Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco medio-orientale

Pubblicato: 2014-11-26 13:35:39

Per l’ennesima volta, a Rafah, la barriera fra l’Egitto e la Striscia di Gaza si apre e si chiude con moderazione per lasciar passare morti e feriti. Quante saranno le vittime alla fine di quest’estate di bombardamenti? Più di 2200 i morti ecinque volte tanto i feriti. Gaza torna a essere, a ogni giro di ruota, quel lager che è sempre stato: un “ghetto”, un territorio sotto assedio, stretto nella morsa del blocco israeliano dal mare, dalla frontiera orientale e da quella settentrionale, con muri e check points; un campo profughi, gestito, così raccontano i media, da una decina di migliaia di combattenti di Hamas e dal gruppo di jihadisti dell'ultima ora. Questo lembo di terra, che Hamas e Abu Mazen chiamano “territorio nazionale”, è in realtà una prigione per un milione e ottocento mila palestinesi, nell’alternarsi e affollarsi di carcerieri e kapo.

Intanto, attraverso il controllo delle acque costiere, dello spazio aereo, dei campi di confine che nessuno può coltivare e delle vie di transito (sempre negate) verso l’altra parte del Paese, Tel Aviv continua a segnare irrevocabilmente i tempi di vita e di morte degli abitanti della Striscia, con un pieno controllo su una realtà sociale ed economica miserabile, martellata periodicamente non solo dalle aggressioni militari, ma anche dagli effetti delle crisi economiche che qui non danno tregua.

Ma quale “terra promessa”?

E’ dunque questa la terra promessa dalla borghesia palestinese e dalle sue classi medie ai proletari, ai “senza riserva”, una terra che vale il sacrificio delle loro vite nella resistenza al nemico israeliano? Il “diritto all’autodecisione” si traduce, dunque, nella reclusione in questo luogo di detenzione (o almeno in uno di essi, data la conformazione a macchia di leopardo dei cosiddetti Territori Palestinesi)? Il “diritto alla separazione” si materializza, dunque, in un luogo circondato da mura e filo spinato?

Questa terra, che per i proletari palestinesi è solo una prigione, per la ricca borghesia palestinese e per la sua corte di affaristi, faccendieri, mercanti d’armi e religiosi dell’interno e dell’estero (che si fanno Stato gestendo i cosiddetti “aiuti umanitari” provenienti da tutto il mondo, arabo e non arabo, e le rimesse dei proletari emigrati) è, al contrario, un affare da tenere sempre vivo e acceso. I missili lanciati dai due fronti hanno il compito specifico di mantenere sotto ostaggio i proletari: “scudi umani” dell’una e dell’altra parte.

Assediati da un esercito armato fino ai denti (52 mila soldati impegnati direttamente nell’attacco di terra e 18 mila riservisti), controllati all’interno dalle milizie di Hamas, riportati nel loro recinto dall’esercito egiziano rimesso a nuovo dopo la cosiddetta “primavera araba”, messi in stato di continuo terrore dai missili dei miliziani, dai micidiali bombardamenti a tappeto e dalle martellanti incursioni aeree israeliane, i proletari palestinesi di Gaza sono costretti a ripercorrere senza sosta il girone infernale della loro tragedia.

Una coltre rossa di sangue si stende sulle strade, sui quartieri affollati, sulle case di Gaza e sugli ospedali: un esercito di terra superarmato e motorizzato ha invaso il 17 luglio il territorio per distruggere, così si dice, i valichi e i tunnel attraverso cui transitano non solo l’economia della sussistenza, ma anche armi e missili, dato l’embargo imposto da ogni lato di questo rettangolo rigidamente recintato. Se un tempo i falsi fratelli arabi si vestivano a lutto, se offrivano un qualche aiuto alla guerra contro il cosiddetto comune nemico (ma… per non aver in casa propria i più miserabili della terra, nelle riserve, nei rifugi, nei campi profughi!), oggi che il cosiddetto “fronte della fratellanza araba” non esiste più, che la Siria è solo un ammasso di macerie e di proletari in fuga, che l’Irak è una terra desolata preda dei signori della guerra e lo scenario futuro prospetta la deflagrazione del Libano e della Giordania, l’intero Medioriente puzza di morte.

Abbattere le prigioni nazionali!

In nome dell’autodecisione nazionale nella vecchia Palestina, sarebbero in costruzione, non una, ma tre patrie, quando già una è di troppo. E quante in Irak? Qui hanno già trovato i nomi di Kurdistan, Sunnistan, Sciitistan. In quale buco nero sarà poi inghiottita la Siria, stiracchiata a nord e a est, con mercenari d’ogni specie – tra cui adesso quella specie d’incubo chiamato Isis – armati direttamente o indirettamente dalle grandi potenze e dagli altri Stati arabi. E quante altre “patrie” dovranno ancora spuntare nei Balcani, dopo il Kossovo? Quante in Ucraina e nel Caucaso? Nascono, queste “patrie”, questi stati pseudonazionali o subnazionali, perché il proletariato è stato paralizzato e ridotto al silenzio dallo stalinismo e dal post-stalinismo e tenuto alla corda da tutte le borghesie, ben foraggiate dai devoti imperialisti di “Santa autodecisione”, sia all’estero sia nei territori in questione. Ogni volta che il proletariato è riuscito a organizzarsi in forma indipendente in Giordania o in Libano (ricordate Amman, Tall­al­Zaatar, Sabra e Chatila?), lottando con tutte le sue forze e nell’isolamento totale (a causa dell’estrema debolezza del proletariato mondiale e dell’assenza del suo partito), si è aperto il mattatoio: non solo da parte di Israele o per conto di Israele, ma anche per conto delle borghesie arabe.

Nient’altro che questo: i tanti partiti della borghesia palestinese e israeliana hanno fatto e fanno combattere tra loro i proletari dell’intera area per stabilire rapporti di potere indispensabili alla gestione delle risorse “patrie”. Dimostrazione lampante che, grande o piccola, oppressa o opprimente, ogni causa cosiddetta nazionale ormai può solo generare uno stato imperialista, piccolo o grande, straccione o aspirante tale. Eppure, un tempo i campi profughi non furono “enclaves patriottiche”, ma luoghi di organizzazione e di autosostegno proletario per difendere le proprie condizioni di esistenza, nello stesso tempo in cui la borghesia palestinese li lanciava come vittime sacrificali contro un nemico superpotente, nel nome di una patria scalcagnata e assassina.

La formazione dello Stato nazionale all’uscita dalle società precapitalistiche è stata considerata dai comunisti un mezzo, e mai un fine, per la rivoluzione di classe. L’azione tattica prevedeva, se le forze del proletariato erano ben organizzate e autonome politicamente in quanto dirette dal partito di classe, una resa dei conti, ben prima che la borghesia arrivasse al potere: era la “rivoluzione in permanenza” di Marx (“Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti”, 1850), l’occasione storica per attaccare sul nascere la borghesia, liquidarla come forza storica e imporre la propria dittatura in un società in rapida trasformazione. Nella realtà odierna, in cui il ciclo delle rivoluzioni nazionali si è chiuso definitivamente e non sussiste più alcuna funzione rivoluzionaria della borghesia, il proletariato deve imparare ad agire nell’indipendenza più totale del proprio programma e della propria azione di classe, difendendosi e attaccando la propria borghesia, sviluppando il proprio disfattismo di classe nel nome dell’internazionalismo proletario.

Chiaro, anche se difficile. Eppure, ci sono ancora imbecilli che vorrebbero caricare sulle spalle proletarie una causa nazionale, sforzandosi di dare alla forma “nazionale” una vera sostanza! Così, nel caso mediorientale, invece di attaccare la borghesia, nelle sue più diverse forme, si chiede al proletariato palestinese di... sostituirla, ripercorrendo la tragica via che lo stalinismo ha tracciato prima, durante e dopo il secondo massacro imperialista per il proletariato europeo: raccogliere le bandiere borghesi gettate nel fango e farsi Stato, avere un “ruolo nazionale”. E’ proprio vero: i proletari palestinesi hanno molti nemici, e non ultimi sono gli imbecilli! Invece di indicare una prospettiva che li aiuti a liberarsi del “nemico in casa e fuori casa”, costoro li lanciano in una carneficina dietro l’altra, prigionieri della loro borghesia. I proletari palestinesi guardino i tragici insegnamenti della propria storia, le grandi lotte sostenute per difendersi da tutte le borghesie che li opprimono, nazionali e internazionali, nelle disastrose condizioni degli ultimi sessant’anni! Non tutto è perduto, se s’impara a organizzarsi e a combattere nelle forme proprie della classe dei senza riserve: non per la patria, per qualunque patria, né per Allah, ma per se stessi in quanto classe sfruttata. Solo cosi sarà possibile, per loro e per i proletari di tutto il mondo, riprendere il cammino rivoluzionario interrotto.

Tornare al disfattismo rivoluzionario

Il terrorismo d’Israele continua dunque la sua opera micidiale. Nelle “guerre democratiche”, ormai da un secolo il fine non è l’eliminazione del nemico, ma il massacro delle masse povere e miserabili. I senza riserve sono un peso per le classi dominanti di tutto il mondo, un costo che sotto la sferza della crisi economica le borghesie nazionali non possono permettersi di pagare. Eliminare le forze di Hamas? mettere un Abu Mazen anche a Gaza? suddividere ulteriormente il puzzle della Striscia? Per ottenere cosa? Possono queste borghesie risolvere una questione sociale, una realtà che hanno spinto fino alla putrefazione? Nel pieno di un imbastardimento collettivo, esse non solo sono impotenti, ma non hanno alcun interesse, come non lo ha la borghesia mondiale, a risolvere un problema come questo, aggravatosi sempre di più.

Col procedere del massacro e dell’immensa devastazione, non mancherà la solita adunata di pacifisti israeliani, attivisti palestinesi e, soprattutto nelle ricche metropoli, la più varia specie di “anime belle” dalla memoria tanto corta da essere praticamente inesistente. Così, sfugge il dato di fatto che i mandanti di quei massacri si trovano proprio in quelle stesse metropoli imperialiste e che Israele è da sempre una loro creatura.

Purtroppo, nessun disfattismo rivoluzionario contro gli interventi militari e lo stato di polizia viene agitato dal proletariato israeliano, indifferente e silenzioso da lunghissimi anni, chiuso in difesa dei propri privilegi, impossibilitato ancora a uscire dalle maglie di una ferrea gabbia corporativa all’ennesimo grado e dalla potente macchina del consenso nazional­religioso.

Nessun atto di disfattismo nemmeno da parte del proletariato arabo­israeliano, ancora incapace di rizzarsi in piedi, isolato e disprezzato dalle potenti classi medie israeliane, controllato esso pure dall’opportunismo nelle proprie file, un opportunismo che (nelle forme religiose piuttosto che in quelle laburiste o patriottiche) elemosina un riconoscimento di legalità e di dignità in quel Parlamento che lo fa compartecipe dei ripetuti massacri.

Purtroppo, nessun disfattismo rivoluzionario contro il “comitato d’affari palestinese” nella Striscia e in Cisgiordania viene propugnato nemmeno da parte del proletariato palestinese, che non riesce ancora a concepirsi come tale: e così la scenografia nazionalista continuerà a essere allestita e rinnovata, ma su un palcoscenico che è sempre il medesimo. Tutti sono inchiodati a questo tragico presente: ed esso potrà essere spezzato solo dal riaprirsi della lotta di classe a livello internazionale e nelle metropoli imperialiste, di cui Israele è un pilastro decisivo in Medioriente.

Eppure, il programma comunista di lotta vive ancora nella memoria del proletariato. Il disfattismo praticato nel corso della Prima guerra mondiale e agitato dalle avanguardie rivoluzionarie nei campi di battaglia e nelle retrovie, nelle città, nelle fabbriche, negli arsenali, deve tornare al centro delle rivendicazioni, delle prospettive e delle azioni di fratellanza proletaria internazionale. Esso è l’unico capace di scompaginare le file borghesi, nazionaliste, mercenarie, democratiche, staliniste: quel disfattismo che incitava alla formazione di gruppi proletari combattenti sul territorio, sorretti da un’unica disciplina rivoluzionaria di classe che si richiamava al programma comunista internazionale; che incitava i proletari alla propaganda di classe per scompaginare il fronte militare e civile della borghesia, respingeva i sacrifici economici e sociali a sostegno delle spese militari tentando lo sciopero ad oltranza senza limiti di tempo, organizzava la lotta di difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro bloccando le attività industriali come passaggio obbligato per colpire duramente l’impegno bellico della borghesia, e rifiutava ogni partigianesimo (nazionalista, patriottico, mercenario, umanitario, pacifista) a favore di questo o quel “fronte”.

Il grido di battaglia dei proletari torni dunque a essere quello di un tempo: “il nemico è in casa nostra, nel mondo”. Un grido che impone al proletariato palestinese come a quello israeliano e arabo-israeliano di sciogliere la miserabile schiavitù nei confronti dei propri Stati, Stati assassini, Stati canaglia, abbattendoli dalle fondamenta. Quel grido torni soprattutto ad agitarsi nelle metropoli imperialiste, cause prime dei massacri, perché si riverberi, come pratica di classe, nella Striscia di Gaza, in Siria, in Irak, ovunque nel mondo.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2014)