Orientarsi verso il disfattismo rivoluzionario

Pubblicato: 2014-11-26 13:31:04

Il massacro senza fine delle masse proletarie e proletarizzate palestinesi, il caos senza via d’uscita in Libia, in Siria, in Iraq, in Ukraina, l’instabilità assoluta di Afghanistan e Pakistan e di aree cruciali dell’Africa Centrale, decine di migliaia di morti ovunque, centinaia di migliaia di profughi in viaggio verso il nulla, distruzioni e devastazioni: non cessano di moltiplicarsi, estendersi, approfondirsi i focolai di guerra, sotto la pressione di una crisi economica mondiale che impone il ridisegno delle geografie politiche e sociali uscite dalle due guerre mondiali del XX secolo. Non è l’accendersi sporadico, qua e là, di conflitti locali: siamo in presenza di punti di non ritorno all’interno di una escalation che ha come sbocco necessario, dal punto di vista delle esigenze del capitale, un nuovo macello mondiale.

A Versailles nel 1919, a Yalta e Potsdam nel 1945, con arroganti tratti di penna e scarabocchi sotto banco, il mondo è stato “sistemato” a uso e consumo degli imperialismi vincitori. Dalla dissoluzione dell’Impero ottomano, dalla spartizione dell’Europa fra blocchi capitalistici con funzione apertamente antiproletaria, dalla necessità di controllare aree chiave come il Medio Oriente, sono nati “Stati fittizi”, retti da borghesie che, sviluppatesi dall’impianto del capitalismo in queste aree come frutto della penetrazione coloniale prima e imperialista poi, non avevano però (e tanto meno hanno oggi) nulla da spartire con le borghesie che nel ‘700 e nell’800 portarono alla nascita degli Stati nazionali e nemmeno con quelle che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, sostennero moti indipendentisti e anti-coloniali (Algeria, Vietnam, Angola…). Sono borghesie nate parassitarie, emerse dalla putrefazione tipica dell’imperialismo e da esso (nelle sue articolazioni pseudo-nazionali) finanziate e sostenute. Sono Stati e staterelli fondati sulla rendita petrolifera e dunque pronti a vendersi al migliore offerente; laici o religiosi a seconda delle necessità e convenienze del momento; fragili e provvisori nelle loro strutture e nelle loro alleanze, ma sempre solidi e solidali nell’estrarre plusvalore dai proletari di ogni dove e spietati nel controllarne ogni accenno di autonomia e reprimerne ogni tentativo di rivolta.

Ora, quei “disegni” che hanno retto più o meno efficacemente per decenni e decenni sono saltati, scompaginati dall’aprirsi di faglie profonde e dal susseguirsi di terremoti politici e sociali, come effetto della crisi economica mondiale, della sovrapproduzione di merci e capitali, dell’incepparsi del meccanismo di accumulazione. All’aprirsi di quelle faglie, si sono accompagnati grandi moti proletari (Tunisia, Egitto), presto incanalati a forza nei vicoli ciechi di rivendicazioni democratiche e nazionali di mezze classi da tempo emergenti ma già colpite da un processo inarrestabile di proletarizzazione. E, al bagaglio usurato e ormai antistorico delle rivendicazioni democratico-nazionali, s’è aggiunta, potentissimo strumento di controllo e valvola di sfogo alla rabbia e alla frustrazione, l’ideologia religiosa in tutte le sue forme, da quelle più subdole e moderate a quelle più fanatiche ed “estremiste”.

A fare le spese di tutto ciò, anche se nella grande maggioranza non se ne rende conto, è stato il proletariato – sia quello locale immediatamente colpito dall’esplosione di tutti questi “equilibri” (instabili, come ogni cosa nel mondo del capitale: “tutto quel che vi era di solido e stabilito si dissolve nell’aria”, Manifesto del partito comunista, 1848) sia quello delle vecchie metropoli imperialiste ancora paralizzato dalle droghe materiali di un dopoguerra all’insegna dell’espansione e del boom, dalle illusioni progressiste e dalla retorica democratica e pacifista, dalla prassi di partiti e sindacati apertamente traditori. E, man mano che le onde sismiche scatenate da quei terremoti profondi si diffondono a raggiera, quel proletariato appare incapace di reagire, impaurito, ipnotizzato e paralizzato come il roditore davanti al serpente che lo minaccia. O, se reagisce, lo fa lasciandosi però irretire dalle demagogie nazionaliste o localiste, dalle tentazioni razziste e scioviniste, dalle fumisterie religiose, di ogni stampo e origine.

Noi comunisti operiamo contro corrente da sempre – da quando cioè teoria ed esperienza pratica ci hanno insegnato che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”. Ma teoria ed esperienza pratica ci hanno anche insegnato che la realtà muta di continuo sotto l’azione congiunta dei fatti materiali e del nostro intervento su di essi, per quanto minoritario e irrilevante possa apparire per periodi lunghissimi. Per teoria ed esperienza pratica, noi sappiamo che il capitale non conosce altra soluzione drastica alle proprie crisi giunte a un livello di guardia e a un punto di non ritorno che la guerra, la “distruzione rigeneratrice” (come la chiamano gli ideologi borghesi) dell’eccesso creato in decenni di estrazione di plusvalore. E che le masse proletarie, via via private di ogni “garanzia”, di ogni “riserva”, di ogni speranza di placida sopravvivenza, saranno costrette a guardare in faccia la realtà e a uscire dall’ipnosi e dalla paralisi. A quel punto, però, dovranno incontrare il loro partito, in grado di contrastare nella teoria e nella pratica non solo l’ideologia dominante (democratica e fascista, laica e religiosa, pacifista e guerrafondaia, progressista e nazionalista), ma tutte le forze materiali che da sempre opprimono il proletariato, le forze sociali, politiche e sindacali che l’hanno imbrigliato, lo Stato e le sue braccia armate legali e illegali, grazie a cui il capitale s’è mantenuto al potere e ha potuto continuare indisturbato per tanti decenni a estrarre plusvalore dalla fatica quotidiana di masse enormi di proletari e proletarie.

A quelle masse proletarie noi diciamo, perfettamente consapevoli di essere uditi oggi da pochi ma anche di svolgere in pieno il nostro dovere di rivoluzionari, che l’unica prospettiva, cui lavorare fin da adesso nelle sue varie articolazioni e applicazioni, per impedire un prossimo nuovo macello mondiale di entità ancor più spaventose dei due che l’hanno preceduto, sta nell’orientarsi verso il disfattismo rivoluzionario, verso il rifiuto totale e granitico di schierarsi per questo o quel fronte imperialista, destinati inevitabilmente a scontrarsi; nell’organizzarsi in totale autonomia dallo Stato, dai partiti e dai sindacati opportunisti, per difendere le nostre condizioni di vita e di lavoro; nel riappropriarsi delle armi teoriche e pratiche che da sempre hanno contraddistinto la classe sfruttata nella sua guerriglia quotidiana contro il capitale. Ma soprattutto sta, quell’unica prospettiva, nel recuperare la comprensione dell’urgenza enorme del restauro e del radicamento mondiale del partito rivoluzionario, del nostro partito, del partito comunista internazionale.

Fuori di questa prospettiva, ci saranno solo stragi infinite, sofferenze inaudite.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2014)