Milano: “Il più grande blitz degli ultimi anni”

Pubblicato: 2015-09-19 11:14:43

Milano, mercoledì 19 agosto. “Il più grande blitz degli ultimi anni”: così la stampa ha esaltato l’azione repressiva messa in campo per “liberare” 56 appartamenti da 180 occupanti “abusivi” (di cui 50 minorenni), per lo più immigrati dall’America Latina, in un intero isolato di case Aler in via Comacchio 4, al quartiere Corvetto – un vasto edificio vuoto e abbandonato da tempo e lasciato in condizioni miserevoli dalla proprietà. In massa, alle sei di mattina, sono arrivate le “forze dell’Ordine”, le… “truppe di liberazione”: una ventina di enormi furgoni, camionette blindate, polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia locale, più un contingente della Protezione Civile (!) e qualche volontario della Croce Rossa; caschi, pistole, scudi, manganelli, atteggiamenti da bulli di quartiere, cinque strade intorno all’“obiettivo” sbarrate da transenne e controllate rigidamente – un’impressionante militarizzazione, del tutto sproporzionata rispetto al numero di occupanti, per lo più bambini e ragazzi, donne, anziani. Delle telecamere presenti, solo alcune (evidentemente, quelle di reti embedded, come si dice oggi: cioè, i veicoli delle versioni ufficiali) hanno avuto il permesso di seguire da vicino le fasi dell’eroico sgombero di intere famiglie buttate giù dal letto: la fragorosa salita delle scale degli scarponi chiodati, i manganelli sbattuti con forza su stipiti e porte, le intimazioni ad aprire urlate dal pianerottolo… Di contro, la resa dei “pericolosi abusivi”, ancora intontiti dal sonno.

Uno degli sgomberi “meno violenti” degli ultimi anni, secondo La Repubblica del 20 agosto, che dedica interi paginoni all’azione delle “forze dell’ordine”; “una delle più pacifiche irruzioni mai viste”, si congratulano le autorità. Già, “pacifica” perché nessuno vi ha opposto resistenza: in realtà, azioni esemplari di intimidazione e aperto terrorismo statale. D’altra parte, non si sono “liberati” sempre così i quartieri delle grandi metropoli, di Parigi e di Londra, di Berlino e di New York, per allontanarne la “feccia sociale”, la “delinquenza”, gli “oppositori”, gli “abusivi”? Poteva mancare la Milano del sindaco “di sinistra”, impegnato a normalizzare la vita cittadina con largo ricorso alla democratica repressione?

Pericolosi, organizzati, delinquenti? Ma, via! Chi erano i pericolosi e chi i pacifici?

L’ipocrisia ha poi toccato vertici sublimi con la presenza dei gazebo della Protezione civile. C’era dunque un disastro in corso? Una frana, un terremoto? Certo che c’era, il disastro! Ed era quello delle persone gettate in mezzo alla strada con le masserizie sparse sui marciapiedi e nei cortili, della rinnovata perdita di ogni pur minima sicurezza (un tetto sotto cui ripararsi), della forzata ricerca di altri alloggi di fortuna, della convivenza obbligata in casa di parenti e amici. Era la desolazione del via vai di mobili, casse, sacchi, materassi, frigoriferi, divani, scaffali, caricati su grossi furgoni e trasportati in depositi, previa l’apposizione di una firma (vale a dire, una schedatura), che equivaleva all’impegno ad andare a ritirarli entro sessanta giorni: dopo di che, la discarica… Il disastro era, in una parola, “l’intervento pacifico” delle “forze dell’ordine” e dei loro mandanti (la speculazione, la rendita, il profitto, sotto la direzione dell’Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale, Aler).

Nell’incapacità di affrontare la dinamica capitalista della crisi e dei suoi effetti economici e sociali, nell’autunno 2014 le “autorità competenti” milanesi avevano messo a punto un tavolo di lavoro e una task force per reprimere con un’azione programmata le cosiddette “occupazioni abusive” e imporre lo sgombero degli alloggi. Il piano doveva consentire un’azione rapida ed efficace, cominciando a colpire i nuovi “abusivi” e passando in seguito alle situazioni non risolte per “sanarle”, e prevedeva 200 sgomberi alla settimana e in situazioni estreme l’uso dell’esercito: un attacco in piena regola, portato in nome della rendita fondiaria, degli interessi immobiliari e dei profitti. Erano dunque seguiti gli sgomberi del novembre 2014: al Giambellino (il 17/11), al Corvetto (il 18/11) e a San Siro (il 21/11). Alla fine dell’azione repressiva, il prefetto di Milano poteva dunque concludere, con soddisfazione: “Gli sgomberi decisi settimanalmente dal tavolo tecnico-operativo della Questura proseguiranno come da programma”. La Procura, a sua volta, riunendo in tre fascicoli gli episodi legati alle tensioni createsi sul tema degli sgomberi forzati decide di affidarli “all’antiterrorismo”.

A seguito di quegli sgomberi, la partecipata assemblea di tutte le situazioni interessate tenutasi al Centro Sociale Conchetta aveva elaborato un sedicente piano di autodifesa, quartiere per quartiere: un’organizzazione di vigilanza. Sono passati nove mesi da allora. Ma quell’organizzazione (nata sulla carta, in maniera spontaneista e velleitaria) non ha tenuto e nel frattempo si è dissolta: a dar man forte agli sgomberati di via Comacchio non è arrivato nessuno striscione, non si è formato nessun presidio. E così, il 19 agosto, la breve assemblea improvvisata in piazza Ferrara e il corteo notturno di pochi manifestanti, tenuti sotto stretto controllo da un ingente numero di poliziotti, hanno solo potuto far sentire la propria esile voce contro l’attacco subito. Dov’è finita la “risposta unitaria” che a novembre 2014 uno striscione sintetizzava nello slogan 200 barricate ai 200 sgomberi”?

In quell’occasione, avevamo scritto, sulle pagine di questo giornale: “la risposta non può sortire sviluppi senza un’organizzazione territoriale stabile, senza un programma d’azione e obiettivi precisi. La solidarietà delle aree sotto attacco rimane una parola inefficace, perché i bisogni che concorrono alla lotta finiscono per divergere se non si chiariscono e affrontano prima le finalità della lotta. Occorre un coordinamento cittadino e responsabilità operative tali da rispondere colpo su colpo agli attacchi” 1. Ciò evidentemente non è avvenuto, perché si è preferito affidarsi alla risposta spontanea, al “caso per caso”, alla “disorganizzazione organizzata”. E così, ancora una volta, lo Stato ha avuto buon gioco a dimostrare, una volta di più e in maniera “pacifica”, la propria capacità di “violenza potenziale”: di avere cioè il monopolio della violenza organizzata, nei confronti di chiunque turbi la “pace sociale”.

Sempre in quell’articolo, ricordavamo: “I difensori del ‘diritto’, della ‘legalità’ e della ‘pace sociale’ raffigurano la miseria come uno stato di potenziale pericolo e aggressione nei confronti della proprietà privata e del profitto. Incapaci di affrontare gli effetti economici e sociali generati dall’economia capitalistica, dallo stato di crisi, dalla corruzione, gli apparati dello Stato preparano i loro interventi repressivi contro le lotte, in particolare nelle periferie delle grandi metropoli, per respingere le occupazioni delle case sfitte. […] Le lotte sociali, ancora spontanee e locali, trovano innesco nelle paghe miserabili, negli alti affitti, negli sfratti, negli sgomberi. Tutti gli apparati del cosiddetto benessere messi in atto in questi anni vanno saltando e i sussidi, le forme pelose di assistenza, le tante promesse convincono sempre meno: la miseria si presenta nella sua veste più nera, quella rappresentata dai mendicanti e dai senza tetto. […] Nei quartieri proletari e popolari si accumulano situazioni esplosive a causa di una condizione insopportabile, mentre i grandi piani di opere urbanistiche sventrano le città e sconquassano le campagne nel tentativo di uscire rapidamente dalla crisi economica”.

Oggi come allora e come, sempre più, domani, emerge la necessità che rinascano organismi territoriali di difesa proletaria, in grado di farsi carico di tutti gli aspetti relativi alla risposta da dare all’attacco anti-proletario: dall’organizzazione delle lotte nelle fabbriche e nelle campagne alla questione delle abitazioni, dal caro-prezzi di gas, luce, trasporti, alla condizione sempre più vulnerabile di donne, bambini e anziani, fino alla difesa reale contro ogni assalto da parte di bande armate “legali” piuttosto che “illegali”, “democratiche” o “fasciste”, comunque sempre espressione del dominio del Capitale sul Proletariato.

E urge che quella rinascita avvenga non sulla carta, figlia del “fascino delle barricate” o dello “sparafucilismo parolaio”, ma grazie alla serietà e alla metodicità, e soprattutto alla guida (necessaria e non aggirabile), delle autentiche avanguardie di lotta, dei rivoluzionari comunisti.

 

1 “Nella bufera della crisi, piani programmati di controllo e d’azione repressiva nei quartieri e nelle fabbriche”, il programma comunista, n.6/2014.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)