Cina: La crisi e la fuga della sovrappopolazione proletaria

Pubblicato: 2014-11-17 17:25:20

Leggiamo in “Affari e Finanza” (supplemento de La Repubblica, 10/2/2014): “Milioni di lavoratori cinesi, terminate le vacanze del Capodanno lunare, non torneranno nei distretti industriali. Il 30% dei posti resterà scoperto almeno fino a giugno. Per la prima potenza produttiva del mondo è un danno miliardario, tale da spingere le aziende a concedere bonus e aumenti di stipendio senza precedenti, pur di non bloccare per mesi le catene di montaggio. A fine di gennaio oltre 300 milioni di operai-migranti hanno fatto ritorno nei villaggi d’origine per le ferie. A scoraggiare un ritorno puntuale sul posto di lavoro, oltre alla prospettiva di un altro anno in solitudine, il costo del viaggio, i salari bassi, la nascita di piccole imprese anche nelle regioni lontane dalla costa, il ritorno dei profitti in agricoltura. Lo scorso anno il mancato ritorno operaio nelle metropoli industriali è costato alle imprese cinesi il 15% del giro di affari”.

I dati non rivelano nulla di nuovo nella storia del capitalismo, se non fosse per l'immensa massa proletaria in movimento: una popolazione operaia-migrante, pari all'incirca all'intera popolazione americana, dilaga come un fiume in piena nei territori circostanti. Il 30% dei posti totali, ci informa l'articolo, resterà scoperto e il danno sulle imprese sarà miliardario nel giro complessivo dei profitti. Un processo collettivo di tale portata, non provocato ad arte ma suscitato da una situazione creatasi deterministicamente, imporrebbe, dunque, un cambiamento di rotta riguardo alle condizioni di vita e di lavoro, ovvero ai bassi salari, ai costi generali di sopravvivenza, ai costi dei trasporti, al fine di vendere la merce forza lavoro a condizioni migliori (vicinanza alle famiglie, migrazione nei paesi vicini a più alti salari, ritorno ad una nuova agricoltura non più di sussistenza). Se facciamo un raffronto con l'emigrazione italiana nel mondo dal 1876 al 1961 (1876-1900: 5.257.850; 1901-1915: 8.768.680; 1916-1942: 4.355.240; 1946-1961: 4.452.200; dati del Centro Studi Emigrazione, Roma 1978, riportati da G. A. Stella, L'orda, RCS Libri), da un lato cogliamo la dimensione gigantesca di questo processo cinese di “svuotamento”, dall'altro ci risulta evidente come stiano emergendo nuovi poli di accumulazione asiatici.

Mettendo le cause determinanti dei fenomeni al loro giusto posto, scrive Marx nel Capitale (Libro Primo, Cap. XXIII, “La legge generale dell'accumulazione capitalistica”, Ed. Utet, pag.790): “Sono questi movimenti assoluti nell'accumulazione del capitale, che si rispecchiano come movimenti relativi nella massa della forza lavoro sfruttabile e quindi sembrano dovuti al movimento proprio di quest'ultima. Per servirsi di un'espressione matematica: la grandezza dell'accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario la variabile dipendente, e non viceversa. Così, nella fase di crisi del ciclo industriale, la caduta generale dei prezzi delle merci si esprime come salita del valore relativo del denaro e nella fase di prosperità la salita generale dei prezzi delle merci si esprime come caduta del valore relativo del denaro. La cosiddetta currency school [scuola monetarista – NdR] ne deduce che nel caso di prezzi alti circola troppo denaro, nel caso di prezzi bassi ne circola troppo poco. La sua ignoranza e il suo completo misconoscimento dei fatti trovano degni paralleli negli economisti che interpretano questi fenomeni dell'accumulazione nel senso che una volta esistono troppo pochi operai salariati e l'altra ne esistono troppi”.

Come interpretare dunque la dinamica della forza-lavoro “in fuga”? La domanda da porsi, dice Marx, non è quella relativa ai prezzi delle merci, al valore del denaro, ai salari, all'immensa massa operaia sfruttabile, i cui movimenti sono dipendenti, effetti e non cause. La domanda è: come procede la dinamica dell'accumulazione in Cina? Lasciamo da parte, non perché inesistenti, quegli effetti che vengono isolati e resi assoluti dagli esperti in economia come “inflazione monetaria”, sovraesposizione finanziaria (Fondo sovrano cinese), sovrapproduzione di esportazioni, massiccia presenza di sfruttati, bassi salari. La risposta a quella domanda è che l'economia cinese sta subendo i colpi della crisi economica mondiale: il che non significa che l'economia si stia spegnendo, ma che essa, più di quanto succedesse nella fase iniziale, è costretta ad accelerare (lo impone il più basso saggio di profitto), se vuole salvarsi dalla catastrofe trascinando con sé l'intero sistema borghese. Da qui, la gran massa delle “buone intenzioni” dello Stato cinese per fare ripartire l'economia, tentando di ristabilire il rapporto di valorizzazione del capitale, attaccato da due concause concomitanti sul piano mondiale: l'eccesso di popolazione con l'eccesso di capitale, ovvero la crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali, che, riducendo il saggio medio del profitto, ha imposto una brusca svalorizzazione del capitale.

Ancora l'articolo citato in apertura: “Un sondaggio dell’Accademia delle Scienze rivela che nessuna azienda ha perso meno del 10% della propria forza lavoro. I capi del personale, da Schenzhen a Shanghai, sono dunque mobilitati. […] In questi giorni a milioni di operai vengono promessi biglietti ferroviari, rimborso dei pasti e aumento della busta paga del 10% fino a giugno. L’invecchiamento della popolazione e la concorrenza di Cambogia, Vietnam, Mianmar, Thailandia, aumentano le difficoltà cinesi nel fidelizzare la forza lavoro specializzata. Chi rientra puntualmente al lavoro otterrà un premio tra i 100 e i 1000 yuan, ma pure biglietti per le nuove lotterie aziendali, dove si vincono 1500 euro, pari a cinque mensilità del reddito minimo. Alcuni gruppi promettono agli operai fedeli di organizzare party aziendali, giri turistici per i week-end, di costruire biblioteche, sale video, piscine e asili, oppure di donare tessere sconto per fare shopping. Nel settore dell'elettronica, dove la manodopera è più giovane, si offrono persino serate romantiche per single, per favorire i contatti in una massa operaia vittima dell'isolamento. Tra febbraio e marzo i benefit per i ricercatissimi lavoratori fedeli saranno a doppia cifra, prospettiva che però, in molti casi, accresce il problema del mancato rientro dai villaggi. I dipendenti sanno che non ripresentarsi in azienda non espone più al licenziamento, come in passato, ma offre l'opportunità di essere premiati. Minacciare la stabilità occupazionale cinese, per l'operaio può rivelarsi un vantaggio. Per i colletti bianchi il reclutamento si fa invece sempre più difficile e oggi sono loro, in caso di fallimento, a rischiare il posto: risparmiare sui premi-fedeltà può causare il crollo della manodopera, ma promettere troppo può aumentare il ritardo del suo rientro. Anche in Asia si apre una fase nuova. Oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi si dichiarano pronti ad espatriare, pur di guadagnare di più e di vivere in ambienti meno inquinati, mentre i laureati aumentano del 34% all'anno, rispetto ad un meno 26% di operai. Non sono solo le ferie di capodanno ad obbligare le industrie del Dragone ad andare a caccia dei dipendenti in fuga: per la Cina termina l'era del lavoro a basso costo e la geografia globale delle multinazionali nomadi sta per acquisire un profilo nuovo”.

Che cosa accade? L'articolo non fa menzione delle lotte operaie nelle fabbriche, nei villaggi e nelle periferie delle città intossicate, né degli scontri con la polizia. Non dice nulla delle rivendicazioni economiche avanzate dagli operai stessi e dettate dalle condizioni miserabili, o delle loro organizzazioni spontanee, delle abitazioni-tuguri, delle centinaia di migliaia di cantine-laboratori ove si ammassano in piccoli spazi milioni di formiche-operaie. Nulla dice degli incendi nelle fabbriche, delle morti nelle miniere, dell'assenza di protezioni, dei suicidi. Ci informa solo di una presa d'atto, da parte dello “Stato del mercato socialista”, delle aziende e delle organizzazioni economiche e sociali preposte al controllo e alla repressione, della necessità di cambiare rotta imponendo un riformismo dall'alto (ad opera delle imprese nazionali) o dal basso (ad opera delle aziende private e delle multinazionali), rivolto al consumo interno, per tentare, con palloncini e cotillons, di riportare nelle fabbriche i lavoratori, incatenati o addomesticati (vedi al riguardo il nostro articolo “La Cina tra nuove riforme, repressioni e antagonismi interimperialistici. Note sul plenum del XVIII Congresso del PCC”, Il programma comunista, n.1/2014). I licenziamenti, le espulsioni, le ristrutturazioni, la mortalità e la chiusura delle aziende e il conseguente svuotamento delle “carceri operaie” sono mascherati come puro “allontanamento ingiustificato”: ergo, occorre andare a caccia dei dipendenti in fuga, se si vuole riprendere la caccia al profitto! In Russia, lo si chiamava “assenteismo antipatriottico”; durante il ventennio fascista, “assenteismo antinazionale”. Ma il benedetto “assenteismo degli scansafatiche” in regime democratico ha lo stesso e identico fine, spontaneo e ancora inconsapevole: quello di salvare la pelle conciata.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)