Corso del capitalismo mondiale

Pubblicato: 2014-11-16 21:52:37

Nei due ultimi numeri del giornale abbiamo introdotto questo lavoro con una valutazione generale della crisi, cui abbiamo fatto seguire la

riproduzione integrale del paragrafo 3 del Cap XV del III Libro del Capitale dal titolo “Eccesso di popolazione con eccesso di capitale”. Per

comprendere in profondità, nelle sue premesse e nei suoi effetti, le crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali, le crisi mondiali, come le

chiama Marx, e per dare certezza di scienza al lavoro di studio e di indagine in corso, riproduciamo quasi integralmente alcuni dei paragrafi tratti

dalle Teorie del plusvalore. In queste pagine, Marx affronta il problema della crisi dal punto di vista della sua “possibilità”; nei paragrafi successivi,

che ci proponiamo di ripubblicare in seguito, Marx parla della “trasformazione della possibilità della crisi in realtà”. Ripubblicando queste pagine,

intendiamo raccogliere i fili dispersi della montagna di scritti di Marx ed Engels sulla teoria e fenomenologia delle crisi mondiali.

 

[Le citazioni sono tratte da K. Marx, Teorie del plusvalore II, Editori Riuniti, Cap. XVII, "Teoria dell'accumulazione di Ricardo. Sua critica (sviluppo

delle crisi dalla forma fondamentale del capitale)”, pag.539-555 (par. 6,7,8,9)]


 

6. Problema delle crisi (considerazioni introduttive). Distruzione di capitale attraverso le crisi

Presupposta la sovrapproduzione del capitale costante – cioè una produzione maggiore di quella necessaria alla sostituzione del vecchio capitale, quindi anche alla produzione della vecchia quantità di mezzi di sussistenza – la sovrapproduzione o accumulazione nelle sfere che trasformano macchinario, materie prime ecc., non presenta alcuna ulteriore difficoltà. Se esiste il plusvalore necessario, allora si trovano pronti sul mercato tutti i mezzi per la formazione di nuovo capitale, per la trasformazione del loro denaro eccedente in nuovo capitale.

Ma l’intero processo dell’accumulazione si risolve anzitutto in sovrapproduzione, che corrisponde da un lato alla crescita naturale della popolazione, dall’altro forma una base immanente ai fenomeni che si mostrano nelle crisi. La misura di questa sovrapproduzione è lo stesso capitale, la scala esistente delle condizioni di produzione e lo smisurato anelito all’arricchimento [e] alla capitalizzazione dei capitalisti, non il consumo, che è limitato a priori perché la maggior parte della popolazione, la popolazione operaia, può ampliare solo entro limiti molto ristretti il suo consumo, e d’altra parte nella stessa misura in cui il capitalismo si sviluppa, la domanda di lavoro diminuisce relativamente, benché essa aumenti assolutamente. Si aggiunge a ciò il fatto che le perequazioni [sono] tutte casuali e la proporzione nell’impiego dei capitali nelle sfere particolari si perequa sì attraverso un processo continuo, ma la continuità di questo processo stesso presuppone altrettanto la sproporzione continua che esso continuamente, spesso violentemente, ha da perequare.

[…] L'idea […] adottata da Ricardo, che non sia possibile alcuna sovrapproduzione o almeno nessuna saturazione generale del mercato, poggia sulla tesi che prodotti vengono scambiati contro prodotti o, come l'aveva [detto] Mill, sull'”equilibrio metafisico fra venditori e compratori”, [il che fu] ulteriormente sviluppato nella tesi che la domanda fosse determinata solo dalla produzione o anche dell'identità fra domanda e offerta. Lo stesso principio [si trova] anche nella forma segnatamente cara a Ricardo che ogni ammontare di capitale possa essere impiegato produttivamente in ogni paese.

Il signor Say”, dice Ricardo […]ha mostrato in modo assolutamente esauriente che non c'è quantità di capitale che non possa essere impiegata in un paese, perché la domanda è limitata soltanto dalla produzione. Nessun uomo produce se non con l'intenzione di consumare o di vendere ed egli non vende mai se non con l'intenzione di acquistare una qualche altra merce che possa essere immediatamente utile per lui o possa contribuire ad una produzione futura”.

[…] Qui provvisoriamente [facciamo notare] soltanto [quanto segue]: nella riproduzione, al pari che nell'accumulazione di capitale, non si tratta solo di ricostruire la stessa massa di valori d'uso di cui consta il capitale alla loro vecchia scala o su una allargata (con l'accumulazione), ma di ricostituire il valore del capitale anticipato con il saggio di profitto consueto (plusvalore). Dunque, se per una qualche circostanza o combinazione di circostanze i prezzi di mercato delle merci (di tutte o della maggior parte, cosa che è del tutto indifferente) sono caduti molto al di sotto dei loro prezzi di costo, da un lato la riproduzione del capitale viene contratta il più possibile. Ma ancor più ristagna l'accumulazione. Il plusvalore ammucchiato nella forma di denaro (oro o banconote) sarebbe trasformato in capitale solo con perdita. Esso perciò giace infruttifero come tesoro nelle banche oppure anche nella forma di moneta di credito, il che non cambia assolutamente nulla alla cosa stessa. Lo stesso arresto potrebbe avvenire per cause opposte, se mancassero i presupposti reali della riproduzione (come con un rincaro di cereali oppure perché non è stato ammucchiato in natura abbastanza capitale costante). Subentra un arresto nella riproduzione, perciò nel flusso della circolazione. Compera e vendita si arrestano l'una di fronte all'altra e il capitale non impiegato appare nella forma di denaro che giace improduttivo. Lo stesso fenomeno (e ciò per lo più precede le crisi) può subentrare se la produzione del sovracapitale procede molto rapidamente e se la sua riconversione in capitale produttivo fa aumentare tanto la domanda di tutti gli elementi del medesimo che la produzione reale non può tenere il passo, perciò i prezzi di tutte le merci che entrano nella formazione del capitale aumentano. In questo caso il tasso di interesse scende molto, per quanto possa salire il profitto, e questo abbassamento del tasso di interesse porta poi alle più ardite imprese speculative. L'arresto della riproduzione porta alla diminuzione del capitale variabile, [alla] diminuzione del salario e alla diminuzione della massa di lavoro impiegata. Questa da parte sua reagisce di nuovo sui prezzi e provoca una nuova diminuzione dei medesimi.

Non va mai dimenticato che nella produzione capitalistica non si tratta direttamente del valore d'uso, ma del valore di scambio e specialmente dell'aumento del plusvalore. Questo è il motivo motore della produzione capitalistica ed è una bella concezione quella che, per abolire le contraddizioni della produzione capitalistica, fa astrazione della sua base e la rende una produzione indirizzata al consumo immediato dei produttori.

Inoltre: poiché il processo di circolazione del capitale non dura un sol giorno, ma piuttosto abbraccia epoche alquanto lunghe prima che abbia luogo il ritorno del capitale a sé, ma poiché quest'epoca coincide con l'epoca in cui i prezzi di mercato si perequano ai prezzi di costo, poiché durante questa epoca accadono grandi rivolgimenti e changes nel mercato, poiché accadono grandi changes nella produttività del lavoro, quindi anche nel valore reale delle merci, è molto chiaro che dal punto di partenza – dal capitale presupposto – fino al suo ritorno dopo una di queste epoche devono aver luogo grandi catastrofi e devono ammassarsi e svilupparsi elementi della crisi che non vengono in nessun modo eliminati con la frase meschina che prodotti si scambiano con prodotti. Il confronto fra il valore in un'epoca e il valore delle stesse merci in un'epoca più tarda, che il signor Bailey ritiene una immaginazione scolastica, costituisce piuttosto il principio fondamentale del processo di circolazione del capitale.

Quando si parla di distruzione del capitale attraverso le crisi, bisogna fare una duplice distinzione. In quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a produzione perduta. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni che restano inutilizzate (altrettanto quanto nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale. Tutto ciò si limita all'arresto del processo di riproduzione e al fatto che le condizioni di produzione esistenti non operano realmente come condizioni di produzione, non vengono messe in funzione. Il loro valore d'uso e il loro valore di scambio vanno con ciò al diavolo.

In secondo luogo, però, distruzione di capitale attraverso le crisi significa un deprezzamento di masse di valore, che impedisce loro di rinnovare più tardi il loro processo di riproduzione come capitale sulla stessa scala. E' la caduta rovinosa dei prezzi delle merci. Con ciò non viene distrutto nessun valore d'uso. Ciò che perde l'uno, guadagna l'altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta.

Se il valore delle loro merci, dalla cui vendita essi riproducono il loro capitale, era uguale a 12mila sterline, di cui per esempio 2mila sterline di profitto, ed esse scendono a 6mila sterline, allora questo capitalista non può né pagare i suoi obblighi contratti né, se anche non ne avesse, ricominciare, con le 6mila sterline, gli affari sulla stessa scala, perché i prezzi delle merci salgono di nuovo ai loro prezzi di costo. Così è distrutto un capitale di 6mila sterline, benché il compratore di queste merci avendole acquistate alla metà del loro prezzo di costo, se gli affari riprendono vigore, possa andare avanti benissimo e possa aver anche guadagnato.

Una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d'uso, possa favorire molto la nuova riproduzione. E' questa al tempo stesso un'epoca in cui l'interesse monetario [i capitalisti monetari – NdR] si arricchisce a spese dell'interesse industriale [degli industriali – NdR]. Ora, per ciò che concerne la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di stato, azioni ecc., – nella misura in cui essa non porta alla bancarotta dello Stato e della società per azioni e così non viene in generale rallentata la riproduzione, in quanto il credito dei capitalisti industriali che detengono tali titoli ne viene scosso – si tratta di un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un'altra e in complesso agirà favorevolmente sulla riproduzione, in quanto i nuovi ricchi nelle cui mani queste azioni o titoli cadono a buon mercato per lo più sono più intraprendenti dei vecchi possessori.


 

7. Sciocca negazione della sovrapproduzione di merci con un contemporaneo riconoscimento della sovrabbondanza di capitale

All’interno di ciò che egli stesso sa, Ricardo è sempre conseguente. Quindi la tesi che non è possibile alcuna sovrapproduzione (di merci) si identifica in lui con la tesi che non è possibile nessuna pletora o sovrabbondanza di capitale [Nota a piè di pagina nel testo: Qui bisogna distinguere. Quando Smith spiega la caduta del saggio di profitto con la sovrabbondanza di capitale, accumulazione di capitale, si tratta allora di un effetto permanente e ciò è errato. Invece una transitoria sovrabbondanza di capitale, sovrapproduzione, crisi sono cose diverse. Crisi permanenti non ce ne sono].

Cosa avrebbe detto allora Ricardo della stupidità dei suoi successori che negano la sovrapproduzione in una forma (come sovrabbondanza generale di merci su mercato) e non solo l'ammettono nell'altra forma come sovrapproduzione di capitale, pletora di capitale, sovrabbondanza di capitale ma ne fanno un punto essenziale delle loro dottrine?

[…] Ricardo stesso non sapeva propriamente niente di crisi, di quelle generali, delle crisi del mercato mondiale risultanti dallo stesso processo produttivo. Egli poteva spiegare le crisi dal 1800 al 1815 con il rincaro dei cereali in conseguenza del cattivo andamento dei raccolti, con il deprezzamento della moneta cartacea, col deprezzamento delle merci coloniali ecc., perché in seguito al blocco continentale il mercato fu violentemente contratto per motivi politici, non economici. Egli poteva del pari spiegarsi le crisi posteriori al 1815, in parte con una cattiva annata, con una carestia di cereali, in parte con la caduta dei prezzi del grano, perché avevano cessato di operare le cause che, secondo la sua propria teoria, durante la guerra e l'isolamento dell'Inghilterra dal Continente dovevano far salire i prezzi dei cereali, in parte col passaggio dalla guerra alla pace e con i conseguenti “improvvisi cambiamenti nei canali del commercio”.

I fenomeni storici posteriori, specialmente la quasi regolare periodicità delle crisi del mercato mondiale, non permettevano più ai successori di Ricardo di negare i fatti o di interpretarli come facts casuali. Invece di questo essi inventarono – prescindendo da coloro i quali spiegano tutto col credito, per poi spiegare che essi stessi dovranno presupporre la sovrabbondanza di capitale – la bella distinzione fra pletora di capitale e sovrapproduzione.

[…] Ci si chiede dunque: cos'è una pletora di capitale e in che cosa questa si distingue dalla sovrapproduzione? […] Secondo gli stessi economisti [Ure, Colbert, che spiegano la sovrapproduzione come la condizione regolare della grande industria, NdR], il capitale è uguale a denaro o a merci. Quindi sovrapproduzione di capitale è uguale a sovrapproduzione di denaro o di merci. […] In generale: in quanto nella frase pletora di capitale al posto di sovrapproduzione di merci non ci sia solo un modo di dire pretestuoso o l'irresponsabile mancanza di idee che ammette lo stesso fenomeno come esistente e necessario non appena si chiama a, ma lo nega non appena si chiama b, in realtà quindi ha solo scrupoli e esitazioni circa la denominazione del fenomeno, non circa il fenomeno stesso, oppure anche vuole scansare questa difficoltà di spiegare il fenomeno negandolo in una forma (nome) in cui esso contraddice ai propri pregiudizi e ammettendolo solo in una forma in cui nulla vien pensato – prescindendo da questi aspetti, nel passaggio dalla frase “sovrapproduzione di merci” alla frase “pletora di capitale” c'è in realtà un progresso. In cosa consiste? Nel fatto che i produttori si contrappongono non come semplici possessori di merci, ma come capitalisti.


 

8. Negazione da parte di Ricardo della sovrapproduzione generale. La possibilità della crisi risulta dalle antitesi interne della merce e del denaro

Ancora alcune tesi di Ricardo: […] “I prodotti vengono sempre comprati da prodotti o da servizi; il denaro è soltanto il mezzo mediante il quale lo scambio viene effettuato”. (Cioè, il denaro è semplice mezzo di circolazione e lo stesso valore di scambio è una forma puramente evanescente dello scambio di prodotti contro prodotti – il che è falso).

[Ancora Ricardo - NdR]: “Di una merce particolare può esserne prodotta troppa di cui sul mercato può esservi una tale abbondanza che il capitale impiegatovi non si ripaghi; questo però non può accadere con […] tutte le merci” […].

Nelle crisi del mercato mondiale le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese vengono ad esplosione Ora, anziché indagare in che cosa consistano gli elementi contraddittori che esplodono nella catastrofe, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe stessa e di insistere, di fronte alla loro periodicità regolare, sul fatto che se la produzione si conformasse ai libri scolastici non si arriverebbe mai alla crisi. L'apologetica consiste allora nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel tener ferma l'unità di fronte all'antitesi.

Se, per esempio, compra e vendita – ossia il movimento di metamorfosi della merce – rappresenta l'unità di due processi o meglio il corso di un processo attraverso due fasi contrapposte, quindi è essenzialmente l'unità di ambedue le fasi, essa è altrettanto essenzialmente la separazione di esse e il loro farsi indipendenti l'una di fronte all'altra. Ora, tuttavia, poiché esse sono congiunte, il farsi indipendenti di momenti congiunti può manifestarsi solo violentemente come processo distruttivo. E' appunto la crisi in cui si realizza la loro unità, l'unità dei distinti.

[…] Per dimostrare che la produzione capitalistica non può portare a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e le determinazioni di forma, tutti i principi e le differenze specifiche, in breve la stessa produzione capitalistica, e di fatto viene mostrato che, se il modo di produzione capitalistico, anziché essere una forma specificatamente sviluppata, peculiare della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto dietro alle sue più rozze origini e alle sue antitesi, le contraddizioni peculiari e perciò anche le sue esplosioni nelle crisi non esisterebbero.

[…] Qui dunque in primo luogo una merce in cui esiste l'antitesi fra valore di scambio e valore d'uso viene trasformata in semplice prodotto (valore d'uso) e perciò lo scambio di merci in semplice baratto di prodotti, di semplici valori d'uso. Si retrocede non solo dietro la produzione capitalistica, ma sinanche dietro la semplice produzione di merci, e il fenomeno più complicato della produzione capitalistica – la crisi del mercato mondiale – viene negato negando la condizione prima della produzione capitalistica, cioè che il prodotto deve essere merce, perciò deve rappresentarsi come denaro e passare attraverso al processo di metamorfosi. Anziché parlare di lavoro salariato, si parla di “servizi”, una parola in cui la determinazione specifica del lavoro salariato e del suo uso – cioè di aumentare il valore delle merci con cui esso viene scambiato, di produrre plusvalore – viene di nuovo omessa e con ciò lo specifico rapporto per cui denaro e merce si trasformano in capitale. “Servizio” è il lavoro concepito semplicemente come valore d'uso (una cosa secondaria nella produzione capitalistica), del tutto come nella parola “prodotto” l'essenza della merce e la contraddizione insita in essa vengono soppresse. Anche il denaro viene allora conseguentemente concepito come semplice intermediario dello scambio di prodotti, non come una forma di esistenza essenziale e necessaria della merce, che deve rappresentarsi come valore di scambio – lavoro sociale generale. Cancellando, con la trasformazione della merce in semplice valore d'uso (prodotto) l'essenza del valore di scambio, si può o meglio si deve altrettanto facilmente negare il denaro come una forma essenziale della merce e, nel processo di metamorfosi, indipendente rispetto alla forma originaria della merce.

Qui dunque le crisi vengono eliminate mediante un ragionamento che dimentica o nega i primi presupposti della produzione capitalistica, l'esistenza del prodotto come merce, lo sdoppiamento della merce in merce e denaro, i momenti da ciò risultanti della separazione nello scambio di merci, infine il rapporto fra il denaro o la merce e il lavoro salariato.

Non migliori sono del resto gli economisti [...] che vogliono spiegare le crisi da queste semplici possibilità della crisi contenute nella metamorfosi delle merci come la separazione di compra e vendita. Queste determinazioni che spiegano la possibilità della crisi sono ben lontane dallo spiegare la sua realtà, non spiegano ancora perché le fasi del processo entrano in tale conflitto che solo mediante una crisi, mediante un processo violento, può farsi valere la loro interna unità. Questa separazione si manifesta nella crisi; è la forma elementare di essa. Spiegare la crisi da questa sua forma elementare è come spiegare l'esistenza della crisi esprimendo la sua esistenza nella sua forma più astratta, quindi spiegare la crisi mediante la crisi.

[…] Poc'anzi si è dimenticato che il prodotto è merce. Ora si dimentica sinanche la divisione sociale del lavoro. In situazioni in cui degli uomini producono per se stessi, difatto non ci sono crisi, ma non c'è neanche produzione capitalistica. Non abbiamo neanche mai udito che gli antichi con la loro produzione schiavistica abbiano mai conosciuto crisi, benché singoli produttori, anche fra gli antichi, abbiano fatto bancarotta. La prima parte dell'alternativa è un nonsenso. Altrettanto la seconda. Un uomo che ha prodotto non ha la scelta se vuole vendere o no. Egli deve vendere. Ora, proprio nelle crisi subentra la circostanza che egli non può vendere oppure deve vendere solo al di sotto del prezzo di costo o addirittura con una perdita positiva. Cosa serve a lui e quindi a noi che egli abbia prodotto per vendere? Si tratta proprio di sapere cosa intralcia questa sua buona intenzione.

[…] Ricardo dimentica perfino che uno può vendere per pagare e che queste vendite forzate giocano un ruolo molto importante nelle crisi. Il fine più prossimo del capitalista nel vendere è di ritrasformare la sua merce o meglio il suo capitale-merci in capitale-denaro e di realizzare con questo il suo guadagno. Il consumo – il reddito – non è qui affatto un punto guida per questo processo, cosa che certo è per colui il quale vende merci semplicemente per trasformarle in mezzi di sussistenza. Questa, però, non è la produzione capitalista nella quale il reddito appare come un risultato, non come uno scopo determinante. Ognuno vende anzitutto per vendere, cioè per trasformare merce in denaro.

Durante la crisi, l'uomo può essere molto soddisfatto se ha venduto senza pensare anzitutto a comprare. Certo, se il valore realizzato deve ora operare di nuovo come capitale, esso deve attraversare il processo di riproduzione, quindi scambiarsi di nuovo con lavoro e merci. Ma la crisi è proprio il momento di perturbazione e d'interruzione del processo di riproduzione. E questa perturbazione non può essere spiegata col fatto che essa non ha luogo in tempi in cui non domina nessuna crisi. E' fuori di dubbio che nessuno produrrà continuamente una merce per la quale non esiste domanda, ma è anche vero che di un'ipotesi così assurda nessuno parla. Essa non ha altresì in generale niente a che fare con la faccenda. Anzitutto, “possesso di altri beni” non è lo scopo della produzione capitalistica, ma l'appropriazione di valore, di denaro, di ricchezza astratta.

[…] in Ricardo questa erronea concezione del denaro poggia sul fatto che egli in generale mira solo alla determinazione quantitativa del valore di scambio, cioè al fatto che esso è uguale ad una determinata quantità di tempo di lavoro, ma dimentica la determinazione qualitativa, che il lavoro individuale deve rappresentarsi solo mediante la sua alienazione come lavoro sociale astrattamente generale. […]

Il fatto che solo particolari, non tutti, i generi di merci possano formare una “saturazione nel mercato”, che perciò la sovrapproduzione possa essere sempre soltanto parziale, è un meschino espediente. Anzitutto, se si considera semplicemente la natura della merce, nulla osta che tutte le merci siano presenti in eccedenza sul mercato e perciò che tutte cadono al di sotto del loro prezzo. Si tratta qui proprio solo del momento della crisi. Vale a dire che tutte le merci, tranne il denaro, [possono esservi in eccedenza]. Il fatto che esista per la merce la necessità di rappresentarsi come denaro significa solo che la necessità esiste per tutte le merci. E come esiste per una singola merce la difficoltà di attraversare questa metamorfosi, così essa può esistere per tutte. La natura generale della metamorfosi delle merci – che include tanto la separazione di compra e vendita quanto la loro unità, anziché escludere la possibilità di una generale saturazione – è piuttosto la possibilità di una saturazione generale.

[…] Come dice Mill, se compra è vendita, ecc., allora domanda è offerta e offerta è domanda, ma altrettanto esse si separano e possono farsi indipendenti l'una di fronte all'altra. L'offerta di tutte le merci può, in un dato momento, essere maggiore della domanda di tutte le merci, essendo la domanda della merce generale, il denaro, il valore di scambio, maggiore della domanda di tutte le merci particolari, oppure prevalendo il momento di rappresentare la merce come denaro, di realizzare il suo valore di scambio sul momento di ritrasformare la merce in valore d'uso.

Se il rapporto fra domanda e offerta viene concepito in modo più ampio e più concreto, allora vi si inserisce quello tra produzione e consumo. Qui di nuovo dovrebbe essere tenuta ferma l'unità di questi due momenti, che esiste in sé e che si fa valere violentemente proprio nella crisi, di fronte alla separazione e antitesi di essi altrettanto esistente e perfino caratterizzante la produzione borghese.

Per quanto riguarda l'antitesi tra sovrapproduzione parziale e universale, in quanto, cioè, si tratti semplicemente di affermare la prima per sfuggire la seconda, va notato quanto segue.

In primo luogo: Precede per lo più le crisi una generale inflazione dei prezzi in tutti gli articoli appartenenti alla produzione capitalistica. Tutti perciò partecipano al crash susseguente e tutti, ai prezzi che avevano prima del crash, sovraccaricano il mercato. Il mercato può assorbire una massa di merci a prezzi calanti, scesi al di sotto dei loro prezzi di costo, che esso non poteva assorbire ai loro prezzi di mercato precedenti. La massa eccedente delle merci è sempre relativa; cioè una massa eccedente a determinati prezzi. I prezzi ai quali le merci vengono poi assorbite [sono] rovinosi per il produttore o per il commerciante. In secondo luogo: Perché una crisi (quindi anche la sovrapproduzione) sia generale, basta che essa afferri gli articoli di commercio dominanti.


 


 

9. Opinione erronea di Ricardo sul rapporto fra produzione e consumo nelle condizioni del capitalismo

Sentiamo più da vicino come Ricardo cerca di escludere una generale saturazione del mercato: “Di una merce particolare può esserne prodotta troppa, di cui sul mercato può esservi una tale abbondanza che il capitale impiegatovi non si ripaghi; questo però non può accadere per tutte le merci; la domanda di grano è limitata dalle bocche che devono mangiarlo, quella di scarpe e di vestiti dalle persone che devono portarli; ma anche se una comunità o una parte di una comunità può avere tanto grano e tanti cappelli e scarpe quanto è in grado o può desiderare di consumare, altrettanto non può dirsi tuttavia di ogni merce prodotta dalla natura o dall'arte industriale. [...] Il desiderio di fare tutto questo o una parte di questo è radicato nel petto d'ogni uomo; non ne sono richiesti altro che i mezzi e niente può fornire questi mezzi se non un accrescimento della produzione”.

[…] Dunque, [secondo Ricardo – NdR] non è possibile nessuna sovrapproduzione generale […] In momenti di sovrapproduzione, una gran parte della nazione (specialmente la classe operaia) è meno che mai fornita di cereali, scarpe, ecc. per non parlare di vino e mobili. Se una sovrapproduzione dovesse sopraggiungere solo dopo che tutti i membri della nazione avessero soddisfatto anche solo i bisogni più necessari, non sarebbe mai potuta avvenire nella storia della società borghese fino ad oggi non solo una sovrapproduzione generale, ma neanche una parziale. Se, per esempio, il mercato è saturo di scarpe o tessuti o vini o prodotti coloniali, questo vuol dire che forse quattro sesti della nazione hanno soprassaturato il loro bisogno di scarpe, tessuti, ecc.? Che cosa ha a che fare la sovrapproduzione in generale con i bisogni assoluti? Essa ha a che fare con i bisogni solvibili. Si tratta non di sovrapproduzione assoluta – sovrapproduzione in sé e per sé in rapporto all'assoluta indigenza o al desiderio di possesso delle merci. In questo senso, non esiste sovrapproduzione né parziale né generale. E [perciò] esse non costituiscono alcuna antitesi l'una con l'altra.

Ma, dirà Ricardo, se c'è una quantità di uomini che mancano di scarpe e di tessuti, perché non si procurano i mezzi per ottenerli, producendo qualcosa con cui possono comperare scarpe e tessuti? Non sarebbe ancora più semplice dire: perché non si producono scarpe e tessuti? E quel che è ancor più strano nella sovrapproduzione è che i veri e propri produttori delle molte merci che saturano il mercato – gli operai – ne soffrono la mancanza. Qui non si può dire che essi dovrebbero produrre le cose per ottenere le merci, perché le hanno prodotte e tuttavia non le hanno. Non si può neanche dire che la merce determinata satura il mercato, perché non esiste bisogno di essa. Se dunque anche la sovrapproduzione parziale non [va] spiegata col fatto che le merci che saturano il mercato soprassaturano il bisogno di esse, allora la sovrapproduzione universale non può essere negata spiegando che per molte delle merci che sono sul mercato esistono bisogni, bisogni insoddisfatti.

Restiamo all'esempio del tessitore di tessuti. Finché la riproduzione proseguiva ininterrotta – quindi proseguiva anche la fase di questa riproduzione in cui il prodotto esistente come merce, merce vendibile, il tessuto si ritrasformava al suo valore in denaro –, anche gli operai che producono il tessuto consumavano anche, diciamo così, una parte di esso e con l'allargamento della riproduzione – cioè con l'accumulazione – lo consumavano progressivamente, ovvero nella produzione del tessuto erano occupati anche più operai che contemporaneamente erano in parte suoi consumatori. 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2014)