Neofrancescanesismo, altermondialismo, no future, neoriformismo... Ovvero, la crisi e i suoi rigurgiti ideologici

Pubblicato: 2013-09-27 21:46:45

 

La crisi economica di sovrapproduzione, “questa barbarie dei nostri tempi” in cui sembra precipitata l’intera società capitalista, sconvolge materialmente la produzione, la circolazione e l’intera riproduzione di merci e i capitali. Con esse, viene sconvolta anche l’ideologia della classe dominante (oltre alle sparse ideuzze delle mezze classi, suo scarto secondario), su cui finora sembravano fondarsi la consapevolezza e la volontà degli individui e delle classi sociali. È un vortice che afferra individui, collettività e classi, tutti paralizzati da eventi su cui non possono intervenire. Solo quando l’energia cinetica avrà consumato l’immensa carica potenziale che aveva accumulato, il sistema ritroverà una nuova condizione di equilibrio, un equilibrio instabile per sua natura fino alla successiva crisi ancor più devastante. Ma nel frattempo il muscolo-cervello avrà subìto sollecitazioni ideologiche paradossali, immaginarie, irrazionali. Lo possiamo leggere nel libro di uno dei teorici della “Nuova Destra” (Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, Arianna Editrice), un pastone di ideologie diverse che pervadono la società in crisi. Vediamole, non per il valore in sé (nullo), ma per la funzione che hanno di esercitare un’ulteriore oppressione su un proletariato abbandonato a se stesso.

 

Neofrancescanesimo

 

Una di queste ideologie (fritta e rifritta, in verità) è tutta tesa a cercare una soluzione costruttiva del futuro, indirizzata alla crescita della coscienza interiore e all’affermarsi di un modello ideale di sviluppo fondato su un’immaginaria comunità “naturale”, ove l’uomo si sentirà protetto e assumerà un carattere sobrio, responsabile e consapevole – l’elaborazione dell’illusione, a fronte di un concreto pericolo sociale. Il cosiddetto “neofrancescanesimo” vorrà dunque ritrovare i “veri valori”, contrapponendoli a quelli dominanti (il valore di scambio, il valore del denaro, il credito, la fiducia, etc. – un elenco infinito). La storia umana diventa allora un gigantesco bazar di allucinogeni in cui si può trovare di tutto: la “sacralità del vivente” liberata dalla sua mercificazione, l’altruismo, la reciprocità, la socialità. Non più la competizione, non più l’ossessione del lavoro alienato, ma l’importanza della vita sociale rispetto al consumo: il buono, il giusto, il vero staranno seduti attorno a una graziosa tavola imbandita, ove le padrone di casa (Temperanza e Carità) avranno sacra cura degli ospiti. Nessun efficientismo, nessun utilitarismo, ma etica personale e sobrietà volontaria. E, perché tutto non rimanga limitato al livello di coscienza personale, tale mutamento francescano dovrà essere profondo sul piano culturale, sociale ed economico, dovrà rinascere un’identità comunitaria tesa al bene comune per uscire finalmente da una società artificiale e suicida.

Allorché, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, fummo attanagliati dal terrorismo degli Stati vincitori (si chiamava ancora “guerra fredda”), dalla paura della “bomba”, dall’esposizione a vista degli olocausti, dei musei dell’orrore sparsi ovunque nel mondo “a memoria dei vincitori”, dalle guerre che continuavano a mietere milioni di vittime (Vietnam, Cambogia, Afganistan), una reale paura appena temperata dalle “teorie della deterrenza” portatrici di pace e dalla cosiddetta “competizione pacifica”, fu molto di moda tra la piccola borghesia la fuga dal presente, l’autosequestro in casa e l’invenzione delle comunità agricole dei “figli dei fiori”. La crisi economica in cui siamo sprofondati e l’anticipazione di guerre locali, che porteranno a un nuovo conflitto mondiale, crea i presupposti per questa fuga dalla realtà. Naturalmente, con la benedizione dell’ultimo impersonatore di questo neofrancescanesimo: niente meno che Sua Santità Papa (per l’appunto) Francesco...

 

L’altermondialismo, o “l’imperialismo delle moltitudini”

 

Una seconda ideologia di matrice anarcoliberista, figlia dell’evoluzione esponenziale del Capitale, è quella altermondialista, nella versione dell’“imperialismo delle moltitudini”, molto diffusa tra gli affezionati compagni di viaggio di Toni Negri (universitari, cattolici, socialisti, stalinisti democratici, radicali, autonomi, operaisti e, non per nulla, destri delle più varie specie). Essa annuncia (ci spiega de Benoist) che contro il “turbo-capitalismo”, contro la forma finanziaria che ha assunto il Capitale negli ultimi decenni, è vano lottare con mezzi che appartengono alla tradizionale classe operaia, in quanto questa riunisce ormai tutti i ceti subalterni, ovvero tutte le “forme della dipendenza”. Tutte le classi e sottoclassi, produttive o improduttive (in una parola, il “popolo”), sono al centro dello sviluppo del capitalismo imperialista: anzi, dell’“Impero capitalista”. Lo sviluppo ancor più ampio e senza limiti del Capitale consegnerà... il potere alle masse, alle “moltitudini”, facendo piazza pulita del passato e favorendo l’avvento del “comunitarismo” (si badi: non del comunismo, che per costoro è ormai superato – anche se non hanno mai capito un’acca di che cosa sia).

L’“impero mondializzato delle moltitudini” sarà allora la soluzione alternativa agli Stati nazionali edificati dalla borghesia. La corsa radicale verso il futuro, accompagnata dal “consumo desiderante” delle masse, concausa dello sviluppo del Capitale, permetterà alle “moltitudini” di ereditare allora la nuova riorganizzazione imperiale del mondo. Basti questo! Lasciamo il Negri e il de Benoist al loro cattolicesimo originario, al loro riformismo radicale, al loro anarchismo libertario, alla loro psicoanalisi delle masse, alle loro fantasticherie imperiali: ovvero, alle loro “moltitudini” piccolo-borghesi, conservatrici e reazionarie.

 

Un’umanità senza futuro

 

Un’altra espressione della confusione mentale prodotta dalla crisi è la distorsione temporale degli avvenimenti che si accompagna alle più strane e fantastiche elucubrazioni. Si tratta di veri disturbi mentali (schizofrenia e paranoia) che distorcono la realtà e la dinamica dei processi reali, che portano ad un pessimismo storico assoluto che spinge al suicidio collettivo: è la previsione allucinata di un prossimo conflitto mondiale. Viene fatto sparire il lavoro umano, concreto, reale, il tempo socialmente necessario alla produzione dei prodotti del lavoro umano, l’energia vivente, e con essa la scienza, la tecnologia, utili alla soluzione dei problemi della vita di specie. Il denaro e il capitale, mezzo di circolazione e mezzo di pagamento, si rappresentano come mostruosità contro le quali nulla si può. L’indebitamento delle nuove generazioni, prodotto di quel futuro che abbiamo impegnato, sarebbe la nostra condanna per sempre. Avendo consumato il futuro delle generazioni, ci troveremo presto o tardi senza futuro, immolato come sarà alla cieca sovrapproduzione di merci e di capitali di oggi. I nostri figli, appena nati, saranno fin dalla nascita carichi di un debito che i padri hanno contratto nel passato e che essi non potranno mai pagare. L’indebitamento è il Minotauro, il mostro affamato cui occorre sacrificare le condizioni di esistenza umane per saziarlo. Si spezza così il filo razionale della teoria rivoluzionaria, che permetteva di percorrere il Labirinto pauroso affinché fosse uccisa la bestia, quell’atto di libertà dalla schiavitù capitalistica che necessita della violenza rivoluzionaria: per la borghesia (che non è più rivoluzionaria, ma parassita) e per le classi senza storia, quella violenza (si insiste) non è più possibile. Il legame tra il prodotto del lavoro umano e il suo valore (denaro) è inscindibile, non si può spezzare. Il denaro non sparisce come le merci, il credito si alimenta da sé, la leva finanziaria cresce all’infinito, il denaro fittizio divora ogni cosa come un buco nero: siamo condannati!

Emerge da queste farneticazioni l’immensa paura della rivoluzione: la paura di quelle masse inferocite che appenderanno ai pennoni i protagonisti della classe dominante, l’orrore per la dittatura della classe oppressa. Si vuole a tutti i costi nascondere che essa avrà il compito immediato a livello mondiale (oltre a quello di intervenire militarmente sulla classe dominante) di distruggere la montagna di merci che ci sovrasta, la propaganda reazionaria del consumo, la sovrapproduzione in nome del profitto, lo sfruttamento immenso della vita e del lavoro umani cui ha fatto sempre seguito la distruzione periodica di uomini e di merci con le guerre imperialiste. Così, essa scioglierà l’umanità da quel debito distruggendolo, spezzando il legame incestuoso tra prodotto del lavoro umano e valore, e quindi profitto, riducendo con la scienza, domani, il “tempo dovuto” da ciascuno al legame comune di specie, al legame fraterno fra tutte le generazioni.

 

Neoriformismo: il reddito di esistenza o di cittadinanza

 

La più recente delle fantasie neoriformiste, alimentata già dalla prima crisi della metà degli anni ‘70 del ‘900 e propagandata regolarmente e con insistenza all’erompere di nuove crisi di sovrapproduzione, è la rivendicazione del “reddito di cittadinanza o di esistenza”. La sceneggiatura è quella di una società avanzata e costituita ormai da un’immensa massa di disoccupati, precari, inoccupati, affamati, mendicanti, poveri, effetto reale e ultimo della crescita straordinaria della produttività, dell’intensità, degli orari di lavoro insopportabili, che pesano su una massa sempre più ridotta di lavoratori salariati attivi, a profitto di capitalisti, ceti medi improduttivi, commercianti di merci e denaro, parassiti di specie diverse. Il diritto a riscuotere un “reddito di esistenza” non sarebbe determinato dall’essere sfruttati, ma dal fatto di esistere e dall’appartenenza nazionale: esso si presenterebbe come “titolo di proprietà”, come assegno vitalizio, come credito non legato ad alcun lavoro né ad alcuna ricerca di lavoro. L’attuazione di questa proposta vedrebbe in circolazione due specie di entrate: il salario da lavoro e il reddito da non lavoro, quest’ultimo distribuito a titolo gratuito dallo Stato – reddito che si auspica possa trasformarsi in lavoro di tipo speciale, di carattere autonomo, “scelta libera del soggetto” (?).

Che si tratti del vecchio gioco delle tre carte (una sottrazione mascherata di plusvalore), che nasca da un incremento di sfruttamento ad hoc o da una sottrazione di una parte del lavoro necessario, pare non sia chiaro ai neo-

esperti de Benoist & Co. L’abbattimento della proprietà privata non è preso in considerazione: semmai, se ne ha qui l’eterna riconferma. Rimane fuori della portata dei proletari la proprietà sui mezzi di produzione, sulle materie prime, sui prodotti e quindi sul plusvalore, che resta invece nelle mani della classe borghese dominante e del suo Stato (e che deve anzi aumentare). Da una parte, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo continuerebbe; dall’altra, un assegno “impedirebbe” (?) la miseria di coloro che sono stati lasciati fuori dal lavoro attivo nelle diverse congiunture capitalistiche. L’ignoranza della realtà capitalistica tocca in queste proposte i suoi vertici. Salvare il capitalismo è l’aspetto ripugnante di questo neoriformismo. E’ un’operazione che non smette mai di trovare adepti: anzi, più cresce la produttività, più cresce “la corte dei miracoli” di chi vi si accosta.

L’appartenenza nazionale relativa alla riscossione dell’assegno è proprio la dimostrazione del carattere miserabile, nazionalista, patriottico, di questa proposta. Alla domanda se questo reddito favorirebbe l’immigrazione, la risposta che viene in soccorso è questa: “Non è vero. L’introduzione del redditto di cittadinanza si accompagnerebbe ad una revisione delle condizioni di attribuzione della nazionalità. Lo status di cittadino deve poter essere raggiunto solo a determinate condizioni; in particolare quella di un sufficiente inserimento nella società e di partecipazione attiva ad essa”. Che i buoni e bravi cittadini rispettosi della Legge si facciano avanti! Alla osservazione: “Ma così si diventa tutti degli assistiti!”, la risposta è conseguente: “l’individuo, una volta munito del necessario, proverà il bisogno di agire e di realizzarsi”. Provate a non ridere: tutto ciò dovrebbe avvenire in una società in cui la maggioranza della popolazione, lavorando attivamente fino allo stremo delle forze, fino a perderci la vita, e creando quel tale plusvalore (che si aggira intorno alle sette ore giornaliere), rimane entro i limiti della miseria! Alla domanda: “come finanziare una tale proposta”, ecco la risposta: “certo un tale reddito non può essere una cosa miserabile, ma deve essere compatibile economicamente e finanziariamente con il bilancio dello Stato. […] Inoltre il suo ammontare deve essere indicizzato con l’inflazione”. Avanti, popolo, alla riscossione!

Per altro, la proposta riformista prevede il ritorno a un’attività lavorativa autonoma. Ora, l’aspetto essenziale del processo capitalistico è la produzione associata, socializzata, non la produzione artigiana, individuale, autonoma. Il ritorno alle forme autonome del passato (familiari, individuali) è la dimostrazione del carattere reazionario di quest’ideologia. Marx fa rilevare in modo netto il carattere di quella conquista storica: “Lo stesso macchinario può essere raramente impiegato con successo per ridurre il lavoro di un individuo: si perderebbe più tempo a costruirlo di quanto ne potrebbe essere risparmiato ad applicarlo. Esso è realmente utile quando agisce su vasta scala, quando una singola macchina può aiutare il lavoro di migliaia di individui.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-58, La Nuova Italia, vol.I, pp. 412-413).

Marx spiega ancora che l’origine della proprietà nella forma capitalistica e del titolo di valore (plusvalore) che l’accompagna sta nella produttività del lavoro. Il parassitismo della classe dominante e dei suoi servi nasce proprio dallo sfruttamento della forza-lavoro e dalla produttività che riduce sempre più il lavoro necessario, la parte salariale legata ai mezzi di sussistenza (e alle condizioni di vita sociali). La quota aumentata di plusvalore corrispondente si converte in nuovo capitale costante (fisso e circolante): ovvero, in proprietà capitalistica accresciuta e in un capitale variabile in una quota sempre più piccola rispetto al capitale costante. Quando l’intero mondo è stato colonizzato dalla forma capitalistica avanzata, quando un unico grande mercato del lavoro è sottoposto alla disciplina del capitale, quando il macchinario, la tecnologia, l’automazione, l’informatizzazione si sono accampate sull’intero pianeta, allora la produzione di proprietà (di plusvalore e quindi di parassitismo generale costituito dalla massa di servi, galoppini, sottoproletari al servizio della classe dominante) si è estesa in forma gigantesca, perché estesa è la messa fuori produzione dei lavoratori a causa dell’aumento della produttività. Nella visione riformistica, si ha il coraggio di affermare che, se questo reddito guadagnasse nel confronto con il salario, la liberazione dal lavoro salariato potrebbe essere possibile: la distribuzione di un assegno libererebbe dall’angoscia del cercare lavoro, dell’accettare un sussidio di disoccupazione, e il versamento ricevuto fin da piccoli potrebbe essere conservato e accumulato fino al momento in cui si decidesse di mettere in atto un lavoro autonomo, ovvero... tornare al mondo dei Puffi. L’imbecillità procede a rotta di collo perché si afferma anche, in piena libertà, che “il valore” di questa tessera dovrà essere fissato al livello del salario minimo garantito o dovrà avere come punto di riferimento la soglia di povertà! Non solo. Si pensa di trasferire in essa una parte dei fondi oggi assegnati alla protezione sociale: il reddito di cittadinanza si sostituirebbe allora ai meccanismi redistributivi e degli aiuti sociali attuali. Se questo è tanto, che il cielo ci salvi da queste rivendicazioni “rivoluzionarie”!

Produzione di plusvalore significa riduzione della parte di giornata lavorativa destinata al lavoro necessario al sostentamento dell’operaio e della sua famiglia, alla cure della prole e degli anziani, al fabbisogno adeguato alle condizioni sociali di esistenza, al di sotto delle quali c’è solo il titolo di povertà.

Nella società capitalista, questa riduzione del tempo di lavoro necessario per produrre maggior plusvalore impone condizioni generali di esistenza della classe proletaria sempre più gravose (creando, al polo opposto, estreme condizioni proprietarie di ricchezza), cui devono soccorrere il prolungamento della giornata lavorativa, l’aumento dei ritmi di lavoro, la reperibilità giorno e notte... Nella società socialista, la riduzione del lavoro necessario (non più commisurato al valore) a due, tre ore (cosa già oggi possibile, dato lo sviluppo delle forze produttive, il livello della tecnologia, ecc.) permetterà di aumentare il “tempo liberato”, dedicato al riposo, alle relazioni sociali e alle più alte facoltà delle nostre dotazioni di specie.

In questo neoriformismo (vecchia conoscenza: niente di nuovo nel fitto buio capitalista), c’è solo qualche pendolino da far oscillare davanti agli occhi allucinati dei clienti di Mirabilandia.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2013)