Turchia oggi (II)

Pubblicato: 2014-11-17 17:44:26

Nella prima parte di questo articolo, pubblicata sul n.1/2014 di questo giornale, abbiamo preso in esame la struttura economica turca. In questa seconda parte, ci occuperemo della situazione sociale.


 

La classe operaia

Da decenni, la Turchia conosce un'incessante emorragia di forza lavoro, soprattutto verso la Germania, dove la comunità turca conta oltre due milioni di persone (divise fra turchi e kurdi). A partire dalla fine degli anni '90, però, questo pesante svuotamento di forza lavoro, oltre che rallentato da un continuo inurbamento di popolazione agraria, è stato compensato da un'immigrazione verso il mercato interno di forza lavoro proveniente, soprattutto, dai paesi balcanici. Tutti gli indici statistici dimostrano che la classe operaia in Turchia è dunque ben presente e produttiva.

Nel paese, l'agibilità sindacale è estremamente difficile. Dopo il colpo di stato militare del 1980, i sindacati sono stati messi praticamente al bando. La Costituzione del 1982, pur prevedendo la possibilità della libera creazione di organizzazioni sindacali, concedeva al contempo al governo e alle forze dell'ordine la possibilità di reprimere ogni sindacato. Non diversamente viene inteso lo sciopero che, pur previsto (“non sarà esercitato contrariamente al principio di buona fede, a scapito della società e a danno del benessere nazionale”) 1, è apertamente osteggiato. Altre leggi, sempre di quegli anni, hanno concesso al governo pieno mandato nell'applicazione di quest'articolo; e così, nei successivi venti anni, i governi hanno applicato con durezza le proprie prerogative contro la classe operaia. Significativo a proposito di agibilità sindacale è il procedimento di iscrizione ai sindacati che ogni lavoratore deve adempiere per legge: il lavoratore privato che vuole la tessera sindacale deve recarsi da un notaio per autentificare ben 5 copie della propria domanda di adesione; dopo di che, egli deve inviare una copia al proprio sindacato, una al Ministero del lavoro ed infine una al Ministero della sicurezza sociale. No comment!

Non è poi previsto il contratto nazionale e dunque le contrattazioni avvengono a livello aziendale; ma anche nelle contrattazioni aziendali i paletti normativi sono notevoli: infatti, un sindacato è ammesso alla contrattazione solo se ha più del 10% di adesioni nel settore industriale dove opera e se rappresenta il 50%+1 dei lavoratori dell'azienda in cui intende aprire una negoziazione. Gli scioperi sono vietati per legge per un numero considerevole di lavoratori del settore pubblico, ma il divieto si estende anche a molti settori del lavoro privato, come quello estrattivo, dell'energia e bancario. Nel pubblico impiego, nella sanità, nei trasporti, nell'amministrazione e nella scuola, non si prevede alcuna possibilità di sciopero. Per tutti gli altri settori, seguire la procedure per indire uno sciopero non significa poterlo effettuare: il Ministero della sicurezza sociale può, a suo insindacabile giudizio, vietarlo per presunti motivi di ordine pubblico o quant'altro. Chiunque volesse proclamare o aderire a uno sciopero contro il parere del governo, oltre a subire pesanti conseguenze nelle piazze e nelle carceri, può essere condannato a pagare fino a 100.000 lire turche se è fra i promotori, o fino 80.000 se vi ha partecipato.

Solo negli ultimi anni i sindacati hanno potuto iniziare ad agire allo scoperto, pur con immense difficoltà reali e legali: e questo è stato possibile grazie a generose lotte intraprese dalla classe operaia. Gli anni che vanno dal 2000 ad oggi sono stati contrassegnati dalle lotte nel settore della gomma, in quello del vetro e poi da quelle scaturite dalla dismissione dell'industria pubblica. Nel 2009, prima la lotta di 279 lavoratori dell'azienda pubblica Kant di Izmir, poi la lotta dei lavoratori del monopolio di stato TEKEL, hanno rappresentato un primo risveglio della classe operaia. 12.000 lavoratori si sono recati ad Ankara con 160 pullman predisposti dal sindacato Tekgida-iş e hanno presidiato la sede dell’AKP (il partito del Presidente del Consiglio Erdogan). Solo un pesante attacco della polizia, che ha visto l'arresto anche del capo del sindacato, ha interrotto la manifestazione; ma, durante i tre giorni di presidio, sono state innumerevoli le azioni di solidarietà nei confronti dei lavoratori in sciopero da parte della popolazione della città.

Queste lotte hanno permesso ai lavoratori, il Primo Maggio dell'anno successivo, di riprendersi dopo 33 anni la centrale piazza Taksim a Istanbul: nel '77, in circostanze ancora misteriose, 36 lavoratori erano uccisi da un cecchino durante le manifestazioni per quella stessa ricorrenza e da allora le autorità avevano vietato l'utilizzo della piazza. Il Primo Maggio 2010, 500mila lavoratori hanno riconquistato all'agibilità politica e sindacale la piazza simbolica. Non si tratta di una questione solo formale: dal 2006 i lavoratori non avevano fatto altro che scontrarsi con violenza con le forze dell'ordine per entrare in piazza Taksim; nel 2010, le lotte montanti in tutto il paese hanno spinto le autorità a concedere alcuni spazi, nell'intento di spegnere gli animi. Quest'anno, infine, piazza Taksim è stata nuovamente negata e, per entrarvi, gli operai si sono di nuovo scontrati duramente con le forze dell'ordine.

Non c'è dubbio che gli animi dei proletari turchi siano esacerbati. La situazione economica della classe operaia, nonostante l'aumento importante del PIL in questi ultimi trent'anni, non è certo migliorata: anzi! La forza lavoro operaia s'aggira intorno ai 25 milioni; la disoccupazione ufficiale negli ultimi dieci anni si è tenuta su un alto livello, intorno al 10%, ma se si prende in considerazione la disoccupazione giovanile, tale valore si innalza fino a superare il 30%. Uno studio condotto nel 2009 dall'Istituto di sicurezza sociale turco riporta che il lavoro nero coinvolge più del 45% della forza lavoro. Questo spropositato utilizzo del lavoro nero è alla base di un considerevole stillicidio di morti nelle file proletarie: “In Turchia ogni giorno muoiono in media tre persone a causa di incidenti sul lavoro. Miniere, cantieri, fabbriche, officine e campi agricoli, sono i luoghi dove i lavoratori rischiano quotidianamente la vita. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istituto di sicurezza sociale, nel 2009 hanno avuto un infortunio, mentre lavoravano o si stavano spostando per motivi di lavoro, 64.316 persone. Per 1.171 di loro l’incidente è stato fatale2. Ancora: “A impiegare la metà del lavoro in nero del mercato economico turco sono le piccole e medie imprese, le cosiddette KOBI (Küçük ve Orta Boy işletme). In questo tipo di impresa, che costituisce il 90% del totale delle società del Paese, si verifica oltre il 50% degli infortuni sul lavoro [...]. Dal 2009 sono considerate piccole e medie imprese le attività che contano meno di 50 lavoratori. Anche le due officine dove lo scorso febbraio, nella zona industriale di Ankara (OSTIM), si sono verificate delle esplosioni causando 20 morti e decine di feriti, erano classificate come KOBI”.

Non più rosea è la situazione dei salari, che dal 1970 a oggi hanno perso oltre il 40% del valore reale: ciò è dovuto in gran parte a tassi di inflazione molto alti (ancor oggi essa rimane su alti livelli in termini assoluti, anche se in un trend in discesa), ma vi hanno contribuito anche le politiche oppressive dello Stato turco dopo il colpo militare del 1980, che hanno represso ogni richiesta di aumenti salariali.

Si aggiunga che negli ultimi 15 anni le politiche finanziarie del Governo hanno pesantemente smantellato il patrimonio industriale pubblico, contribuendo così a un pesante arretramento delle condizioni generali della classe operaia, attraverso un rapido impoverimento anche degli strati di aristocrazia operaia.

Il quadro generale dunque è di difficoltà estrema per la classe operaia turca, la quale poco o niente ha ricavato dalla crescita generale dell'economia e dalla nuova “voglia di imperialismo” della sua classe dirigente: anzi, è arretrata notevolmente nelle proprie condizioni di vita e di lavoro.


 

Le mezze classi

La crescita economica ha prodotto, tra i vari effetti, la crescita delle mezze classi: commercianti, professionisti ed altre figure improduttive hanno attecchito e sono cresciuti nelle principali città turche, ed il fenomeno non è stato di poco conto. All'inizio di questo millennio, la forza lavoro turca era così suddivisa, per settore: 1° settore, 48%; 2° settore, 21%; 3° settore, 31%. Oggi, come abbiamo già visto nel primo articolo, la situazione è rispettivamente: 27%, 26%, 49,5%. Come si può facilmente constatare da questa breve serie di dati macroeconomici, il settore agricolo ha dimezzato la propria consistenza, non a favore della manifattura ma a favore dei servizi. Questa porzione della popolazione turca è stata quella che di più ha visto crescere le proprie condizioni di vita e le proprie ricchezze: oggi rappresenta il “ventre molle”, che appoggia incondizionatamente l'attuale partito al potere l'AKP e il suo leader Erdogan. In particolare, le mezze classi hanno potuto usufruire della politica estera espansiva, alimentando una miriade di piccoli commerci e sfruttando le relazioni che il governo ha tessuto negli ultimi venti anni.

L'ascesa di un ceto urbano piccolo-borghese ha poi portato con sé il diffondersi di “bisogni” e richieste di ulteriore crescita nelle condizioni di vita. Tali richieste si sono però scontrate con due precise condizioni della crescita stessa: la necessità sempre più intensa di sfruttare ogni risorsa naturale e la crisi mondiale che, anche con effetti meno evidenti, ha rallentato il processo di crescita civile in generale.

Le autorità turche hanno così messo in campo un vasto programma per lo sfruttamento delle risorse naturali e in particolare hanno varato un piano per soddisfare il bisogno energetico su vasta scala. Centrali nucleari e centrali idroelettriche sono in fase di progettazione e realizzazione. La devastazione del territorio conseguente a queste politiche ha scatenato negli ultimi anni un ampio movimento di protesta a difesa del territorio.

D'altra parte, la crisi ha interrotto quel processo di crescita economica che aveva illuso i ceti medi con la speranza di migliorare “illimitatamente” per sé e i propri figli le condizioni di vita. La consapevolezza di questa frenata ha acceso, in alcune parti della piccola borghesia, il sacro fuoco del radicalismo, che appoggia disordinatamente ogni iniziativa di protesta civile.

La risposta del governo alle aspettative dei ceti urbani è stata una progressiva stretta dal punto di vista repressivo. Presentatisi un decennio fa come esponenti di un islamismo moderato e liberale, il presidente Erdogan e la borghesia turca oggi offrono un volto del tutto opposto. La repressione non è applicata solo alla piazza, ma si articola in tutti gli aspetti della vita quotidiana dei turchi. Si contano a centinaia i giovani turchi che marciscono nelle galere per anni senza un capo di imputazione preciso, arrestati sulla base di indizi o prove vaghe, se non inesistenti. Non è un caso che proprio sui giovani si abbatta più pesante il pugno repressivo: sono la generazione che ha compreso che la “festa è finita” e che le loro condizioni in futuro non potranno che arretrare; proprio per questo si espongono di più, nel contrastare, quasi sempre confusamente, le politiche governative.


 

Gezy Park

All'interno del quadro sopra accennato si inseriscono gli avvenimenti di un anno fa ad Istanbul, troppo noti per riassumerli qui. Ciò a cui ci interessa rispondere è: possibile che la difesa di un parco urbano sia stata la causa di un movimento che per alcune settimane ha visto decine di migliaia di manifestanti scendere nelle piazze di 67 città, scontrandosi violentemente con la polizia, con centinaia di arresti e migliaia di feriti e non poche vittime?

Sicuramente il movimento turco ha avuto poco a che fare, per quanto riguarda le cause sottostanti, con le proteste che hanno incendiato il sud del Mediterraneo e il Medio Oriente. Mentre le “primavere arabe” sono nate dal sottofondo di estrema miseria delle masse proletarie e popolari, in Turchia questa miseria così estrema è del tutto marginale, e piuttosto circoscritta alle zone rurali orientali. Figlie tutte della crisi, queste manifestazioni si sono sviluppate da condizioni diverse e hanno imboccato strade del tutto diverse.

La composizione della piazza può aiutarci a rispondere alla domanda. “Secondo un sondaggio condotto dall’Università Bilgi, più del 60% dei manifestanti del movimento ribattezzato 'Occupy Gezy' appartiene alla fascia d’età tra i 19 e i 30 anni. Il gruppo più numeroso, con una percentuale del 39,6%, è rappresentato dai giovani tra i 19 e i 25 anni. Il 70% dei duemila intervistati ha dichiarato di non sentirsi vicino a nessuna formazione politica, mentre il 53,7% non aveva mai partecipato ad alcuna manifestazione di massa prima d’ora. Numerosi gli studenti, liceali e universitari3. Ancora: “Gruppi della sinistra rivoluzionaria, sindacati, Ong, attori, nazionalisti, tifosi, musulmani anti-capitalisti, anarchici. Le manifestazioni dei giorni scorsi in Turchia hanno portato in piazza un caleidoscopio di voci diverse4.

Dunque, giovani: ovvero, le nuove generazioni che si sentono escluse dalla crescita economica. Naturalmente, è un processo inconscio e non ben compreso, che prende d'impulso il primo avvenimento di protesta, per deflagrare potente ed altrettanto repentinamente implodere. Le proteste non hanno coinvolto una massa di popolazione tale da poter sovvertire ogni cosa: sicuramente la protesta è stata radicale, ma certo non al punto da mettere in discussione lo Stato turco e le sue istituzioni. Al contrario, ci si è limitati ad accusare un uomo e la sua cricca di essere i responsabili del malaffare e dunque di ogni stortura del sistema. Ciò ha illuso ancora una volta le masse turche che, eliminando l'unico ostacolo, si potrebbe ricominciare a veleggiare sulle onde di una nuova espansione economica.

E infatti la piazza ha gridato slogan che inneggiavano ad Ataturk, a una maggiore democrazia, alla fine della repressione, a un maggiore coinvolgimento della popolazione nella gestione della “cosa pubblica”, alla cacciata di Erdogan in quanto “corrotto” – posizioni di sapore squisitamente piccolo-borghese e del tutto compatibili con il modo di produzione capitalistico. Tant'è vero che il “tirannico” Erdogan, alle elezioni di due mesi fa, ha portato a casa ancora una volta percentuali “bulgare”, rimanendo ben saldo sulla propria poltrona, a tessere i propri interessi e quelli della borghesia turca.


 

Conclusioni

Non c'è dubbio che, nei giorni di Gezy Park, a scendere in piazza ci siano state anche fasce proletarie e, più in generale, giovanili – una presenza consistente e “arrabbiata”, prodotto di una diffusa proletarizzazione. E' anche probabile (ma non abbiamo sufficienti informazioni per poterlo dire) che, nel magma indifferenziato di quei giorni, si agitassero posizioni più radicali di altre. Di certo, però, non sono riuscite a emergere e tanto meno a porsi alla testa del movimento: al contrario, tutto si è limitato alla richiesta di maggiore democrazia, nella generale indifferenza del resto della popolazione turca.

Questo non ci stupisce. Non si può pretendere dai proletari turchi quello che non si è potuto pretendere dai proletari delle “primavere arabe”. Per quanto ci si possa riempire la bocca di tante belle parole sulla “spontaneità operaia”, questa da sé non può esprimere più di quello che... ha già espresso. Coraggio, dedizione, sacrificio morale e fisico, martirio, aspirazioni di emancipazione sono tutte incontestabili qualità dei proletari che in questi anni hanno lottato nei paesi affacciati sul Mediterraneo. Ciò tuttavia non è sufficiente: se non si riesce a spezzare le catene che legano “il movimento” alla borghesia, si scende in campo inermi e si è sconfitti.

Ma la tragedia del proletariato turco oggi è la tragedia del proletariato mondiale. Decenni di controrivoluzione (democratica, nazifascista, stalinista) hanno ridotto il suo partito, il partito comunista internazionale, a una forza minoritaria. Esso però esiste, ed è l'unico ad aver tratto un bilancio reale di tutti questi decenni (le lezioni della controrivoluzione) e ad aver difeso con le unghie e con i denti la prospettiva teorica e pratica della rivoluzione comunista. I comunisti conseguenti, le avanguardie di lotta consapevoli della necessità del partito rivoluzionario, dovranno lavorare al suo rafforzamento politico-organizzativo, al suo radicamento internazionale. Solo così il proletariato mondiale potrà uscire dalla sua attuale, devastante solitudine politica, e finalmente, con alla testa il proprio partito, porre direttamente la questione del potere politico, della propria dittatura e dello smantellamento del modo di produzione capitalistico.

1Cfr. l'art. 54 della Costituzione turca.

22 Faz?la Mat, “Turchia: cresce il lavoro ma non la sicurezza” (10 maggio 2011), http://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia.

3 Fazila Mat, “Turchia, il popolo di Taksim si guarda allo specchio”, 6 giugno 2013, http://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia.

4 Idem.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03-04 - 2014)