Corso del capitalismo mondiale

Pubblicato: 2013-09-27 21:44:59

Dopo aver affrontato, nel numero scorso di questo giornale, i criteri teorico-metodologici da seguire nello studio dell’economia capitalistica (tre lettere di Engels e il nostro testo “Il metodo del Capitale”), proseguiamo con questa trattazione relativa alle dinamiche delle “crisi di sovrapproduzione di merci e capitali” e ai loro effetti profondi, che si situano ben al di sotto delle loro apparenze di superficie. Si tratta di una premessa al successivo studio, che analizzerà in maniera più sistematica questi effetti, e soprattutto le loro conseguenze sulla condizione proletaria sul piano sia economico sia politico. E’ evidente infatti per noi comunisti che per la classe dominante la crisi di sovrapproduzione potrà trovare la propria “soluzione” solo attraverso un attacco diretto al proletariato mondiale: un attacco che si attua nell’immediato con lo sfruttamento sempre più intensificato della forza-lavoro a ogni livello e in prospettiva nella distruzione di questa stessa forza-lavoro sui campi di battaglia di un nuovo conflitto mondiale.

Per lo studio della crisi di sovrapproduzione e dei suoi effetti

Lo dicono anche gli economisti di grido, le firme dei grandi giornali economici internazionali, gli apologeti del capitalismo, che la crisi del 2008-‘09 non è stata come le altre e che l'unico raffronto storico possibile è con quella del 1929-’32, la crisi d’interguerra. Come nel '29 gli indicatori economici segnano profondo rosso e gli effetti della caduta continuano a manifestarsi. Come allora, la crisi è mondiale.

Se a quel tempo risparmiò la Russia (secondo gli indici “probatori” di Stalin), non fu certo per la presunta natura "socialista" della sua economia ma per l'esuberanza di un capitalismo giovane e "ermetico", ancora rivolto alla creazione di un mercato interno.

Oggi l'esuberanza dei capitalismi emergenti (Cina, India, Brasile, etc), pienamente integrati nei mercati mondiali e da essi dipendenti, non li ha preservati dal crollo degli indici di crescita, anche se la successiva ripresa li proporrebbe tuttora come potente fattore dinamico. D'altra parte, la loro piena integrazione nel movimento mondiale di capitali e di merci li espone alle turbolenze caratteristiche delle crisi. La rapidità del loro sviluppo comporta violente trasformazioni sociali, sfruttamento bestiale della forza lavoro, condizioni da "rivoluzione industriale" inglese, aprendo la strada all’esplosione futura di altrettanto violenti conflitti sociali. La stessa rapidità della crescita si smorza per gli andamenti decrescenti che caratterizzano la corsa all'accumulazione di tutti i capitalismi, senza eccezione.

Di contro, i Paesi capitalisticamente avanzati annaspano, chi più e chi meno, con tassi di crescita a pelo d'acqua o poco sopra, nonostante l'enorme liquidità erogata dalle banche centrali per sostenere credito ed economia. Borse e speculazione brindano alla rinnovata stagione di denaro facile e si preparano a gettarsi a capofitto negli investimenti più a rischio, come un tossicodipendente che necessita di dosi sempre maggiori. Euforia drogata, totale indifferenza di fronte al formarsi d’inevitabili nuove bolle speculative che domani faranno vacillare ancora l'intera impalcatura del credito, e tutto il resto: l'effetto delle pretese regolatrici del governo della moneta sul sistema economico è un'anarchia ancora più spinta e distruttrice. Le politiche statali, tutte fortemente interventiste e di stimolo alla produzione e al consumo, sono tuttavia condizionate dalle dimensioni del debito pubblico che per lungo tempo ha funzionato da stampella al procedere incerto dell'economia, col risultato di gravare sulla crescita futura, di sottrarre punti di Pil per onorare i debiti e rinnovarli.

La particolare situazione del Sudeuropa (Grecia, Portogallo, Spagna, Cipro, Italia), dove gli Stati non hanno mano libera nel gestire la politica monetaria, li espone maggiormente agli effetti devastanti della crisi su produzione e occupazione, dando ad altri Stati l'opportunità, finora, di attutire gli effetti sociali ed economici della crisi in casa propria. Disoccupazione, licenziamenti, chiusura di fabbriche, fallimenti, disperazione sociale riempiono le cronache quotidiane della maggior parte dei Paesi a capitalismo avanzato, mentre in altri la crisi per il momento colpisce meno duro, vuoi per politiche monetarie espansive senza precedenti per durata e dimensioni (Usa e Giappone), vuoi per una posizione dominante nei rapporti tra capitalismi di area (Germania).

La crisi capitalistica non risparmia nessuna nazione: essa si abbatte nei paesi della periferia con una virulenza senza pari, facendo saltare ogni equilibrio in precedenza raggiunto di natura economica, politica, sovrastrutturale. Il Medioriente e il Nordafrica, non possedendo strutture sociali capaci di attutire gli effetti violenti sul proletariato, sulle plebi e sulle classi medie, sono percorsi dal flagello della crisi: la forza, la violenza e la dittatura della classe dominante si abbattono in tutta la loro asprezza nella lotta di classe, nella guerra civile.  

Queste le manifestazioni fenomeniche più evidenti della crisi che attanaglia il capitalismo mondiale, manifestazioni che fanno pensare a una svolta storica nel suo corso. La nostra attenzione non è tuttavia rivolta alla cronaca dei suoi aspetti di superficie, ma a dare una lettura materialistica della crisi che ne confermi l'origine e l'ineluttabilità. Quello che sta accadendo, nella sua drammaticità, è una meravigliosa conferma del marxismo e della necessità di farla finita con un modo di produzione parassitario, dissipatore e distruttivo, che ha da tempo esaurito la sua funzione storica. Di per sé, i fenomeni di superficie, anche i più drammatici e violenti, non spiegano nulla: sono manifestazioni, forme in cui si presenta la crisi. Riferire questi fenomeni genericamente alla sovrapproduzione capitalistica o alla caduta tendenziale del saggio medio di profitto senza specificarne il significato, l'origine e il rapporto con i fenomeni stessi può portare a errori, ad amplificarne involontariamente la portata, in quanto, in un determinato momento, sono enfatizzati dall’informazione borghese, che li separa dalla fonte che li ha generati prima che si autonomizzassero.

E' il caso del capitale finanziario che sembra a molti svilupparsi indipendentemente dalla produzione, ma che in realtà continua a dipenderne, a prescindere dalle dimensioni elefantiache e dal potere che ha assunto. Nella lettura dei fenomeni che caratterizzano la crisi del modo di produzione capitalistico, è necessario sempre tenere presenti i fondamentali riferimenti teorici e di metodo.

E' Marx a chiarire: “Nell'esame dell'economia borghese, l'importante è questo: le crisi del mercato mondiale devono essere concepite come la concentrazione reale e la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell'economia borghese. I singoli momenti che si concentrano in queste crisi, devono quindi manifestarsi e svilupparsi in ogni sfera dell'economia borghese, e quanto più penetriamo in essa, da un lato dobbiamo sviluppare nuove determinazioni di questa contraddizione, dall'altro dimostrare le forme più astratte della medesima come ricorrenti e contenute nelle più concrete" (Marx, Storia delle teorie economiche, vol. II, Einaudi, 1958, p.543). 

Uno studio della crisi in atto dovrebbe quindi proporsi di registrare i principali fenomeni che la caratterizzano, collocandoli possibilmente nel percorso storico che li ha preceduti e in quello futuro, e di individuare in essi il ricorrere delle "forme più astratte" delle contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico.

Nel precedente numero di questo giornale, abbiamo riportato alcune lettere di Engels e il nostro lungo scritto “Il metodo del Capitale”, che puntualizzano quanto possa ampliarsi lo scarto sempre presente tra fenomeno e astrazione scientifica. La questione del metodo è il lato più importante del lavoro di Marx. Engels lo afferma in una lettera a W. Sombart dell’11 marzo 1895, quando, parlando del processo di livellamento dei saggi di profitto, scrive: “ E’ questo [del livellamento, N.d.R.] un punto assai interessante su cui lo stesso Marx non dice molto. Ma l’intera concezione di Marx non è una dottrina bensì un metodo. Non dà nessun dogma bell’è fatto, ma punti di appoggio per un’ulteriore indagine e il metodo per questa indagine. Qui c’è dunque da compiere una parte di lavoro che Marx in questo primo abbozzo non ha egli stesso elaborato” (cfr. F. Engels, Lettere sul materialismo storico, Iskra edizioni, Milano 1982, p.81). 

Il lavoro che il nostro partito ha svolto in passato (cfr. “Il corso del capitalismo mondiale nell’esperienza storica e nella dottrina di Marx”, Il programma comunista, nn.16-18, 22-24/1957, 1,2, 6-10, 23/1958; 1-7/1959), esaminando gli avvenimenti che si produssero nei “favolosi anni venti”, e seguendo quello stesso metodo negli “anni d’oro” del secondo dopoguerra, permise di antivedere la successiva crisi mondiale del 1974-’75.

Tornando alla profonda crisi attuale, e non escludendo che esista la possibilità di un'uscita temporanea che rimandi ancora ulteriormente lo scatenarsi di eventi catastrofici, il processo prevedibile è la sua trasformazione in un conflitto mondiale fra le grandi potenze o altrimenti, in presenza del Partito comunista internazionale, il suo sviluppo verso la rivoluzione proletaria. Determinare l’ora x non ha alcuna importanza: ha importanza invece ancora una volta ribadire il metodo d’indagine che conferma la sua capacità di leggere il modo di produzione capitalistico, unica via per comprendere i fenomeni sociali e politici.  

Lo studio delle crisi economiche mondiali, nel loro significato più ampio, implica la conoscenza del “contesto storico-sociale ed economico” in cui esse si svolsero – o meglio, detto nel linguaggio scientifico, lo “stato del sistema” che precede la crisi e la dinamica che lo investe nei suoi elementi determinanti. In esso occorre cercare le cause, che s’intrecceranno dialetticamente con gli effetti di diverso ordine e grado per tutta la durata del processo critico. Proprio nel corso delle crisi, il metodo dialettico, in quanto espressione della dialettica dei processi oggettivi, offre la propria massima potenza predittiva.

La dinamica di tali processi di crisi non è affatto lineare e uniforme nel tempo. In essa, gli effetti si trasformano in cause che attenuano/rinforzano/esaltano il processo inizialmente avviato; il percorso assume un andamento a spirale crescente che porta alla “trasformazione economica” del sistema. Rimandiamo ad altri lavori l’analisi del processo di “trasformazione rivoluzionaria”, nel quale le classi in lotta, che rappresentano il sistema in tutte le sue contraddizioni, giungono a uno scontro politico esplosivo che abbatte violentemente “lo stato di cose presente” e lo consegna nelle mani della classe vittoriosa e alla coscienza del partito di classe.

La crisi di sovrapproduzione è un evento acuto transitorio, i cui effetti in un certo numero di anni si manifestano come distruzione dell'energia precedentemente accumulata, nello stesso tempo in cui il sistema ricostruisce i mezzi materiali della propria ripresa: quest’ultima avverrà con le “stesse” modalità qualitative, ma non quantitative. Il nuovo processo di “prosperità”, riprendendo la sua dinamica, porterà ad una nuova crisi ancor più devastante. La crisi tende a liberarsi dai vincoli di valorizzazione-svalorizzazione del capitale entro cui si sviluppa la sovrapproduzione di merci e di capitali. Ancora Marx: “Dall’angolo visuale della produzione capitalistica qui si rivelano i suoi confini, la sua relatività, il fatto che esso non è un modo di produzione assoluto, ma soltanto storico, corrispondente a una certa e limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali della produzione” (Il Capitale, Libro III, cap. XV, pf3). La crisi di sovrapproduzione è dunque un rilascio distruttivo di energia accumulata nella fase di altissima prosperità (la pletora di capitali), che in un dato momento non è capace più di creare plusvalore né in forma assoluta né relativa (“sovrapproduzione assoluta”).

Sciolto l’ingorgo, il sistema prosegue – anzi accelera la sua dinamica verso una nuova accumulazione e una nuova crisi. La durata del ciclo, che Marx valutava a suo tempo nell’ordine di dieci anni, e che ebbe a indagare, è una grandezza che necessita d’essere compresa sulle tracce della sua stessa ricerca. Marx ci ha indicato la dinamica di un “ciclo normale” (schematizzandolo) che dalla prosperità conduce alla sovrapproduzione e dalla crisi di sovrapproduzione al ritorno all’epoca di prosperità. Ha affermato che le crisi di sovrapproduzione mondiali non sono mai permanenti: esse esauriscono la propria energia accumulandone altra positiva di più grande potenza. Importante è comprendere che la curva esponenziale di accumulazione del capitale a quel punto viene deformata dalle crisi di sovrapproduzione. Il processo distruttivo non può estendersi in un arco di tempo lunghissimo: negheremmo l’azione delle controtendenze di cui parla Marx, che portano a innalzare il saggio medio di profitto (che ha subito un rapido crollo nel corso della crisi) e che per questo permettono l’uscita dalla crisi stessa. Da quel momento, la caduta tendenziale del saggio medio di profitto proseguirà nella sua forma normale.

La misura sempre più piccola del saggio medio di profitto, la riduzione tendenziale della valorizzazione in rapporto al capitale investito, sono certamente il motore dell’accumulazione, ma nello stesso tempo sono causa dell’improvviso “colpo di frusta” delle crisi di sovrapproduzione mondiale. Ci saranno certamente effetti immediati ed effetti di più lunga durata, ma essi comprendono processi distruttivi che tenderanno a rimuovere le contraddizioni accumulatesi. Le “controtendenze”, pur agendo sempre nel corso della vita del capitale insieme alle tendenze, durante le crisi mondiali agiscono in uno “stato di emergenza” per riparare il corpo malato che ha subito un duro colpo.

La forma delle crisi, la loro durata, l’intervallo tra una crisi e l’altra, mutano nel tempo. Engels in una nota riassume il carattere della svolta che hanno manifestato le crisi del suo tempo: è il giusto atteggiamento che occorre mantenere sempre nell’analisi di processi oggettivi di così grande complessità. Alla domanda che egli si pone (“se si prepara un nuovo crack mondiale di veemenza inaudita”), i fatti storici dopo di lui hanno risposto senza lasciar dubbi. Le due guerre mondiali e la crisi d’interguerra hanno dato una risposta che va oltre la stessa immaginazione di Engels.

Riportiamo dunque interamente la sua Nota sulla ciclicità dell’economia capitalistica, apparsa come prefazione all’edizione inglese del Libro I del Capitale (1886): “Come ho già osservato altrove dall’ultima grande crisi generale è intervenuta una svolta. La forma acuta del processo periodico, con il suo ciclo finora decennale, sembra aver ceduto il passo a un alternarsi più cronico, più prolungato, distribuito in tempi diversi nei diversi paesi industriali, di fasi di ripresa economica relativamente brevi e fiacche e periodi di depressione relativamente lunghi e senza soluzione. Forse si tratta però di un prolungamento della durata del ciclo. Nell’infanzia del commercio mondiale, 1815-1847, si possono individuare cicli approssimativamente quinquennali, dal 1847 al 1867 il ciclo è decisamente decennale [1847-’57; 1857-’67 - N.d.R.]; ci troviamo forse nel periodo preparatorio di un nuovo crack mondiale di veemenza inaudita? Molti sembrano esserne i sintomi. Dall’ultima crisi generale del 1867, sono intervenuti grandi cambiamenti [sono passati quasi 20 anni dal 1867, quando Engels scrive questa nota, N.d.R.]. E’ stato lo sviluppo enorme dei mezzi di comunicazione – navi a vapore transoceaniche, ferrovie, telegrafi elettrici, canale di Suez – a creare veramente il mercato mondiale. All’Inghilterra che prima monopolizzava l’industria, si è affiancata tutta una serie di paesi industriali concorrenti; all’investimento di capitale europeo in eccesso si sono aperti in tutti i continenti territori infinitamente più vasti e multiformi, cosicché esso [il Capitale, N.d.R.] si distribuisce in misura molto maggiore, ed è più facile superare la sovraspeculazione locale. Tutto ciò elimina, o indebolisce seriamente, la maggioranza degli antichi focolai e occasioni di crisi. Nello stesso tempo sul mercato interno la concorrenza cede terreno di fronte ai cartelli e ai trust, mentre sui mercati esteri viene limitata dai dazi protettivi con cui, a parte l’Inghilterra, tutti i grandi paesi si circondano. Ma questi dazi protettivi non sono che gli armamenti per la finale campagna industriale generale, che deve decidere della supremazia sul mercato mondiale. Così ognuno dei fattori agenti in senso opposto a una ripetizione delle crisi racchiude il germe di una molto più potente crisi futura”.

Engels prospetta dunque una forma diversa del ciclo (cioè un alternarsi di crisi croniche, prolungate, distribuite in tempi diversi in paesi diversi), dovuta a diversi fattori: “forse un prolungamento della durata del ciclo”. Nell’esaminare il cambiamento, egli rimane su un piano strettamente oggettivo. Schematizzando, sono cause della svolta: 1) Lo sviluppo dei mezzi e delle vie di comunicazione; 2) Lo sviluppo ed estensione del mercato mondiale; 3) La nascita di nuovi paesi industriali concorrenti; 4) Gli investimenti di capitale europeo in eccesso, diretti all’estero; 5) Il fatto che la distribuzione del Capitale si svolge in un’area maggiore; 6) Il facile superamento della sovraspeculazione locale; 7) La concorrenza sul mercato interno che cede terreno in presenza di monopoli; 8) La concorrenza sul mercato estero che è limitata da dazi protettivi; 8) Il capitalismo più vecchio che s’indebolisce e le occasioni di crisi si fanno più rade; 9) Le fasi di ripresa che sono brevi e fiacche, i periodi di depressione lunghi e senza soluzione.

Ricordiamo che da più parti, negli anni di ricostruzione del secondo dopoguerra e durante la prepotente crescita americana della new economy, si affermava che una crisi come quella del 1929-‘32 non si sarebbe mai più ripresentata, essendo cambiato “lo stato sociale ed economico del capitalismo”: anzi, che le crisi appartenevano al passato. Ricordiamo ancora la sorprendente riscoperta degli economisti borghesi della crisi di sovrapproduzione del 1974-’75, che noi abbiamo chiamato “crisi storica”, e la massa di dubbi che suscitò la compresenza dell’inflazione e della stagnazione (stagflazione), dubbi che misero in movimento i massimi calibri dell’“economia teorica”, dai monetaristi ai keynesiani. A tutti costoro abbiamo risposto con Engels e Marx, i quali hanno sempre legato la sovrapproduzione di merci e di capitali in un'unità dialettica. Non diversamente furono accolte le bolle finanziarie e speculative conseguenti al boom della new economy nel 2000-01 e quelle immobiliari che innestarono la crisi su cui si sta sprofondando, interpretate come “superamento delle crisi tradizionali”.

L’analisi economico-sociale, in quanto possieda il carattere dell’oggettività, ha senso quando si riesca a connettere in un tutto, e alla loro reciproca influenza dialettica, le “leggi della dinamica del sistema economico” e la “dinamica delle classi sociali in conflitto”. Solo il materialismo storico-dialettico riesce ad accedere a una “scienza della storia”, i cui compiti solo una società non più divisa in classi potrà sviluppare in tutti i suoi aspetti.

Il lavoro di Marx nel Capitale, rimanendo sul piano della “critica dell’economia politica”, esula, come fa ogni indagine scientifica, da molte variabili secondarie – variabili che vengono introdotte solo successivamente all’enucleazione delle leggi fondamentali. Poiché, dato il sistema, i processi che lo investono tendono dinamicamente ad agire in forma allargata, non mutando il carattere qualitativo, il laboratorio della storia ci presenterà le prove sperimentali della dinamica delle crisi.

Il Capitale di Marx è lo strumento teorico scientifico che può darci le corrette indicazioni per capire la realtà e per intervenire su di essa. Esso può fornirci la rotta del viaggio verso il futuro attraverso la critica dell’economia politica borghese. Non si comprendono la realtà dialettica del valore-lavoro insito nelle merci e la creazione del plusvalore nel processo produttivo, se non si scompone la società borghese nelle classi che la formano e nella loro lotta politica. Se si considera il sistema come eternamente stazionario, conservativo o tendente all’equilibrio, ci si muove tra contraddizioni insormontabili. Se si utilizzano le teorie economiche della borghesia, che prendono le mosse dalla circolazione delle merci e del denaro, dalla cosiddetta legge della domanda e dell’offerta, dal consumo e dal bisogno, dalle relazioni dei prezzi delle merci, dalla teoria quantitativa del denaro, al più si dedurranno relazioni politico-economiche molto approssimative o del tutto false.

Alcune grandezze sociali ed economiche, alla luce della teoria marxista, permettono di conoscere correttamente il processo che si svolge sotto i nostri occhi. Il marxismo rivoluzionario è la dimostrazione dell’inevitabile catastrofe verso cui conduce l’economia capitalistica: è insieme il mezzo per affondarla e la soluzione storica dello sviluppo storico-sociale. Sulla base dell’indagine e dei suoi risultati, si potrà comprendere se l’attuale crisi economica possiede quei caratteri dirompenti che porteranno verso il conflitto mondiale o verso la rivoluzione proletaria, o, “normalmente”, verso un’uscita provvisoria, che rimanda la crisi a eventi ancor più catastrofici.

Nel prospettare i mutamenti avvenuti nella forma del processo critico, Engels mantiene integra la dinamica del corso del capitalismo scoperta da Marx. Lenin a sua volta esaminerà nel suo Imperialismo proprio quegli aspetti caratterizzanti il capitalismo finanziario che dal 1895 ha investito il mondo intero (monopoli, dazi protettivi, cartelli e trust, liberismo e protezionismo e colonialismo). La Sinistra comunista si è attenuta alla stessa legge generale dell’accumulazione capitalista, quando ha esaminato la crisi del 1974-’75. Seguendo lo stesso metodo, si cercherà di indagare ancor meglio la crisi attuale.

Con Marx ed Engels possiamo ancora affermare che le crisi mondiali (non le crisi secondarie intermedie spesso associate a bolle speculative, che seguono lo sviluppo della sovrapproduzione mondiale nella forma imperialista e che continuano a presentarsi con cadenze più frequenti) tendono a investire in forma estensiva e intensiva un’area sempre maggiore: la sincronicità assume un carattere determinato, l’intervallo temporale fra le crisi di sovrapproduzione mondiale aumenta proporzionalmente alla distruzione di merci e di capitali, e quindi il numero di crisi mondiali diminuisce, mentre il ritmo dell’invecchiamento del modo di produzione e l’estendersi del suo parassitismo seguono la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e la miseria proletaria s’accresce tanto più velocemente quanto più l’accumulazione del capitale s’inerpica verticalmente.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2013)