beneplacito del FMI e della positiva risposta di Wall Street (Dow Jones in progresso dello 0,04%, Nasdaq in discesa solo dello 0,21), reagiscono positivamente: Francoforte +0,8, Parigi +1,25, Piazza Affari +1,56%, Londra in parità, Tokio +0,99; dati positvi anche per Bombay, Sidney e Singapore (+1,17), Hong Kong (+0,69) e Shanghai (+0,8%). Lo spread tra Btp e Bund tedeschi chiude a quota 115 punti con il rendimento del decennale al 1,79 %. Insomma, l’economia USA anzitutto e quella mondiale dietro a essa sembrano, almeno per il momento, bene intenzionati a parare e assorbire le convulsioni del gigante asiatico, mostrando “comprensione” per le sue difficoltà. Vedremo i prossimi sviluppi e come le cose si metteranno in realtà.

Alcune brevi considerazioni “finali”

La crisi economica e finanziaria cinese è il riflesso, da un lato del rallentamento della crescita mondiale dell’economia, dall’altro del rallentamento specifico della crescita della stessa economia

Cinese: le due cause s’intersecano e quelle specifiche (endogene) trovano la loro origine principale

proprio nello stesso procedere accelerato e caotico degli ultimi quarant’anni. Lo “spadroneggiare” delle imprese di stato a discapito di quelle private (ma con il loro legame sempre più stretto e intrecciato), il loro accesso privilegiato al credito senza alcun controllo da parte delle istituzioni pubbliche, in breve le cosiddette forze avverse alle riforme, sembrano costituire ormai un forte ostacolo alla crescita ulteriore dell’economia cinese. Ben tollerate e ben foraggiate nei tempi (passati) di prosperità, in omaggio a una crescita economica comunque continua e ben sostenuta, contro tali forze viene adesso puntato il dito da parte delle istituzioni cinesi. Ma tale “lotta”, legata strettamente a quella contro la “corruzione” cresciuta all’ombra del super-affarismo, non solo ha ben poche o nulle possibilità di venirne a capo, ma trova e troverà sempre più ostacoli proprio nel rallentamento della crescita economica mondiale.

Il crescente indebitamento privato e pubblico, l’immissione sistematica di liquidità nell’apparato produttivo (come, d’altra parte, l’interventismo statale di keynesiana memoria), le speculazioni e sovraspeculazioni in borsa, le frequenti svalutazioni monetarie, sono tutti segnali di un capitalismo mondiale gravemente parassitario e in affanno, sempre più incapace di riprodursi, accumularsi ed espandersi attraverso il continuo, “normale”, aumento della composizione organica del capitale e della produttività del lavoro, dovendo fortemente fare i conti con la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e con i gravi effetti di una prolungata sovrapproduzione di merci e capitali. Assistiamo al fatto che, in tale contesto di crisi cronica, il denaro, in quanto strumento (e prodotto) della estorsione di plusvalore, all’interno del processo produttivo (mezzo di circolazione e mezzo di pagamento), va perdendo sempre più tale funzione, come pure la normale funzione creditizia, strettamente legata allo stesso processo produttivo, alla cosidetta economia reale: esso va sganciandosi sempre più da tali “normali”, tradizionali funzioni per diventare massa enorme di capitale finanziario e credito fittizio (denaro che produce altro denaro), oltre che strumento e manovra per regolare i cambi, e stabilire e regolare, attraverso di essi, nuovi rapporti di forza tra gli Stati.

Da qui, le crescenti speculazioni in borsa (10), il crescere e gonfiarsi delle bolle nei listini, le manovre continue sui tassi di interesse e quelle valutarie (11): tutte misure cui hanno fatto sempre ricorso gli Stati, soprattutto a partire dagli anni ’80 e specie se attanagliati da crisi economiche particolari. Misure che, a seconda del quadro generale della situazione, possono al massimo tamponare temporaneamente le crisi economiche in corso, rinviarle nel tempo: ma preparandone solo di più gravi e generalizzate. Esse, difatti, sono di per sé incapaci a rimettere in moto il processo economico, che può invece riavviarsi (possibilità, questa, divenuta sempre più remota) solo attraverso nuove e più massicce estorsioni di plusvalore all’interno del processo produttivo (12). L’economia cinese, che adesso sta facendo i conti con il calo della propria crescita economica (e con ciò che esso comporta e comporterà anche a livello sociale interno), attraversa da alcuni anni, in modo sempre più forte col procedere della sua crisi, quello stesso processo di deregulation già sperimentato dai capitalismi più vecchi nei secoli scorsi e soprattutto nei decenni precedenti, con l’indebitamento pubblico o privato, l’immissione di liquidità nell’apparato economico, le speculazioni finanziarie sempre più spinte e legate organicamente alle vicende dell’apparato produttivo proprio e mondiale.

Non possiamo sapere se o quando tale processo di formazione di bolle (finanziarie o immobiliari) che periodicamente si gonfiano, si sgonfiano o scoppiano, di manovre sulle valute e sui tassi di interesse, ecc., contribuirà a portare anche la Cina a un “blocco economico” come quello giapponese, oppure a qualcos’altro, essendo il contesto mondiale sempre in continua e complessa evoluzione. Vi sono intanto tutti i segnali di un rallentamento produttivo che, per le dimensioni dell’apparato economico cinese, non potrà che ripercuotersi in modo drammatico e in varia misura anche sui numerosi paesi e Stati che, nel frattempo, in questi ultimi decenni, si sono dovuti legare a esso a doppio filo: in pratica, tutte le regioni del mondo. D’altra parte, le crisi ancora più gravi di cui soffrono queste ultime e il loro deficit di domanda nei confronti della Cina non possono che rendere vane o insufficienti tutte le manovre monetarie messe in campo dal gigante asiatico. In ogni caso, si preparano le premesse per la formazione di crisi ancora più generalizzate e distruttive. Alla fine, lo sbocco, per il regime capitalistico, non potrà che essere quello storicamente solito: o un conflitto generalizzato tra gli Stati (con nuove e più massicce distruzioni di forze produttive) o la discesa in campo della lotta di classe contro il suo dominio mondiale – lotta che esige la riorganizzazione su scala internazionale del Partito comunista.

 

NOTE

(1) Craig Botham, emerging markets economist di Schroders, società di risparmio gestito inglese.

(2) Cfr. la serie di nostri articoli sulla Cina, in il programma comunista, nn. 2, 3, 4, 5/2014.

(3) Cfr. “Giappone. Le recenti misure adottate non fanno uscire il paese dal lungo ‘blocco economico’”, il programma comunista, nn. 3, 4/2015.

(4) Quotidiano.it Libero , del 9/7/2015

(5) David Cui, Head of China equity strategy presso la Bank of America Merrill Lynch.

(6) Cfr. “Rprendendo il nostro lavoro sulla Cina. L’economia cinese dal 1949 alla crisi economica generale attuale (III)”, il programma comunista, n. 6/2014.

(7) Michele Pierri: “Mps e Unicredit. L’offensiva della Cina nasconde una bolla finanziaria di Pechino?”, http://www.formiche.net/2015/07/07/cina-europa-italia-bolla/.

(8) In Il Ghirlandaio. Osservatorio economico dall’Italia e dal mondo, 29 luglio 2015.

(9) Dichiara il vice governatore Yi Gang: “L’obiettivo è quello di lasciare che sia il mercato a decidere il tasso di cambio della valuta cinese e la Pboc [Banca Popolare di Cina – NdR] si asterrà da interventi regolari sul mercato dei cambi”; e inoltre: “Il cambio verrà mantenuto ad un livello ‘più o meno stabile’ e ‘ragionevole’”. Sicuramente, il “cambio fisso” col dollaro si risolveva in una continua rivalutazione dello Yen, ma tali dichiarazioni di principio sulle decisioni “da parte del mercato” anziché dai vertici governativi e dai rapporti di forza sono ovviamente completamente fasulle.

(10) “La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per quasto accelera lo scoppio delle crisi e ne aumanta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione, non appare come conseguenza necessaria della sua precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione”: così scrivevano Marx ed Engels sulla Neue Rheinische Zeitung, numero di maggio-ottobre 1850 (in Opere complete, vol.10, pag.501).

(11) Per un approfondimento sulla questione monetaria, rimandiamo ai nostri lavori in il programma comunista, nn.3-4/2011.

(12) Per un approfondimento sul corso del capitalismo e le crisi, vedi il nostro studio in il programma comunista, nn. 5-6/2013 e 1-2/2014.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)