Guerra totale in Medioriente

Pubblicato: 2015-07-15 20:53:47

Alla fine del 2014, abbiamo lasciato l’intero Medioriente nelle convulsioni politico-militari e i prezzi del petrolio sulla soglia dei 50$/b, e a giugno ci troviamo in piena guerra civile, non solo in Siria, dove prosegue lo scontro tra l’esercito di Assad, l’Isis, e i gruppi anti Assad sorretti dalla coalizione americana, ma anche nello Yemen, sotto i bombardamenti condotti da una coalizione di Stati al comando dell’Arabia saudita contro i ribelli (sciiti) Huthi. Nel contempo, abbiamo ritrovato l’area siro-irakena percorsa da reparti irakeni incapaci di combattere, messi in fuga dall’Isis che ha occupato Kobane, Raqqa e Ramadi sull’Eufrate e, lungo l’asse del fiume Tigri, prima Mossul e poi Tigrit a ridosso di Bagdad e infine Palmira, lungo il corridoio per Damasco.

Sull’onda del momentaneo rialzo dei prezzi del petrolio, Il Sole-24 ore del 23 maggio titola: “Petrolio. La guerra in Medioriente non frena le estrazioni. Ai livelli record l’export di Arabia Saudita e Irak”. Tutto okay, dunque, la guerra serve: in pochi mesi, il prezzo è salito sopra i $60 il barile. Solo speculazione? O siamo ancora dentro la dinamica della crisi di sovrapproduzione, con i suoi alti e bassi?

Sempre alla fine del 2014, abbiamo lasciato il caos in Libia e la spartizione del suo territorio tra Tobruck e Tripoli, “governate” da entità politiche del tutto incapaci di prevalere l’una sull’altra e di rappresentare, o una o l’altra, politicamente lo Stato libico, cui si sono aggiunte nel frattempo, nell’area di Bengasi, di Derna, della Sirte centrale, gruppi mercenari del tutto simili alle forze jiadiste dell’Isis, milizie islamiste provenienti dal Maghreb e dalla Penisola arabica. L’appoggio dell’Egitto permette di sostenere il governo di Tobruck, che combatte contro islamisti e Fratelli mussulmani. L’appoggio della Turchia e del Qatar permette a sua volta di sostenere Tripoli, che per dimostrare la propria legittimità politica, riconoscendo ancora il vecchio Parlamento e il Congresso nazionale libico, riceve aiuti dai Fratelli mussulmani. Nella fascia montagnosa al confine con la Tunisia, appoggiati dall’Algeria, si trovano i Berberi delle brigate di Zintan e infine nel sud e al confine tra Niger e Algeria contro i jiadisti si battono anche le tribù dei Taubou e dei Tuareg.

La gestione, il controllo, la proprietà delle aree petrolifere protette e aperte al traffico, continuano intanto ad alimentare i conflitti: la vendita legale e di contrabbando del petrolio non si arresta, procura masse ingenti di profitti. Non si arrestano ovviamente nemmeno i canali di finanziamento delle varie bande in guerra, né si fermano il traffico di armamenti (pick-up, mitragliere, vecchi tank, artiglieria, lanciarazzi, blindati) e, prodotto da questo caos generale, l’immenso flusso di proletari che s’ammassa sulle rive africane per essere venduto sul mercato europeo della forza lavoro. Gli infernali barconi di Caronte affondano con la loro merce umana in mezzo al Mediterraneo con l’aiuto della “benemerita” marina europea, che, non avendo il compito di raccogliere i disperati, ne ha lasciato affogare oltre un migliaio. La libertà del Capitale, su cui si fonda la democrazia borghese, mobilita merci, denaro e forza lavoro ed è sacra e inviolabile. Si discute nella democratica Europa se attaccare i barconi degli scafisti alla partenza o se mandare truppe di terra per fermare gli islamisti: ma si discute anche delle quote da assegnare a ciascun Stato, e alla proposta si è risposto che ciascuno si pigli i miserabili che il mercato, grande livellatore come la morte, gli destina.

L’intero Medioriente e la Libia sono dunque in fiamme. Che cosa rimane di quest’ultima, come entità statale, e che cosa rimane dell’Iraq? Decomponendosi, le loro mappe geopolitiche si accartocciano sotto i colpi inferti dai nuovi barbari. Parti del territorio, nell’area degli scontri, vengono “conquistate”, altre abbandonate, e così le lunghissime e aride vie di transito che, tagliando il territorio iracheno, portano in Siria. Le frontiere in questo largo tratto non esistono più. I tre valichi che portano in Siria sarebbero stati occupati: due dall’Isis (Tanaf e Bukamal) e il più a nord dalle forze kurde (Jarrubia). Il cosiddetto Califfato abilmente penetra nelle contraddizioni create dalle due micidiali guerre del Golfo americane e in quelle della Nato, mette gli uni contro gli altri, sunniti e sciiti, attaccando gli uni o gli altri là dove il livello del contrasto si presenta più sensibile. Controlla, si dice, un’area grande quanto la Gran Bretagna, dove sono distribuiti otto milioni di persone. Avrebbe già occupato metà circa della Siria e un terzo dell’Iraq. Da estensione a macchia di leopardo, si starebbe unificando territorialmente – gridano esterrefatti i media. Parecchie decine di migliaia tra miliziani, mercenari, militari, volontari laici e religiosi passerebbero da un fronte all’altro, mentre le città, in parte bombardate, si spopolano, la gente abbandona case e masserizie o tenta di sopravvivere come ha fatto sempre, là dove ha sempre vissuto nella disperazione più totale e facendo posto ai nuovi arrivati.

Uno Stato islamico: ma su quale fondamento? Ci dicono: avendo un esercito, forze repressive, un’amministrazione con scuole, uffici governativi, servizi pubblici e ospedali, tasse da poter riscuotere, grandi risorse economiche (terra da coltivare, giacimenti da sfruttare, raffinerie) e una legge islamica, che cosa mancherebbe? Nulla. Girando le famose tre carte, uno Stato fittizio lo si trova comunque in Medioriente. Il fronte anti-Isis, costituito da militari sunniti, milizie sciite iraniane, peshmerga curdi, più altri gruppi tenuti insieme da chissà quali interessi contrastanti, d’altronde, rassomiglia sempre più a quello islamista. Si conferma così il fatto che, sui fronti di guerra, il metodo, i mezzi, le organizzazioni, le azioni di combattimento tendono a uniformarsi.

Gli scontri tra maggioranza sciita e minoranza sunnita in Irak continuano ad acutizzarsi. Al tempo di Saddam Hussein, la società irachena era composta non solo da gruppi diversi non solo per etnia, ma anche per religione e persino appartenenza tribale. Il regime, favorendo soprattutto la minoranza sunnita(circa 25% della popolazione irachena), sfruttando le discriminazioni fra i vari gruppi e contenendo nello stesso tempo le divisioni (comprese quelle del Kurdistan irakeno), riusciva a tenere unite le strutture sociali e politiche del Paese. Gran parte delle posizioni burocratiche di una certa responsabilità (dirigenti del partito, funzionari governativi, ufficiali dell'esercito, ecc.) erano affidate ai sunniti, possibilmente di tendenze laiche, ma una certa autonomia e responsabilità veniva garantita anche ai kurdi. In teoria, il regime di Saddam Hussein, imponendo all'Iraq un’ideologia laica enazionalistasotto la direzione del partito Baath, garantiva un grado abbastanza elevato di unità del Paese, capace di reggere alle divisioni interne. L'opposizione a Saddam era particolarmente forte fra coloro che erano danneggiati dalle discriminazioni, ovvero fra glisciiti(oltre il 50% della popolazione) e i curdi (circa il 20%). Una sola cosa oggi è certa: le trivellazioni del petrolio, la cui quantità si è andata normalizzando e tende a crescere; ma il Paese di Saddam non esiste più, la deriva delle varie etnie si è approfondita. Per mantenere un minimo di unità del fronte anti-Isis (debolezza e incapacità di combattimento denunciate dagli Usa), gira una gigantesca massa di dollari. Ma, sottolineano i generali, aver sciolto l’esercito irakeno, unico simbolo dell’unità del Paese, e aver disperso buona parte dei quadri sunniti dopo la seconda guerra americana è stato un grave errore: senza di loro, l’Isis non può essere vinto. Fra discriminazioni e ritorsioni delle forze sciite contro i civili, la parte sunnita tende a scegliere piuttosto il fondamentalismo islamico (fra l’altro, dopo le recenti feroci rappresaglie sciite a Tigrit), a fronte di questa condizione che non ha futuro. Non per nulla l’immensa massa di dollari viene spesa per convincere, armare e addestrare le truppe sunnite a battersi contro l’Isis, in cambio di un ritorno agli antichi privilegi. La situazione non può reggere ancora per molto tempo.

La devastazione della moschea di Al-Qadeh, provocata di recente da un kamikaze in Arabia saudita, nell’area territoriale del Golfo, in cui il 15% della popolazione è di orientamento sciita, è stata attribuita all’Isis. Inevitabilmente, questi eventi estemporanei, innalzando il livello di scontro tra le comunità, alzano anche quello del conflitto con l’Iran ed estenderanno la guerra nell’area del Golfo. Una volta incendiata l’area di Bassora attorno allo Shatt-al Arab alla confluenza del Tigri ed Eufrate, l’incendio si propagherà all’area di navigazione e di traffico del greggio: un punto di non ritorno.

L’Iran, riconosciuta come potenza regionale, anche per la presenza dei suoi arsenali nucleari, stringendo accordi con gli Usa e la Russia (missili e materiale fissile) in nome di una diminuzione delle sanzioni e della normalizzazione dei rapporti nell’area, è già presente, non ufficialmente, in Iraq, pronto a espandere e rafforzare la propria partecipazione agli scontri militari a sostegno delle forze militari sciite di Assad e probabilmente di quelle libanesi di Herzbollah e palestinesi di Hamas, che promettono, a loro volta, di voler difendere la Siria e il Libano dalla minaccia dell’Isis. Usa e Iran, intanto, nella grande confusione di ruoli, negoziano a Vienna sul nucleare, si combattono in Siria e sono alleati in Iraq. Se gli Usa intervenissero con truppe di terra, il caos regnerebbe sovrano, perché per attaccare l’Isis in Siria bisognerebbe avere Assad e l’Iran come alleati: ma in Iraq appoggiare l’orientamento strategico dell’Iran significa avere contro l’Arabia saudita, la Turchia e i sunniti irakeni. Non per nulla, le truppe di orientamento sunnita, non combattendo, attuano una sorta di disfattismo politico.

Tace per adesso la minaccia d’intervento diretto della Turchia, che sostiene gli jiadisti contro il regime di Assad: sotto l’avanzata dell’Isis, 400 km del suo territorio confinano oggi con il Califfato. Non solo: nell’assedio di Kobane da parte dell’Isis, la Turchia si è trovata a contrastare le forze curde, cui erano stati destinati aiuti militari da diversi Stati europei. Nel frattempo, perdendo i contatti con i Fratelli mussulmani, detronizzati in Egitto, e con i salafiti libici di Tripoli, Ankara non ha più forze d’appoggio territoriali nel Nord Africa come in passato. Le difficoltà si vanno sempre più approfondendo, conseguenze della guerra: nel territorio turco, si stanno ammassando dall’inizio del conflitto due milioni di profughi siriani, che di là si spingeranno verso la Grecia. E’ diminuito anche l’intervento curdo nell’area irakena, limitato per adesso al controllo delle proprie aree d’interesse immediate e future tra il confine turco-siriano e tra le città di Mossul e Kirkuk (il Kurdistan irakeno). La forza kurda del Pkk, a sua volta, viene rigidamente tenuta sotto stretta sorveglianza dalla Turchia affinché l’arsenale di armi di cui è in possesso non trasbordi anche in territorio turco. L’area in cui confluiscono Iran, Irak e Kurdistan comunque è quella che alimenta domanda e offerta nei settori militare e petrolifero: qui sono le vie lungo le quali si dà continuità al conflitto. La recente vittoria alle elezioni in Turchia del partito filo-curdo ha allargato le contraddizioni interne (il 20% sul totale dei 77 milioni di abitanti è curdo), contrasti che nell’arco di trent’anni hanno prodotto almeno 40mila morti. La Turchia è un’altra delle potenze regionali, fronte sud della Nato, strategico passaggio delle pipelines provenienti dalla Russia, dal Caucaso, dall’Iran e dall’Irak, da cui nessuna potenza può sganciarsi.

Intanto, si rafforza la dittatura egiziana con una dura repressione nei confronti dei Fratelli mussulmani. Dalle dimissioni del presidente Mubarak del febbraio 2011 alle elezioni di Al-Sisi del 28 maggio 2014 (con il 96,9% di suffragi), sono passati appena tre anni. L’intero territorio che dallo Yemen porta al Golfo è stato attraversato da lotte, guerre civili e interventi militari. Prima, scontri e proteste popolari sull’onda delle manifestazioni sociali delle “primavere arabe”, in particolare in Arabia saudita, in Kuwait e nel sultanato di Oman; poi, l’intervento delle forze armate saudite e degli Emirati Arabi in Bahrein; infine, la pressione delle monarchie del Golfo sullo Yemen perché il presidente yemenita lasci il potere e al suo posto venga posto il presidente Hadi. Il 3 luglio 2013 in Egitto viene destituito il presidente Morsi, eletto nel 2012, e poi condannato a morte. Nell’estate 2014 cominciano i bombardamenti con droni e aerei sotto la guida degli Usa contro la Siria di Assad, in appoggio agli islamisti antiAssad e contemporaneamente contro l’Isis. La coalizione (con Egitto, Giordania, Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi, Marocco, Sudan) guidata dall’Arabia saudita scatena (nel marzo del 2015) un’offensiva aerea contro i ribelli Huthi nell’area di Sanaa, il cui costo in vite umane è salito a 1849 persone. Si estende con questi scontri il lungo fronte di guerra che dal Kurdistan irakeno, attraverso il territorio irakeno, giunge all’area del Golfo Persico. Da Mossul a Bagdad fino a Bassora e al Kuwait, l’intera via del petrolio è entrata nell’occhio del ciclone.

Il contrasto fra Arabia saudita e Iran, non ancora manifestatosi a livello militare, è una conseguenza dello scontro economico e geostrategico (produzione petrolifera e commercio), mascherato da contrasti religiosi (sunniti contro sciiti) ed etnici (persiani contro arabi). La via per uscirne imporrebbe la creazione di un’alleanza tra Usa, Arabia Saudita e Iran contro l’Isis, cui legare Russia, Cina ed Europa. Si porrebbe, così dicono, un sistema di sicurezza collettiva mediorientale, costituita per la prima volta non da esclusioni ma da accordi. Bella idea! Peccato che le esclusioni siano dovute appunto a fattori materiali e non a elucubrazioni mentali, fissazioni religiose, fascinazioni guerriere! In questa triangolazione, dove si collocherebbero Israele, Egitto e Turchia? Alle pedine, bianche o nere è indifferente, la prima mossa: che la macellazione cominci!

Intanto, mentre gli eserciti arabi (in attesa che entri in scena anche quello iraniano) lottano l’uno contro l’altro, l’esercito israeliano, in perenne mobilitazione, minaccia e prepara le forze di rapido intervento, sia respingendo le politiche rinunciatarie americane sia frenando il riconoscimento legale dello Stato palestinese. La condizione perché s’inneschi il confronto militare tra le grandi potenze dell’area – Arabia Saudita, Iran, Israele, Egitto, Turchia – si va facendo sempre più vicina. In questo carnaio, delle piccole e medie entità politiche statali sparse per il Medioriente non rimarrà più traccia. E l’unica vittima sarà, ancora e sempre, il proletariato mediorientale.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)