A proposito di F35: Pace, lavoro e... bombardieri

Pubblicato: 2014-11-17 17:46:59

Stiamo cedendo agli Stati Uniti che ci dicono: dovete comprare questa cosa, punto, senza sapere quanto costano e a cosa servono. […] Dal punto di vista industriale l’F35 non porta nulla, anzi può portare problemi nelle competenze perché è tutto fatto in America. L’F35 è un bombardiere come quelli che vengono progettati in Italia con i partner europei. E se si sacrificano le tecnologie nostrane per aprire le porte agli Stati Uniti si rischia un futuro di subalternità”.

 

Riportiamo dal sito del Fatto quotidiano le parole di un noto sindacalista, ritenuto come pochi "di sinistra", perché rimandano a un complesso di questioni che vanno ben oltre la querelle tra favorevoli e contrari al bombardiere yankee. Anzitutto, confermano una volta ancora quanto le prediche di molti pacifisti nascondano una vocazione manichea a separare nettamente i "buoni" dai "cattivi", che è il tratto più caratteristico dei guerrafondai. In quest'ottica, il caccia Usa starebbe dalla parte dei cattivi, si intuisce, in primo luogo perché americano – e fin qui si tratterebbe di un ritrovato anti-imperialismo da parte del nostro navigatissimo e telegenico "sinistro". Ma soprattutto, con la caratteristica foga del buon romagnolo “antifassista”, egli tiene a precisare che trattandosi di “bombardiere” è arma di attacco e non di difesa e quindi, guarda un po'!, “anticostituzionale”. Con questi italici nipoti dello stalinismo, non importa come la metti, finisci sempre lì: che se si applicasse integralmente la Costituzione tutti i problemi del paese si risolverebbero per il meglio, e pure il mondo ne trarrebbe giovamento. Gli integralisti religiosi che ripongono la stessa fede nei dettami della Bibbia o del Corano hanno almeno l'attenuante di affidarsi a una tradizione millenaria. Il dirigente sindacale in questione è un pacifista “difensivo”: van bene le armi, a patto che facciano del male solo agli aggressori e rispondano al giusto diritto degli aggrediti di non prenderle senza reagire. Evidentemente, egli s'immagina la prossima guerra come una riedizione su scala un po' più larga di Fort Alamo, dove gli assediati si affannano a respingere le orde nemiche a difesa del proprio ridotto, aspettando fiduciosi che dopo un po' quelli si scoraggino e tornino a casa loro; o forse il suo subconscio è rimasto suggestionato da reminiscenze scolastiche sul Piave che mormora... Armi sì, dunque, ma “di difesa patriottica”: niente bombe, secondo logica, ma contraerea. A questo punto, nello stratega potrebbe sorgere il dubbio: basterà...? Non sarà che l'attacco è pure esso una forma di difesa? Non solo lo è, ma noi l'abbiamo sempre individuato come la forma di difesa che più si adatta allo schieramento più debole.

 

Fin qui abbiamo scherzato un po', ma la cosa è piuttosto seria, perché si ha l'impressione che le questioni in discussione comincino a focalizzarsi su alcune determinanti che attengono direttamente agli schieramenti imperialistici. La vicenda degli F35 riguarda la competizione produttiva tra sistemi industriali nel settore strategico degli armamenti, ma anche, e qui il sindacalista non ha torto, la continuità della supremazia tecnologica e politica della superpotenza atlantica. Mai come su questo punto convergono le vitali questioni dei profitti industriali, dei rapporti di forza tra potenze, delle linee di faglia che separano le classi.

 

Così, le parole che abbiamo riportato evocano nuove partigianerie, nuove scelte di campo che orientano le classi a schierarsi con l'uno o l'altro fronte imperialista: suggeriscono un nuovo antiamericanismo, presentato come scelta, se non proprio di classe (termine scomparso dal vocabolario ufficiale), favorevole agli “interessi operai”. Sarebbe “interesse operaio” produrre anche sistemi d'arma – perchè no? Quello delle armi è un mercato che tira sempre, crisi o non crisi, e crea occupazione – a patto che si adottino tecnologie autoctone, nell'ambito di una sana collaborazione tra gruppi aerospaziali europei. Subire la supremazia tecnologica americana avrebbe ricadute negative sul piano delle competenze tecniche, visto che il know-how sarebbe gelosamente custodito oltre Atlantico, e qui resterebbero mansioni esecutive di livello subordinato. In più, questi mostri da bombardamento li si dovrebbe pure pagare fior di milioni, mentre a produrre un analogo mostro europeo – a scopi difensivi, s'intende! – sarebbe un bell'affare. Sentiamo spesso questi bonzi tuonare contro l'assenza di una "politica industriale": a sentir loro, ciò che manca è una “sana programmazione”, che presuppone un ruolo decisivo dello Stato – naturalmente d'accordo con le "parti sociali" – nelle scelte economiche, sì da rafforzare l'economia e l'industria “nazionali”, esigenza particolarmente viva in una situazione di crisi produttiva e sociale.

 

Siamo certi che il nostro “antifassista” approverebbe senz'esitare l'affermazione che allo Stato spetti il compito di determinare "in via diretta o indiretta principalmente con opportune misure di politica economica e poi di politica finanziaria, la quantità e l'indirizzo degli investimenti e della produzione, la qualità e l'indirizzo dei consumi". E chissà se si troverebbe in imbarazzo venendo a sapere che la frase si trova in una pubblicazione dell'Istituto Nazionale di Cultura Fascista del 1941, dedicata all'economia di guerra, dove si legge anche che "la guerra si vince prima nelle officine e poi sui campi di battaglia. Perciò la forza militare è maggiore nei popoli industriali: e questa è un'importante giustificazione militare dell'autarchia, non solo come politica di autosufficienza necessaria in guerra, ma come acceleramento di sviluppo industriale". Il moderno sindacato, strenuo fautore della concertazione, non può non condividere che "a questa organizzazione statale del processo produttivo nazionale in genere giova particolarmente la collaborazione dei vari gruppi di produttori: organizzati in sindacati e portati sul piano dell'azione amministrativa statale". Dunque, al sindacalista non può essere rimproverato di non fare il mestiere che gli assegna la borghesia capitalistica: egli lo vuole fare e lo reclama in nome di una sana collaborazione di classe, nel quadro di una continuità corporativa che la democrazia ha ereditato dal fascismo.

 

Ma la programmazione nel settore degli armamenti riveste un particolare significato politico oltre che economico. Difatti: "la mancata programmazione di lungo periodo impone spesso di ricorrere ad acquisti dall'estero. Essi non solo si traducono in una sottrazione netta di risorse al reddito nazionale ed in un appesantimento della bilancia dei pagamenti , ma concorrono addirittura allo sviluppo di industrie concorrenti con quelle nazionali nel mercato internazionale degli armamenti. [...] Infine sono dannosi per l'intero sviluppo industriale nazionale, perché impediscono la capitalizzazione in capacità tecniche, in know how tecnologico, in qualificazione delle nostre maestranze [...] non possiamo essere troppo tributari all'estero per tecnologie avanzate [...] sono in gioco non solo il nostro benessere e il nostro tenore di vita, la nostra stessa indipendenza nazionale". Ancora il sindacalista? No, sono parole del generale Cappuzzo nel lontano 1983, riprese da un nostro vecchio opuscolo (“Mare nostrum”, in Imperialismo e concorrenza militare, 1983). Eppure non ci risulta che Cappuzzo fosse iscritto alla FIOM...

 

Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma le questioni di fondo sono rimaste le stesse. Allora come oggi, "l'industria militare deve avere carattere nazionale: in caso contrario ogni paese è legato alla politica e all'economia della potenza dominante di un certo momento". Non è solo una questione di capacità tecnologica e "competenze", ma di rapporti tra imperialismi e del ruolo di ciascuno di essi nella dinamica degli schieramenti politico-militari. La classifica degli esportatori mondiali di armi riflette le mutazioni nei rapporti tra gli Stati meglio di qualsiasi altro prodotto di esportazione, poiché alla produzione di armamenti si legano potenza militare, capacità tecnologica e grado di influenza politica. Come mostriamo in un altro articolo, dal 2009 al 2013 la Cina ha fatto il suo ingresso trionfale nella graduatoria mondiale degli esportatori di armi balzando al 4° posto, con il 6% del totale mondiale. In testa alla classifica 1, rimangono gli USA con il 29% (-1%), seguiti a poca distanza dalla Russia, salita dal 24 al 27%. L'industria russa, malgrado l'enorme distruzione di capitale fisso seguita alla caduta dell'URSS, ha negli armamenti uno dei pochi settori industriali ancora vitali, assieme all'energia. Più che riflettere un ruolo di potenza di primo livello che in realtà non detiene, la forza del settore si colloca in continuità con la tradizione di un capitalismo monopolistico a forte concentrazione che ha fin dalle sue origini privilegiato la produzione per la produzione (il I settore di Marx) rispetto alla produzione finalizzata ai consumi, specie nel periodo del preteso "socialismo" sovietico ( cfr. la nostra Struttura economica e sociale della Russia d'oggi). Seguono la Germania (7%), la Cina, la Francia (scesa dal 9 al 4% dell'export mondiale), e in sesta posizione l'Italia. Il capitalismo italiano non è ancora uscito dalla crisi che ha falcidiato una miriade di imprese piccole e medie, ma il sistema industriale sta crescendo in concentrazione e i pochi grandi gruppi del settore armamenti (Finmeccanica in testa) non conoscono crisi e aumentano i loro fatturati. Nel periodo, l'export italiano di armi è cresciuto del 30% e detiene il 3% del totale mondiale. Su questa base materiale si fondano gli slanci patriottici per una ripresa della produzione nazionale nell'ambito di una cooperazione continentale autonoma dall'ingombrante partner americano.

 

Il rischio evocato di "un futuro di subalternità" si collega a oltre sessant'anni di subalternità di fatto dell'Europa occidentale nel suo insieme, e in particolare dell'Italia, sulla quale gli USA hanno finora esercitato una tutela particolare, ritenendola un incrocio quanto mai sensibile nella sensibilissima e instabile area mediterranea. Torna oggi di grande attualità quanto scrivevamo allora (1983) a proposito della crescente attenzione alla questione degli armamenti: "E' quindi estremamente significativo che proprio in questo periodo in Italia, che da sempre è il barometro più sensibile delle variazioni negli schieramenti interimperialistici, si assista al rifiorire di iniziative e discussioni a favore di una industria nazionale militare autonoma". Sulla questione degli F35 si gioca in effetti la continuità della subalternità italiana e di riflesso europea, in un momento in cui è in atto un rimescolamento dei vecchi equilibri, e le carte del gioco possono rapidamente cambiare di mano. Non v'è dubbio che gli ultimi decenni, in particolare dalla dissoluzione dell'Urss ad oggi, hanno visto un lento ma progressivo logoramento della supremazia mondiale americana, alla quale gli USA hanno reagito con una serie di guerre locali in aree strategicamente decisive: Balcani, Medio oriente, Asia centrale. Ma alla base delle crescenti difficoltà americane c'è la dinamica economica di un capitalismo stramaturo che, nonostante i notevoli privilegi da superpotenza, subisce il rallentamento del ritmo di incremento della produzione e dell'accumulazione e deve al tempo stesso confrontarsi con nuovi potenti competitori economici, la cui ascesa rimette in gioco i vecchi concorrenti nello scenario degli imperialismi. Così, anche la vecchia Europa alza un po' la testa, per il momento assai timidamente, perché percepisce che il vecchio padrone è in difficoltà. La crisi di Crimea ha evidenziato la divaricazione degli interessi europei, e in particolar modo tedeschi, da quelli americani: i primi non possono permettersi di entrare in contrasto col fornitore energetico russo, con il quale condividono una reciproca dipendenza vitale e col quale hanno intrapreso da decenni una politica di collaborazione economica assai stretta e di storica tradizione (Ostpolitik); i secondi non hanno nessuna intenzione di mollare la presa sull'Europa, e colgono l'occasione per mettere in crisi i legami continentali est-ovest, giocando sulle tensioni tra vecchio padrone russo ed ex satelliti sovietici. Non è casuale che, di fronte alla richiesta americana di una decisa condanna dell'"invasione" russa della Crimea, la Germania abbia subito assunto toni più accomodanti, puntando a una soluzione di compromesso che salvasse i buoni rapporti con il colosso orientale, a garanzia dei buoni affari reciproci e forse lasciando aperta la prospettiva di qualcosa in più nelle future relazioni politiche tra le due potenze; altrettanto poco casuale l'atteggiamento conciliante del governo italiano, che ha così evocato i comuni interessi dello storico asse italo-tedesco che si costituì in funzione anti-atlantica.

 

Fantasmi del passato? Per ora solo ombre che si muovono in uno scenario molto indeterminato, dove rimangono aperte diverse possibilità. E' significativo che si facciano sempre più insistenti le voci che danno una parte crescente della classe dirigente tedesca, specie dei grandi gruppi economici, orientata a sganciarsi dall'area mediterranea europea per indirizzarsi con decisione all'integrazione dell'area del vecchio lebensraum (spazio vitale), già iniziata con l'insediamento di strutture produttive nei paesi direttamente confinanti a oriente, ma certamente proiettata in direzione degli Urali. E' comprensibile che gli USA tendano a drammatizzare la crisi ucraina in funzione anti-russa, ma non hanno gioco facile. E' una partita aperta, in cui la posizione che assumerà la Germania ha un ruolo chiave, mentre l'Italia, in una condizione assai più debole e dipendente, è ancora una volta condannata a danzare tra un contendente e l'altro, come nelle rappresentazioni satiriche che se ne davano negli Imperi Centrali all'epoca dell'ingresso nella Grande Guerra. Sempre che la tensione che si sprigiona dal movimento di faglia degli schieramenti non ne decreti la dissoluzione come Stato nazionale, esito peraltro auspicato da forze indipendentiste interne vecchie e nuove, che ora appare remoto ma non è da escludere in via di principio (se ne sono viste e se ne vedranno di tutti i colori...).

 

E così il buon sindacalista, credendo forse di parlare di “pace e lavoro”, vecchia equivoca parola d'ordine riformista, invece parla di guerra, indica una scelta di campo, dà un indirizzo che relega la classe operaia negli schemi dello sviluppo capitalistico in uno dei settori più direttamente distruttivi e dissipatori, quello degli armamenti ("Le armi sono merci perfette, il loro valore d'uso è triplice: per la produzione, per la distruzione, per la ricostruzione", “Armamenti: un settore che non è mai in crisi”, Quaderni del Programma Comunista, n.2, giugno 1977). Come sindacalista, gli interessa l'occupazione, e allora auspica un sano sviluppo industriale della produzione cannoniera; come politico, si proclama "pacifista" e auspica "sviluppo" e "democrazia". La contraddizione è solo apparente: lo sviluppo conduce alla sovrapproduzione, la sovrapproduzione alla crisi, la crisi all'inasprirsi dei contrasti tra le principali potenze per la conquista dei mercati d'esportazione e delle fonti di materie prime. Fino a un certo punto, il processo si svolge in modo relativamente pacifico, se si prescinde dalle pur sanguinose guerre locali – buone occasioni per un ulteriore sviluppo "pacifico" della produzione di armamenti; poi, quando è in gioco direttamente la supremazia associata ai vecchi equilibri tra le forze, si aprono nuovamente le porte dell'apocalisse bellica generale. Insomma, il "pacifico sviluppo" va inteso come risultato della pace sociale tra le classi e conduce alla guerra. La guerra – la Storia del Novecento lo dimostra – "si addice alla democrazia" più dell'aperto militarismo, che ha lo svantaggio di presentarsi come fautore della guerra, contro l'angioletto democratico, "pacifista" per definizione ma corazzato e bombardiere come nessuno.

 

A meno che il proletariato mondiale non si ripresenti sulla scena storica a smascherare la falsa alternativa, comunque posta, e a riproporre la sola vera, quella tra guerra e rivoluzione: "Quando le forze che si richiamano alla salvaguardia della presente società, opportunismo in testa, chiedono alla classe operaia di collaborare a rimettere in sesto la produzione, le chiedono allo stesso tempo di preparare le condizioni ancora più acute per soluzioni catastrofiche. Insomma, o guerra o rivoluzione: non esistono altre vie" (Idem). Ciò è tanto più vero oggi, in presenza di una crisi sociale acutissima in cui tutte le varianti ideologiche borghesi, in vesti vecchie e nuove, sono messe in campo per legare ancora più strettamente la classe operaia al carro della borghesia. Non appena il proletariato osasse alzare la testa e riproporre la propria parola d'ordine disfattista di fronte alla produzione e al militarismo, tutte le forze borghesi che ora si accapigliano nella contesa per il potere si troverebbero nuovamente unite contro il comune nemico storico, invocando con una sola voce “pace (sociale), lavoro e... bombardieri”.


 

1 La classifica dell'export di armi è tratta da D. Taino, “Produzione di armi: il pericolo viene da Est”, Corriere della Sera, 6 aprile 2014.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03-04 - 2014)