La crisi greca è la crisi del capitale mondiale

Pubblicato: 2015-04-02 12:45:04

Resistenze” nazionali

La situazione in Grecia è tornata alla ribalta in seguito alla vittoria alle elezioni di dicembre 2014 di Siryza, raggruppamento di sinistra "radicale" che non si è fatto scrupolo di formare il nuovo governo con una partito apertamente di destra: a unire due anime all'apparenza così lontane, un nazionalismo antieuropeo, o meglio antitedesco, che attribuisce alla Germania la responsabilità dell'affamamento del popolo greco, sottoposto alla più dura austerità. L'affamamento va inteso in senso letterale per la percentuale di greci sotto la soglia di povertà (=con un reddito inferiore al 60% della media nazionale), che dal 2009 è passata dal 14% al 30% a causa delle politiche di rientro dal deficit che, al momento del passaggio di consegne dal governo di centrodestra al Pasok di Papandreu (fine 2009), aveva toccato il 13% dl Pil.

Siryza ha posto sul piatto della bilancia delle trattative con i “cerberi europei” il peso di questa miseria, chiedendo un'attenuazione della pressione per essere messa nelle condizioni di gestire la tensione sociale che il prolungarsi delle misure di austerità potrebbe esplodere in aperta lotta di classe. Il programma elettorale prometteva una serie di misure a favore delle categorie più bisognose, la restituzione della tredicesima ai pensionati, il contenimento del prezzo dei combustibili. Quanto agli interventi sul lavoro, che più avrebbero dovuto qualificare l'azione di governo, Syriza prometteva di alzare il salario minimo, 300.000 nuovi posti di lavoro, la riassunzione di 100.000 statali licenziati, il ripristino dei contratti collettivi e limiti alle possibilità di licenziamento.

Il confronto con l'Eurogruppo si è però risolto in una vera batosta per la consueta e prevedibile intransigenza della Germania e dei suoi alleati. Così, il governo di Atene ha dovuto redigere un nuovo piano da sottoporre all'approvazione dell'Eurogruppo, nel quale accetta di subordinare ogni aumento salariale al rispetto dei vincoli di bilancio e di collaborare con l'OCSE per una riforma della legislazione sul lavoro, dalla quale ci si può aspettare solo uno smantellamento delle residue garanzie in nome della flessibilità e della produttività. Su questo terreno dunque "l'inversione di rotta... è totale, quasi imbarazzante" (1).

Anche sugli altri temi nel nuovo piano è rimasto poco o nulla dei proclami iniziali. Le privatizzazioni, che dovevano rientrare, hanno avuto praticamente il via libera; l'annunciato spostamento del peso della tassazione dalle categorie popolari ai redditi più elevati e ai patrimoni è completamente rientrato; ed è rimasta solo la dichiarazione, che lascia il tempo che trova, di una “lotta senza quartiere” all'evasione fiscale e alla corruzione. L'immancabile capitolo intitolato “Spending review” ora prevede la riduzione dei ministeri, una stretta sui prepensionamenti e il controllo della spesa sanitaria, tutte misure perfettamente in linea con la ben nota cura dimagrante all'europea. Quanto alle banche, dissanguate dalla fuga di capitali (70 miliardi in 5 anni) e con il 33,5% dei prestiti in sofferenza, i pretesi “sinistri” minacciavano di nazionalizzarle e di controllarle con misure volte a impedire i sequestri della prima casa, la confisca dei conti correnti e dei salari per insolvenza: niente di tutto ciò è stato confermato, né saranno toccati gli 11 miliardi di euro del Fondo ellenico per la stabilità del credito che Syriza diceva di voler utilizzare per finanziare misure sociali. Il sistema bancario del Paese dipende ora dai finanziamenti di emergenza della Bce, che da febbraio non accetta più i titoli del debito greco come collaterale. L'alternativa all'obbedienza totale ai diktat di Bce, Fmi e Commissione europea sarebbe dunque lo strangolamento del sistema bancario greco e un salto nel buio dagli sviluppi imprevedibili.

Grazie agli impegni presi dai rappresentanti greci dopo la rinuncia agli iniziali intenti, l'Eurogruppo ha concesso un prolungamento di quattro mesi dei finanziamenti della Bce per permettere i pagamenti in scadenza. Tuttavia, già a marzo i rapporti con la Bce si sono fatti particolarmente tesi. Il governo greco, accusato di aggirare il blocco dei finanziamenti di Eurotower vendendo titoli del debito pubblico al sistema bancario, accusa a sua volta la Bce di tenere il Paese “con la corda al collo”. La Grecia continua dunque a essere in crisi di liquidità e ha difficoltà a far fronte alle scadenze. La “guerra” sottostante agli accordi temporanei o di facciata è dunque ancora in pieno svolgimento, ma i suoi esiti sono già segnati. Il governo Syriza si opponeai diktat della borghesia europea, relegando il proletariato greco nei confini asfittici di una lotta nazionale e popolare e lo condanna alla resa, a nuove forme di subordinazione al capitale interno e internazionale. Ai primi cedimenti alla Troika ne seguiranno altri, finché questi “difensori del popolo” non saranno costretti a ammettere la sconfitta e dimettersi o accettare, come i loro predecessori, di fronteggiare la rabbia dei proletari greci ancora una volta disillusi.

L'origine della crisi greca rientra nella crisi generale del meccanismo di accumulazione capitalistico

Fin qui, la cronaca dei recenti sviluppi della crisi e di una sconfitta annunciata, che tuttavia non risolve affatto la situazione e non esclude la possibilità, sebbene remota, di fallimento e uscita della Grecia dall'Euro. E' però necessario richiamare almeno per sommi capi l'origine delle attuali difficoltà del Paese.

Negli anni che hanno preceduto il crollo della produzione mondiale del 2008, la Grecia aveva registrato una crescita del Pil tra le più elevate dell'Eurozona (intorno al 30% dal 2000), inferiore solo alla “virtosissima” Irlanda (+ 40%). Se per l'Irlanda la progressione era dovuta essenzialmente all'afflusso di capitali speculativi al sistema bancario grazie ad una tassazione da paradiso fiscale, per la Grecia la crescita era stata finanziata dal debito pubblico e da un forte disavanzo nel bilancio dello Stato e nelle partite correnti. Restando ai fenomeni di superficie, è dunque vero che la società greca – la borghesia e i ceti parassitari, dato che ai proletari vanno le briciole – aveva vissuto “al di sopra dei propri mezzi”, ma non più di quanto si fosse fatto negli Stati Uniti con i mutui subprime americani, le carte di credito senza limiti di spesa, o con le bolle immobiliari in Irlanda, Spagna e altrove. Il credito in generale svolge la funzione di spingere la produzione oltre i suoi limiti, così i subprime tenevano a galla il mercato immobiliare, l'edilizia e indirettamente i consumi americani, mentre le banche tedesche che acquistavano titoli del debito pubblico greco finanziavano se stesse con i rendimenti, e nello stesso tempo le industrie esportatrici tedesche si accaparravano fette consistenti di quel mercato. La crescita del Pil e del debito pubblico dipendeva da un ciclo di espansione che, nei Paesi a capitalismo avanzato, data la sovrabbondanza di capitali da prestito rispetto alle possibilità di investimenti produttivi con tassi di profitto adeguati, si alimentava di bolle speculative (nel credito, nell'immobiliare, nella stessa finanza). Per di più, in un contesto generale di difficoltà di valorizzazione, la struttura del capitalismo greco non offriva particolari attrattive per gli investimenti, cosicché il Paese ha rivestito un ruolo più che di creazione di valore, di realizzazionedel plusvalore prodotto altrove. Quando il ciclo di espansione si è interrotto bruscamente nel 2008, alla Grecia sono rimasti i debiti con scarse risorse per ripagarli.

Il problema del debito riflette le difficoltà di accumulazione

La crisi debitoria esprime dunque solo la superficie del problema. Gli “aiuti” internazionali avrebbero dovuto rimettere il Paese nelle condizioni di finanziarsi autonomamente sul mercato e onorare i prestiti contratti con banche e Stati, e di far fronte alle scadenze dei rimborsi e del pagamento degli interessi. In effetti, il debito greco è già stato ristrutturato in due occasioni, è quantitativamente modesto e le scadenze sono state allungate nel tempo (il 60% scade in 25 anni) a tassi di interesse relativamente bassi (2).

Le condizioni stabilite dalla “Troika” nel 2012 per la ristrutturazione imponevano politiche di aggiustamento del bilancio pubblico e di abbattimento del deficit negli scambi con l'estero. I governi greci finora hanno svolto i compiti per benino:

La Grecia ha oggi un saldo primario [un avanzo di bilancio al netto degli interessi sul debito pubblico – NdR] di tenore italiano e superiore a quello dell'Eurozona. Si è avuto un incremento delle entrate attraverso le imposte, mentre sono state tagliate le spese. I salari sono scesi da un livello di 180 verso la fine del decennio scorso (base 2000=100) fino a un livello di 120. La caduta della domanda legata alla compressione del deficit pubblico e alle retribuzioni ridotte ha di molto ridotto le importazioni, quindi il deficit con l'estero” (3).

Il prezzo per raggiungere questi bei risultati è stato però di far precipitare il Pil del 25%, cosicché, se nel 2010 l'ammontare del debito equivaleva al 140% del Pil, oggi ha raggiunto il 180%. Contemporaneamente, la disoccupazione è salita al 25,8% (1,2 milioni a ottobre 2014), il rischio povertà tocca il 23,1% della popolazione, sono fallite 230.000 piccole e medie imprese, dal 2008 il mercato azionario è sceso dell'83,8%, e rispetto al 2009 la pressione fiscale è aumentata di 9 volte per gli autonomi, di 7 volte per i dipendenti. Sono i dati di una società allo stremo.

Il tracollo dell'economia greca, che era sostenuta in buona parte dal settore pubblico, comporta ora crescenti difficoltà fiscali: nel 2014, gli introiti sono calati di 1,3 miliardi, e ben di 1 miliardo nel solo gennaio 2015. Sono cominciate a venir meno le stesse condizioni che avrebbero dovuto garantire, con l'avanzo di bilancio, la capacità di far fronte ai debiti. Questa evoluzione ha segnato il punto di svolta che ha rotto il precario equilibrio su cui si reggevano i "salvataggi" della Grecia e ha aperto la strada alla vittoria di Syriza e alla crisi attuale.

Nel frattempo, la struttura del debito greco è cambiata radicalmente: ora pesano molto di più i prestiti (80%, contro il 20% nel 2008) rispetto ai titoli, e i crediti sono detenuti per il 90% da istituzioni pubbliche (prestiti UE e Fmi e titoli detenuti da Bce e banche nazionali). Per contro, l'esposizione delle banche estere si è ridotta drasticamente (quelle dell'Euroarea nel 2013 avevano un decimo delle esposizioni del 2008). A partire dal 2013, quando pareva che la situazione in Grecia si andasse normalizzando, si è registrato un recupero nell'esposizione, soprattutto delle banche angloamericane e tedesche, ma rimane il dato fondamentale che le banche francesi e tedesche, le più esposte, sono state salvate dagli interventi della Bce e delle banche centrali nazionali, che si sono assunte il grosso del rischio (4).

Che tutto questo gran movimento di truppe finanziarie nazionali e internazionali fosse finalizzato essenzialmente al salvataggio dei sistemi bancari è confermato dal carattere del tanto agognato “Quantitative Easing”, l'annunciato “Salvatore d'Europa”, che ha visto finalmente la luce nel presepio Bce: oltre ad acquistare titoli di Stato – con esclusione proprio di quelli greci, considerati “spazzatura” – , la Bce fornirà liquidità in cambio di titoli a quattro grandi banche “sistemiche”, tra cui due landesbanken tedesche cariche di attività speculative a rischio, una banca francese e una spagnola. Il giochino di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, di riempire i buchi dei bilanci bancari con le entrate fiscali, continua nella ipocrisia generale: ma, mentre le banche non pagano affatto per gli eccessi speculativi della fase espansiva pre-crisi, la Grecia per meritare gli “aiuti” deve flagellare il suo proletariato fino all'osso, a rischio di ammazzare la bestia.

Se non ci fosse di mezzo la carne e il sangue di milioni di proletari, ci sarebbe da ridere: di tutti i generosi “aiuti” alla Grecia (254 miliardi forniti da Ue e Fmi), solo l'11% è andato all'economia del Paese, il resto è servito a ripagare i creditori con gli interessi. Una volta tratte in salvo le banche ed evitato il rischio di una crisi sistemica, sembrerebbe che ora la Grecia possa affondare senza far grandi danni, ma ciò non risolverebbe le difficoltà in cui si dibatte il capitalismo mondiale.

Il problema del debito non è un'esclusiva della Grecia: è il debito mondiale a essere cresciuto sensibilmente dalla crisi del 2008 ad oggi.

Debito mondiale (miliardollari)

Debito

2007

% Pil mondiale

2014

% Pil mondiale

incremento

%

Totale

142.000

269

199.000

286

40

Stati

33.000

62,5

58.000

83,3

76

Famiglie

33.000

62,5

40.000

57,5

21

Imprese

38.000

72

56.000

80,5

47

Settore finanziario

37.000

71

45.000

64,7

11

(D. Taino, “Il debito che grava sul futuro del mondo”, Corriere della sera, 8/2/2015)

Il fatto che tuttora, a sette anni dallo scoppio della crisi di sovrapproduzione del 2008, l'ammontare del debito nel mondo sia cresciuto del 40% significa che la crisi non è stata affatto superata, e che la Grecia è solo una manifestazione particolare di una crisi europea e mondiale. Allora, il carico maggiore riguardava imprese e settore finanziario; oggi, sono gli Stati a farsi carico della maggior parte del debito e della sua gestione. Dal 2007 ad oggi, le quote più elevate del debito in rapporto al Pil si sono trasferite da imprese e istituzioni finanziarie agli Stati, il cui indebitamento è cresciuto del 76%, contro l'11% delle banche e delle società finanziarie. L'onere del debito degli Stati si scarica sui sistemi fiscali e sui bilanci pubblici e si traduce in un inasprimento della tassazione e in tagli alle spese per il welfare.

Il problema non è quindi il debito in sé, ma l'assenza di tassi di crescita dell'economia che aumentino il denominatore nel rapporto debito/Pil. In altri termini, i tassi di incremento della produzione (di plusvalore), determinati solo dall'impiego di lavoro vivo, non sono sufficienti a compensare i tassi di incremento del debito, determinati dal livello dei tassi di interesse, cioè della quota di plusvalore destinata alla rendita. Il caso greco incarna semplicemente a un grado mediamente più problematico le difficoltà di valorizzazione che caratterizzano nel suo insieme il modo di produzione capitalistico in questa fase storica. Le possibilità della Grecia di uscita dalla crisi dipendono da una nuova fase di espansione della produzione mondiale e dal ruolo che le assegnano gli imperialismi più forti.

A questo proposito un esperto di investimenti strategici cinese ha dichiarato: “La Cina non è interessata a mettere in discussione le relazioni con l'Europa per correre in aiuto della Grecia, un Paese poco interessante dal punto di vista delle risorse naturali e degli investimenti privati [...] Il peso di Atene in Europa non è particolarmente incisivo, il settore industriale è poco vocato alle esportazioni e quello tecnologico è poco sviluppato” (5).

Se Syriza sperava nell'appoggio della Cina nel suo confronto con l'Eurogruppo, ha avuto la sua risposta. Per il capitalismo cinese, il governo greco deve obbedire al suo padrone, e il suo padrone è la Germania. La Cina, ormai terzo investitore mondiale dopo Stati Uniti e Giappone, non è interessata alla Grecia in sé, bensì come possibile stazione di una nuova “via della seta” che avrebbe nel porto del Pireo uno snodo centrale per gli scambi sino-europei attraverso i Balcani. Da questo punto di vista, l'avvio della privatizzazione e le concessioni per la gestione delle attività portuali già assegnate a società cinesi dai precedenti governi sono essenziali nella strategia europea di Pechino, che fa perno sulla Germania e che punta alla stabilità dell'area sotto la guida tedesca. Sul caso greco, la Cina è schierata senza equivoci e preme perché il governo greco rispetti e confermi gli accordi già stipulati. Anche sotto il profilo geopolitico, Syriza non ha alleati, né la forza e la spregiudicatezza per lanciarsi in avventure filorusse e giocare pesante con la UE e gli Stati Uniti. Dal punto di visto economico come da quello geopolitico, il Paese ha pochi margini di manovra, non dispone di alcuna sovranità reale, se non nei limiti concessi dagli equilibri tra i grandi poli imperialisti. Nel contesto di una crisi che perdura, il grande torto della Grecia è di essere uno degli anelli più deboli nella catena dei potenziali fallimenti che gravano sul futuro dell'assetto capitalistico mondiale.

La ricetta del capitale è una sola: intensificare lo sfruttamento del proletariato

La radice del problema del debito è, anche dal punto di vista degli interessi del Capitale, la crescita: senza crescita, non c'è soluzione al problema del debito. Ma alla domanda perché la crescita sia assente, o almeno non registri più i tassi di incremento di un tempo, nessun “esperto” del capitale sa dare risposte convincenti. La fase di espansione postbellica si è conclusa definitivamente con la crisi a metà degli anni Settanta, dopo la quale, tra alti e bassi, la crescita della produzione e del commercio su scala mondiale si è accompagnata a una progressiva discesa dei tassi di incremento, più marcata nei paesi di vecchio capitalismo ma ora comune anche ai nuovi competitori internazionali. Dal punto di vista capitalistico, la fondatezza della legge marxista degli incrementi decrescenti della produzione, riflesso della tendenza alla caduta del saggio del profitto, non può essere riconosciuta: equivarrebbe a riconoscere che questo modo di produzione è transitorio e che si è raggiunto un punto critico della sua evoluzione.

Per queste stesse ragioni, le “soluzioni” di cui il capitale dispone non possono affrontare la questione alla radice, ma solo girarvi attorno. La politica di rientro dal deficit di bilancio ha rivelato i suoi effetti devastanti sulla società greca e continua a prostrare le economie della periferia dell'Eurogruppo. In teoria, i tagli alla spesa statale e agli stipendi, la riduzione dei consumi e del disavanzo con l'estero dovrebbero portare, con l'alleggerimento del debito, una riduzione del carico fiscale e favorire alla ripresa economica. Dove è stata applicata, in particolare in Grecia, questa ricetta ha prodotto esiti disastrosi: il rapporto debito/Pil è aumentato e non si è verificata (né a oggi si annuncia) ripresa alcuna, se non un modesto segno positivo nel 2014, dopo anni di cadute.

L'altra soluzione, speculare, invoca un ritorno alla spesa in deficit per rilanciare consumi e investimenti e critica l'eccesso di austerità: “L'Europa ha un bisogno disperato di crescita robusta per abbattere l'enorme massa dei suoi disoccupati e dei suoi poveri sempre più numerosi, per uscire dalla deflazione che in gennaio ha toccato -0,6%. Per riuscirvi ha bisogno di un rigore temperato, molte riforme e ancor più investimenti” (A Cerretelli, “Il rischio del default e la bandiera del realismo”, Il Sole-24ore, 25/2/2015).

Entrambe le soluzioni ribaltano completamente i termini della questione. Il debito è un prodotto della crisi del meccanismo di accumulazione capitalistico: non ne è il responsabile. Il suo aumento riflette il peso crescente del settore finanziario: costituisce il mezzo per forzare la produzione, per spingerla oltre i suoi limiti presenti, alimentando la speculazione e ogni sorta di avventura. D'altra parte, il calo degli investimenti e dei consumi è anch'esso prodotto, e non causa, della crisi: vuol dire che si è investito troppo e consumato troppo, e questa espansione spinta all'estremo con gli strumenti del credito ha generato un debito enorme, una massa di lavoro morto rappresentato da titoli finanziari che reclamano una quota di plusvalore sulla produzione reale. Il superamento della crisi passa solo attraverso una massiccia distruzione di capitale fisso e circolante, ma anche di debito. Prospettiva, quest'ultima, alla quale il capitale finanziario, forza autonoma e dominante sul capitale reale, oppone una dura resistenza per contenere al massimo le perdite. E' un circolo vizioso, perché i rendimenti finanziari non saliranno fintanto che non vi sarà una ripresa del meccanismo di accumulazione, fintanto che non riprenderà l'estrazione di plusvalore a un grado più elevato di concentrazione e di composizione organica. E' significativo che i rendimenti attuali dei titoli obbligazionari, sia pubblici che delle grandi aziende, siano prossimi allo zero, se non addirittura negativi.E' il plusvalore il grande assente! Grande la liquidità in circolazione, scarse le opportunità di fare investimenti redditizi.

Vano è quindi perseguire la riduzione del debito o il rilancio degli investimenti e dei consumi, inondando le banche di liquidità con manovre ultra-espansive e con bazooka monetari delle banche centrali, se il meccanismo di accumulazione rimane inceppato da un eccesso di capacità produttiva, da un rapporto troppo elevato tra il capitale rappresentato da macchine e materie prime (capitale costante) e il fattore di valorizzazione rappresentato dall'impiego di lavoro umano (capitale variabile), dal calo dei profitti in rapporto all'ammontare crescente del capitale impiegato.

Il problema non sorge dalle dimensioni del debito, ma nel momento in cui il nuovo valore prodotto risulta insufficiente a soddisfare il “diritto” del settore finanziario di appropriarsene. Il rimborso dei debiti greci – con gli interessi – si fonda sullo sfruttamento del lavoro vivente dei proletari greci oggi, sulla compressione del salario diretto e di tutte le forme indirette di reddito del lavoro dipendente, sulla sua flessibilizzazione e precarizzazione estrema. E' questo il contenuto sostanziale delle cosiddette riforme dal lato dell'offerta(riduzione dei salari, contrazione del welfare, flessibilità del lavoro) che vengono invocate da tutte le fazioni borghesi come chiave risolutiva della crisi (6).

Tornando alla Grecia...

La profondità e la durata della crisi hanno scatenato la competizione tra Stati, facendo soccombere quelli capitalisticamente più deboli. La Grecia non ha una struttura capitalistica tale da rendere possibile un autonomo rilancio della produzione, non dispone di settori tecnologici competitivi sui mercati internazionali. La sua ripresa può dipendere unicamente da una ripresa mondiale – sempre più incerta e precaria – che ne rilanci la vocazione turistica e commerciale, imperniata sulle strutture portuali e sui trasporti marittimi. Ma la condizione fondamentale è la riduzione del proletariato a forza produttiva asservita a condizioni di sfruttamento ancora più intense.

Probabilmente, i nuovi governanti greci speravano di non dover affrontare in solitudine il confronto nell'Eurogruppo, e che la loro iniziativa aprisse la strada a una svolta nella politica europea: “se” si fosse creata una coalizione di Stati favorevoli all'uscita dall'austerity o a un suo ammorbidimento, “si sarebbe” controbilanciato il peso della Germania e dei suoi alleati e “si sarebbe” potuto avviare una politica di rilancio della spesa pubblica e degli investimenti. A parte le paternalistiche pacche sulle spalle di alcuni capi di governo, in realtà poco propensi a fare il muso duro con i tedeschi, i rappresentanti greci si sono guadagnati perfino l'ostilità di Portogallo e Spagna, che si sono piegati alle condizioni più dure e dove quest'anno si terranno le elezioni. Qualunque concessione, infatti, darebbe fiato ai movimenti di opposizione all'austerity (come lo spagnolo Podemos, i Cinquestelle in Italia, i vari partiti populisti e nazionalisti). Così il bel quadretto della rissosa famigliola europea, con la imperturbabile cancelliera a comandare tutti a bacchetta, ha fugato per l'ennesima volta le illusioni su un'“Europa dei popoli”, alternativa all'“Europa dei banchieri”!

Una simile alternativa ovviamente non esiste. In una fase di difficoltà di accumulazione come quella attuale, il Capitale non ha altra strada se non schiacciare il proletariato sotto una legislazione sempre più ferrea e repressiva. Questo vale tanto per la Grecia, che convive da anni con il deficit della bilancia dei pagamenti, quanto per la Germania, che pure nel contesto dell'Eurozona gode di una posizione di assoluto privilegio e accumula un costante surplus nell'interscambio con l'estero. La ricetta che la Germania pretende si applichi alla Grecia e a tutti gli altri dell'Eurozona è quella che in parte ha adottato al proprio interno e che le ha consentito di rafforzare il proprio primato in Europa e di primeggiare nell'export: alzare il tasso medio del profitto con il contenimento dei salari e contemporaneamente aumentare la competitività delle proprie imprese. Il contesto della moneta unica ha poi tolto ai membri dell'Eurozona la possibilità di contrastare con svalutazioni competitive l'invasione delle merci tedesche (7).

La legge della miseria crescente si applica ugualmente ai poli opposti dello sviluppo capitalistico, non è prerogativa greca. Dal 2000 a oggi, i salari tedeschi sono cresciuti poco in termini reali, ma soprattutto è calata drasticamente quella parte di salario indiretto che confluiva nel welfare. Oggi, milioni di disoccupati tedeschi per mantenere il sussidio devono rispondere a qualunque tipo di chiamata a qualunque condizione, con retribuzioni che possono scendere fino a uno-due euro l'ora. Ecco l'arcano del successo tedesco: il ripristino di condizioni di sfruttamento da rivoluzione industriale per una fetta consistente del suo proletariato. Il capitalismo tedesco ha ripreso a primeggiare non perché progredisca in termini tecnologici e abbia aumentato la produttività del lavoro sulla base di un'accresciuta composizione organica – per altro già elevatissima – ma perché tiene compresso il valore del lavoro vivo e nello stesso tempo estende l'occupazione moltiplicando forme di lavoro precario e occasionale.

Se una simile ricetta si applica alla grande Germania, perché dovrebbe esserne risparmiata la piccola Grecia? Costringere il proletariato greco alle più dure condizioni significa disciplinare il proprio proletariato, mostrargli che non c'è limite alla discesa agli inferi della condizione proletaria.La verità è che l'attacco al proletariato greco esprime solo il livello più avanzato di un attacco al proletariato in tutta Europa. In questo contesto, lo scontro in atto nell'Eurogruppo rappresenta solo la momentanea insubordinazione di una frazione borghese all'imperialismo dominante nell'area, motivata da difficoltà di gestione della crisi sociale e da diversità di vedute sul trattamento da riservare al proletariato.

L'inganno in cui sono caduti i proletari greci affidandosi ai “radicali” di Syriza (in realtà, molto “patriottici” e molto vicini ai “renziani” di casa nostra") (8) nasce da una interpretazione riduttiva della crisi, per la quale sarebbe sufficiente abbinare alle “riforme dal lato dell'offerta” il rilancio di investimenti e consumi per far ripartire un nuovo ciclo di espansione. L'illusione di un'uscita “dolce” dalla crisi e di un ritorno ai bei tempi del “benessere consumatorio” è svanita con l'intransigenza tedesca. D'altra parte, chi, come Syriza, è capace di abbindolare i proletari con vane promesse offre un servizio utilissimo al capitale, impedendo che la rabbia si incanali finalmente verso l'aperta lotta di classe. Il crescente taglio patriottico delle rivendicazioni, la sottolineatura del loro carattere nazionale e popolare prepara la via, come ai tempi di Weimar, all'affermazione di ben altre forze, assai più radicali nell'interpretare oggi l'ostilità a un'Europa prona al tallone di ferro tedesco.

La vicenda suona a ennesima conferma della funzione storica della socialdemocrazia: prospettare una soluzione pacifica delle contraddizioni del capitalismo, disarmare il proletariato, gettarlo nelle braccia del nazionalismo più spinto, prepararlo alla guerra, estrema soluzione borghese alle contraddizioni dello sviluppo capitalistico.

Il compito assegnato dal capitale internazionale alla borghesia greca è ridurre all'obbedienza il proprio proletariato, obbligarlo ad accettare il brutale peggioramento delle condizioni di vita, se necessario schiacciarne con altrettanta brutalità ogni tentativo di difesa. A Syriza tocca dunque dichiarare il proprio fallimento politico e uscire di scena o svolgere fino in fondo i compiti socialdemocratici: realizzare le istanze del Capitale sulla pelle del proletariato. In questa prospettiva, il proletariato, in Grecia come ovunque, non ha alternative: o piegarsi o affrontare le dure prove che lo attendono con l'aperta lotta di classe, che “richiede preparazione strategica e tattica internazionalista, e non nazionale; richiede un'organizzazione politica militante e centralizzata e organismi di difesa economica che abbiano preso le distanze da tutto il fronte democratico e stalinista [...] sotto la guida di un'organizzazione politica di classe, il Partito comunista internazionale. Senza tutto ciò, non può esserci che la sconfitta, in Grecia come altrove " (“Ultimatum ai proletari greci”, il programma comunista, n.1/2010).

 

NOTE

1- V.Da Rold, “Il brusco risveglio per Syriza”, IlSole-24 Ore, 25/2/2015.

2- “In termini assoluti... l'onere del debito greco è modesto: 'Il debito pubblico greco per la gran parte è stato ristrutturato ed è detenuto per l'80% dalle Istituzioni, o, se si preferisce, dalla Troika: Banca Centrale Europea, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale. Più precisamente il 60% scade in 25 anni (di media) e il rimanente 20% scade in 13 anni (di media). Con un debito così 'allungato' non si hanno dei veri problemi di rinnovo se non per quote assolute modeste, ma elevate per lo stato precario dei conti pubblici greci. Oltretutto, sull'80% del debito ristrutturato l'interesse pagato è del 2%. Per alcuni un numero da 'usura', in realtà un numero minuscolo: la Germania sul suo debito paga circa il 2%, l'Italia il 4%” (G. Arfaras, “Il compromesso possibile e la debolezza strutturale della Grecia”, sul sito ufficiale di Limes).

3- G. Arfaras, idem.

4- “Debito pubblico: chi è (ancora) esposto al rischio greco”, Lavoce.info, 31/1/2015.

E ancora: “Quanto ai debiti internazionali bisogna ricordare che circa 2/3 dei titoli di Stato greci sono detenuti da diversi soggetti pubblici: il Fondo di salvataggio europeo, Esm, (142 miliardi di euro), i Paesi della zona euro (53 miliardi), il Fondo monetario internazionale (€ 34 miliardi) e la BCE ( 20 miliardi). Se questi debiti rimanessero denominati in euro, il debito pubblico greco dovrebbe aumentare con la nuova dracma svalutata almeno del 50% – stima Commerzbank – al 230% del Pil. Non ci sono grossi pericoli per il sistema bancario europeo dal momento che dopo il picco del debito raggiunto durante la crisi nel 2011, le banche estere hanno ridimensionato i loro crediti nei confronti della Grecia, passati da più di 300 a 50 miliardi di euro, la maggior parte di questi per di più probabilmente garantiti da collaterali internazionali. La Grecia, ora, per le banche europee può andare all'inferno, e con essa l'euro perché da quel momento in poi, sarà chiaro a tutti che la moneta unica non è più irreversibile” (V. Da Rold, Il Sole-24 Ore: http://24o.it/1qMV5v).

5- Mara Monti, “Se Pechino si tira fuori dal dossier su Atene”, Il Sole-24ore, 7/2/2015.

6- “Il gran debito pubblico si è formato per l'insensatezza della spesa in assenza di una base fiscale. Il debito pubblico sottoscritto dall'estero è finito nelle mani delle istituzioni estere. Le quali ultime chiedono il suo rimborso, che è possibile rilanciando la crescita e mantenendo il bilancio dello Stato in attivo. Ossia, la crescita non passa dalla spesa pubblica, ma dalle riforme sul lato dell'offerta – un mercato del lavoro duttile, privatizzazioni, eccetera(G. Arfaras, cit.).

7- Luca Ricolfi, “Gli squilibri mai corretti e il silenzio dell'Europa”, IlSole 24 Ore, 22/2/2015.

8- “Con Syriza e Podemos, la sinistra europea riscopre la patria”, http://temi.repubblica.it/limes/

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)