Rispondere all'attacco anti-proletario

Pubblicato: 2014-11-17 17:51:27

La crisi economica precipita nel baratro noi e la nostra condizione umana e sociale. Nel mondo intero, cresce la disoccupazione e si moltiplicano i licenziamenti e gli attacchi ai lavoratori (come con le più recenti sparate dell’ultimo governo italiano!). A poco a poco, però, comincia a incrinarsi la cappa del pesante controllo sociale esercitato per decenni da partiti “di destra” e “di sinistra” e organizzazioni sindacali di regime. I primi segnali sono venuti da un giovane proletariato immigrato, che in questi anni ha sfidato apertamente il padronato, un’avanguardia che non si è chiusa nel silenzio dei magazzini o delle fabbriche o nell’isolamento dei campi di pomodori – lavoratori che non hanno avuto paura di scendere in strada e rivendicare il miglioramento generale delle proprie condizioni di vita e di lavoro – e dalle lotte mai sopite dei proletari di tutto il mondo, dalle rivolte dei minatori sudafricani alle battaglie di quelli argentini, spagnoli, greci, francesi, belgi, cinesi, statunitensi, indiani, pakistani...

Ma non è, questo, il solo segnale. Cominciano a scontrarsi, all’interno del movimento proletario, due correnti opposte: una che porta avanti il bisogno, la necessità, la voglia di lottare, la rabbia e l’indignazione, l’altra che invoca il “diritto”, la “pace sociale” – in una parola, la resa. Solo rispondendo colpo su colpo a ogni aggressione da parte del capitale si può sperare di vender cara la nostra pelle, oggi sul luogo di lavoro (o di non-lavoro!), domani a fronte di una nuova guerra mondiale, di cui sono sempre più evidenti le avvisaglie (dall’Ukraina all’Irak, dalla Libia alla Siria, e nella sempre martoriata Palestina).

 

Il programma può solo essere, come da centocinquanta anni a oggi, il seguente:

Estendere e unificare le lotte, operando per la creazione di organismi territoriali di difesa economica e sociale, aperti a tutti i proletari, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla nazionalità, dalla collocazione (o non collocazione!) produttiva, ecc. Richiedere forti aumenti salariali per riparare in parte all’erosione drammatica di salari e pensioni, e salario integrale a licenziati e disoccupati, a carico di Stato e padronato. Rivendicare drastiche riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario e la necessità di andare in pensione prima che il lavoro salariato ci distrugga la vita. Riappropriarsi dell’arma dello sciopero, che va strappata dalle mani di chi l’ha trasformata in un’insulsa scampagnata e deve invece tornare a essere uno strumento per colpire il capitale. Rifiutare ogni sostegno alle necessità superiori di questa o quell’azienda, privata o pubblica, e soprattutto dell’economia nazionale, con cui stato, governi, padronato, sindacati non smettono di ricattarci, proponendocele come “nostro comune interesse”. Rifiutare ogni tentazione nazionalistica (laica o religiosa che sia) con cui la classe dominante di ogni paese sta già cercando di schierare i proletari gli uni contro gli altri.

Il responsabile della tragedia che ci colpisce è il modo di produzione capitalistico. Esso non è migliorabile e va abbattuto con la classe borghese che ne dirige e orienta lo sviluppo e sostituito dal Comunismo, fondato sui bisogni della specie umana e non sulle leggi del profitto. A questa prospettiva lavora il Partito comunista internazionale, per il cui rafforzamento e radicamento i proletari più combattivi dovranno organizzarsi e operare: la sua urgenza e la sua importanza sono, giorno dopo giorno, sempre più evidenti.