Il mondo-lager del capitalismo

Pubblicato: 2015-07-06 18:21:54

A dar retta a politici, mezzi di comunicazione di massa, “opinionisti” ed “esperti” di vario genere, sembra che l’impegno collettivo sia oggi quello di “salvare il pianeta”, “nutrire gli affamati”, “allungare la vita”, “vincere le malattie”, “tutelare la natura”, “difendere i beni comuni”, “combattere lo spreco”, “promuovere lo sviluppo e l’innovazione”, “incrementare il benessere collettivo”, “espandere diritti e cittadinanza”… un’ubriacatura di francescanesimo, un delirio di ottimismo “fai-da-te”, di mobilitazioni all’insegna del “volemose bene”, dell’“amarci l’un l’altro”, della fratellanza e della fraternizzazione. Il Vangelo in atto, finalmente!, con la benedizione del Papa gesuita.

Intanto, non passa giorno senza che giunga notizia di una nuova strage di proletari in qualche parte del mondo: nelle miniere e nelle fabbriche, nelle strade delle metropoli, sotto le macerie di qualche edificio crollato, sui barconi alla deriva nel Mediterraneo o nel Pacifico… Oppure, in solitari letti d'ospedale (se va bene!), dopo essere stati avvelenati dall'amianto, dal piombo o da qualche altra sostanza nociva respirata in decenni di lavoro salariato – di schiavitù salariale.

Sempre più, mentre dilagano il perbenismo forzato e l’imperativo categorico dello “star bene”, il mondo del Capitale (del pluslavoro che produce plusvalore) diviene un gigantesco lager in cui, nell'indifferenza generale, si pratica un autentico genocidio, ancor più esteso, cinico e spietato dei molti che l'hanno preceduto o accompagnato, nei due secoli e mezzo della sua esistenza.

Negli ultimi decenni, poi, stretto nella morsa della crisi economica (un saggio medio di profitto che precipita, un'accumulazione che non riesce a risollevarsi), la ferocia delle sue reazioni s'è fatta ancor più acuta: guerre devastanti per il controllo di fonti energetiche e vie di passaggio di materie prime, dilaganti misure di contenimento e di controllo, esecutivi sempre più forti e “dittatoriali”, militarizzazione della vita sociale, repressione aperta, omicidi a sangue freddo di proletari... E assoluta precarietà del vivere quotidiano, migrazioni disperate, una disoccupazione che è incertezza assoluta del futuro, il trascinare i giorni mentre passa il tempo della vita, una violenza che fermenta nei pori di una società abbrutita ed esplode in comportamenti individuali e di massa.

Nigeria, Libia, Yemen, Siria, Ucraina, Irak, Pakistan, Afghanistan... sono oggi i nomi più eclatanti di una lista allungatasi nel tempo. Ma non c'è area del mondo che non conosca questa violenza diffusa, questo stillicidio di morti: l'America Latina, l'India e la Cina, l'Estremo Oriente... e l’“Europa faro di civiltà”, che sempre più si chiude entro frontiere e muraglie, controlli e barriere, sofisticate tecnologie di sorveglianza dal cielo e dal mare, e respinge o imprigiona i disperati in fuga, approfitta della loro disperazione per organizzare mirabolanti esercitazioni militari, scarica su di essi l'esasperazione di mezze classi disorientate dalla crisi nonostante i “bei discorsi”. O promulga “leggi-bavaglio”: in Spagna, la Ley de Seguridad Ciudadana (Legge sulla sicurezza pubblica, approvata a fine 2014) introduce misure ultra-repressive nei confronti di qualunque comportamento antagonista, dal corteo non autorizzato alla mancanza di documenti – “45 nuove infrazioni divise tra molto gravi (con sanzioni dai 30mila ai 600mila euro), gravi (da 600 a 30mila euro) e lievi (da 100 a 600 euro)” (Il Fatto Quotidiano, 15/12/2014). Intanto, ad alimentare altra disperazione, mentre da più parti si inneggia all’imminente “uscita dalla crisi”, la miseria cresce ovunque: in Italia, l’ISTAT (19 giugno u. s.) rivela che sono 15 milioni le persone ai limiti della miseria, rispetto ai 12 milioni dell'anno passato. E la gragnuola dei licenziamenti, attuali e futuri, prosegue imperterrita, mentre le “forze dell’ordine” (legali e illegali, squadracce di picchiatori e sindacati ufficiali compresi) rispondono alle ancora episodiche lotte proletarie con la repressione più o meno aperta.

Un gigantesco lager – questa è la società del capitale, questo è il modo di produzione capitalistico. La fabbrica-galera della Rivoluzione Industriale, che ha rimodellato l’intera società a propria immagine e somiglianza, s'è estesa al mondo intero, trasformandolo in un'unica prigione: dorata per alcuni, soffocante per altri, massacrante per i più. Nato nel fango e nel sangue, grazie al fango e al sangue il Capitale è prosperato, e continua a sopravvivere.

Chi non sia stato reso ottuso dagli spot sul “migliore dei mondi possibili” prova rabbia e indignazione. Ma non ci si può limitare a esse, di fronte al martirio incessante dei nostri fratelli di classe, incalzati e perseguitati ovunque nel mondo: lasciate a se stesse, rabbia e indignazione producono solo frustrazione e sconforto, rassegnazione e passività. Quella rabbia e quell’indignazione devono organizzarsi e indirizzarsi: devono ritrovare una prospettiva e un programma. E allora bisogna tornare a operare per resistere a quest'attacco, bisogna tornare a imparare e praticare il senso dell'antagonismo fra noi e il capitale, fra noi e il suo Stato (militare e poliziesco anche quando indossa la maschera democratica: anzi, ancor più subdolamente oppressivo quando la indossa). Tornare a lottare, organizzare ed estendere le lotte, ricostruendo organismi territoriali di difesa economica e sociale. Recuperare il senso reale, materiale, della solidarietà di classe – non elemosina caritatevole, non lacrimevole piagnisteo, ma decisa contrapposizione al nostro nemico di classe, fronte unito proletario cementato dalla comprensione che “l’attacco a uno è un attacco a tutti”. Solo così è possibile compiere il primo passo per uscire dall’indifferenza e dalla vulnerabilità, dall’abbrutimento e dalla disperazione, individuali e collettive. Solo così è possibile tornare a lottare per abbattere muraglie, frontiere, lager, stati di polizia, di “democrazia blindata”.

Nel corso di queste stesse lotte, diventerà sempre più chiaro che si deve anche e soprattutto tornare a lavorare per il partito rivoluzionario – non un’opzione fra le tante, ma una necessità materiale. Il partito rivoluzionario è scienza del movimento proletario e comunista, ne è memoria storica: è teoria e prassi della rivoluzione, arma della critica e critica delle armi. Senza la sua guida, senza la sua prospettiva, ogni lotta, anche la più generosa, non solo è destinata a rifluire, ma a disperdersi.

Torniamo a osare, dunque: la “via dell'assalto al cielo” ci attende! Lasciamoci alle spalle tutte le ignobili falsità cucinate sul comunismo e la società senza classi, nei novant’anni della più truce e atroce controrivoluzione che mai si sia abbattuta sul movimento operaio e comunista.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)