L'Egitto negli artigli della “democrazia sostanziale”

Pubblicato: 2013-09-27 21:36:32

E’ solo l’inizio: in Egitto, dopo le grandi manifestazioni a Suez, a Mahalla, al Cairo, il proletariato è ancora ‘sequestrato’ dalle forze interne della piccola borghesia, dalle sue illusioni democratiche, e, all’esterno, dai carri armati dell’esercito, che detta le condizioni di resa, di ritorno al lavoro, di pace sociale. Dall’interno e dall’esterno, è stato dunque bloccato il cammino che, per istinto, aveva portato lontano da piazza Tahrir, verso l’assalto ai palazzi del potere. Nel corso della sollevazione – non nella sua fase iniziale, pienamente proletaria, ma in seguito, nella forma spuria in cui si è svolta – si sono mescolate classi e sottoclassi. Tutto è rimasto in sospensione, per la mancanza di autentici obiettivi indipendenti che indirizzassero il proletariato, dopo la rivolta iniziale. La democrazia, la dignità, il diritto invocati non hanno nulla da offrire, non solo alle plebi affamate ma nemmeno a quella stessa piccola borghesia che tanto li invoca. Senza la forza organizzata della classe proletaria, senza il suo intervento dispotico e la sua dittatura, diretti e organizzati entrambi dal partito rivoluzionario, nulla può mutare

(“Il Medioriente e il Maghreb. Le forze proletarie hanno solo seminato la guerra di classe”, Il programma comunista, n.3/2011)

 

Riprendendo il filo: le lotte di ottobre-novembre 2011 e le elezioni del 2012

Nei mesi di ottobre-novembre 2011, quando il comando supremo dell’esercito presenta se stesso come unica alternativa al caos, unico garante della transizione ordinata, si riaccende il clima di lotta. Riprendono, infatti, le ondate di scioperi: le proteste degli insegnanti, i blocchi stradali degli operai, gli scioperi degli autisti del servizio pubblico, dei lavoratori della metropolitana (senza le mediazioni della vecchia organizzazione clientelare dei sindacati di Stato). Spinte dalle lotte spontanee, le manifestazioni, nutrite dalla vittoria sul “tiranno Mubarak” e dalle discussioni in assemblee pubbliche (il “che fare adesso?” è un circo d’illusioni: l'eterna discussione sulle alleanze future, la summa delle lamentazioni su chi ha contribuito alla caduta del tiranno e chi no), ritrovano la via della strada. Dalle periferie del Cairo e delle altre città e dalle campagne si tenta di contrastare la normalizzazione militare: ma il chiodo fisso è la paura che la democrazia giochi a favore dei Fratelli Mussulmani. Il turbamento è grande. Sono essi i candidati naturali al governo della “cosa pubblica”.

Com’era accaduto quattro anni prima nei luoghi di lavoro, dove i tessili e i braccianti si erano battuti contro la polizia e i sindacati statali che tentavano di impedire gli scioperi di massa davanti alle fabbriche e nei campi, la situazione si riaccende. In quella sua condizione, non paragonabile a quella occidentale (non esiste qui una solida aristocrazia operaia, né un operaismo di maniera), con la propria lotta, il proletariato egiziano fornisce energia a coloro che entrano in scena come protagonisti, ma questi non possono oggettivamente che impelagarsi in soluzioni riformiste, democratiche (laiche o religiose ci è indifferente). Solo la loro sconfitta potrà far affiorare le radici profonde delle contraddizioni sociali capitalistiche, che hanno carattere internazionale. Il processo diverrà veramente rivoluzionario, esplosivo, solo dal momento in cui la direzione di classe (il partito rivoluzionario) si presenterà in tutta la sua potenza. E questo non può accadere senza che emergano prima, dal movimento stesso della classe, oggi assenti, le avanguardie di lotta proletarie nutrite di un'esperienza internazionale, capaci di mostrare i primi grandi squarci del futuro. Il magma indistinto della lotta spontanea, in cui sguazzano d’imperio i “detriti del popolo”, non porta fuori dalla confusione. Si chiamino Fratellanza mussulmana o salafiti o copti o laicamente liberali, democratici, radicali, socialdemocratici, o stalinisti, ribelli a titolo personale o coordinamenti, questo fritto misto puzza dalla testa. Se non esprime pienamente la propria forza e il proprio indirizzo, il “movimento di classe” non può neutralizzare questa massa informe e imporre la propria direzione, che non nega la lotta immediata, ma la disciplina, la organizza, la orienta verso una finalità di classe. Il migliaio di cadaveri della prima rivolta di gennaio si somma così alle decine del secondo tentativo di fine anno, teso a spingere più avanti il processo. Come l’impulso iniziale dato dalle lotte per il pane, dagli scioperi dei tessili di Mahalla, dalle lotte nei campi non poteva spostare, nell’attuale isolamento generale, la direzione delle lotte dal piano economico a quello politico di classe, così non può farlo adesso, a novembre, “il movimento”, immerso nella commistione d’interessi.

Anche la seconda tornata di rivolta, dunque, nasce dalle stesse contraddizioni economiche, dalla crisi economica che si diffonde dalle metropoli alle periferie. Il proletariato egiziano è ancor più alla fame, le fabbriche sono in buona parte ancora chiuse, la produzione industriale è crollata con il Pil, il tentativo di riportare il proletariato al lavoro è fallito, l’economia è bloccata, la piccola borghesia è costretta a oscillare da una parte all’altra dei settori sociali dominanti, seguendo le promesse che le sono fatte dalle più forti e stabili organizzazioni politiche, laiche o religiose. L’ideologia democratica nelle sue varie forme si fa avanti e copre con un mantello di piombo lo spirito della lotta.

Alla vigilia delle elezioni per la Camera bassa (Assemblea del Popolo), in attesa della seconda tornata per la Camera alta (Consiglio della Shura) che finirà con le elezioni presidenziali di giugno 2012, il 19 novembre scoppiano i disordini. Un’esigua minoranza di disperati si scontra con la polizia e con l’esercito e assalta il Ministero degli Interni del Cairo e vari commissariati in diverse città, tra cui Alessandria e Ismailia; poi prosegue, seguita da migliaia di dimostranti, e resiste per diversi giorni agli attacchi, assediata all’interno di piazza Tahrir. Il grido è quasi unanime: “Che il governo civile si dimetta, che il Consiglio militare esca di scena, che si sposti la data delle elezioni”. All'improvviso, si dissolve con la lotta l’inno alla famosa “democrazia ritrovata”: si scopre, in ritardo, che nulla è cambiato, che l’estromissione del dittatore non è servita a nulla, che la primavera era stata l’inizio dell’inverno. La paura di alimentare la rabbia delle masse attaccando con mezzi blindati la piazza consiglia l'esercito a privilegiare scontri episodici. I violenti attacchi sui gruppi sparsi della massa, prigioniera della piazza, il lancio di lacrimogeni e di gas simili a quello nervino, gli spari ad altezza d’uomo, i molti morti, le migliaia di feriti e di arresti, mostrano in piena luce quel che era nascosto dalla fine di gennaio. Alla fine, un piccolo arretramento tattico del potere, ovvero lo scioglimento del Governo militare tout court, calma gli animi. Il cosiddetto “Esecutivo di salvezza nazionale”, nominato al posto del primo, è tuttavia ancora una creatura militare; il capo del Consiglio supremo dell’esercito promette il suo ritiro, ma rilancia un referendum sulla presenza dell’Esercito come garante della Costituzione e come forza autonoma nella gestione dei suoi immensi affari economici civili e militari. Niente è cambiato, ma la creazione di un nuovo governo alimenta nuove illusioni.

Che la repubblica democratica laica, come scrive Lenin, sia il miglior involucro per garantire gli affari della borghesia non vuol dire che Sua maestà il Capitale disdegni tutte le altre forme di governo. Nessuna forma politica puzza e puzzerà quando serve gli interessi di classe della borghesia. Anche stavolta le cosiddette masse si erano attestate a decine di migliaia in Piazza Tahrir, come se da quella convocazione potesse nascere una direzione della lotta e non la babele delle lingue e degli interessi contrastanti. Solo la lotta può sciogliere i legami, far emergere gli interessi contrastanti e la loro gerarchia: ma la lotta non si è mai spinta oltre la massiccia indignazione. Gli interessi proletari, pur maggioritari, stanno molto in basso nella piramide sociale. Senza la direzione del partito di classe, l’energia proletaria è incanalata a tutto favore dei gruppi piccolo-borghesi sovrastanti, è gestita come pacifismo, riformismo, democraticismo – tutt'al più ribellismo di diverso ordine e grado. La condivisione di uno stesso fronte è la peggior scelta tattica per un proletariato che voglia condurre la propria lotta. Era avvenuto, dunque, un cambio di governo: altro che “seconda rivoluzione”! I Fratelli mussulmani in quei giorni di novembre sono i più fervidi alleati del Consiglio militare nel sostenere più d’ogni altra forza politica l'urgenza delle elezioni, quelle elezioni che deprimeranno la spinta stessa di lotta. Quel partito, un tempo ai margini del potere, in quei mesi divenne il pupillo dei militari: la sua mano legale.

Che la democrazia (lo abbiamo detto) potesse riportare la pace era solo un’illusione. La piccola e media borghesia produttiva, che aveva cavalcato la lotta del proletariato e di ampi strati di precari, disoccupati e declassati, non poteva ottenere una transizione rapida e indolore, come avrebbe voluto per riprendere gli affari. La classe dominante con le sue sottoclassi aveva nell'esercito il suo vero strumento di direzione, controllo e repressione. E l'esercito è intervenuto in pieno assetto di guerra per dare continuità al comando dello Stato sulla società; insieme ai Fratelli mussulmani si diede a controllare che la “democrazia formale” (le elezioni) fosse rispettata… con ordine: quella “sostanziale” (la dittatura di classe) era assicurata.

A proposito del ruolo dell'esercito, sempre nell'articolo del 2011 citato in apertura così scrivevamo: “Costituito da una massa di centinaia di migliaia di uomini armati, che difende le condizioni per cui ricchezza e povertà si trovano ai lati opposti della scala sociale, cioè la proprietà dei mezzi di produzione, dei prodotti, delle condizioni di lavoro, quest’esercito non poteva passare dalla parte degli insorti, come avviene nelle rivoluzioni e nelle insurrezioni […] Nessun esercito potrebbe assicurare la gestione economica della società: ma gli eserciti che gli Usa hanno diffuso nel mondo intero come colonie di affari, di contractors, di 'aiuti umanitari', di geni civili (infrastrutture, alberghi, terreni) possono farlo. Si tratta di un’economia che garantisce posti di lavoro e distribuzione di risorse alimentari, un settore che, insieme con quello della pubblica amministrazione e dei servizi, promuove redditi non indifferenti. La colonizzazione sociale imperialistica (privatizzazioni) in stretta connessione con la gestione statale di molti settori dell’economia ha creato in ambito militare uno stato economico nello Stato politico. Quest’obesità ha impedito all’esercito di essere uno strumento immediato di repressione. E tuttavia la sua esistenza è fondata sulla repressione dei moti di classe e non passerà molto tempo perché entri in scena (le centinaia di arresti e di processi nel corso degli avvenimenti e subito dopo, nascosti volutamente dai media occidentali e locali, confermano tale funzione)”.

Una lunghissima stagione di elezioni attendeva dunque i protagonisti della cosiddetta “primavera araba”. La prima metà del 2012, fino alla vittoria elettorale dei Fratelli Mussulmani e all’elezione di Morsi, è il tributo collettivo alla democrazia. La prima e la seconda rivolta non hanno messo fine alla dittatura militare: hanno solo tolto di mezzo il rappresentante ufficioso, Mubarak, mostrando il vero volto, quello ufficiale, di chi reggeva politicamente lo Stato, un esecutivo militare. Il movimento radicale democratico, ridimensionato, ha “deciso” a quel punto una ritirata (che in Occidente conosciamo bene) affidandosi alle elezioni. Il grande circo elettorale ricaccerà sotto il tappeto tutta la spazzatura che il moto di classe prima e poi quello piccolo-borghese, in due tempi, erano riusciti a portare in superficie. Il “governo di salvezza nazionale” curerà che le elezioni verranno svolte nel modo migliore e tutta la società civile si farà carico della “pace sociale”. La lotta proletaria non si era spenta: la ripresa della lotta di novembre lo dimostra. La democrazia formale nelle elezioni non metterà a tacere lo smottamento sociale. La crisi di sovrapproduzione avrebbe fatto emergere nuove colate laviche: per il momento la lotta proletaria è stata incastrata nella morsa della democrazia.

 

Luglio-agosto 2013: la democrazia “manu militari”

Nelle manifestazioni oceaniche e indignate delle classi medie radicali tenutesi a fine giugno 2013, le forze proletarie sono rimaste inglobate al “fronte della democrazia”, all’alleanza spontanea di masse conservatrici e riformiste. Quel “fronte”, che ha accolto con grande entusiasmo il golpe dell'esercito, autentico colpo di Stato della borghesia, che ha imposto il suo comando sulla società liquidando con uccisioni e arresti prima la direzione politica dei Fratelli Mussulmani (vincitori delle elezioni) e poi imponendo il pugno di ferro, lo stato d’assedio, il coprifuoco sulle masse è la dimostrazione di quel che abbiamo sostenuto fin dal primo momento, quando il movimento radicale non issava ancora con tale entusiasmo gli stendardi nazionali.

Non è un caso che il “fronte di salvezza nazionale” sia riuscito a saldare, le proprie mille contraddizioni, gli inevitabili contrasti interni proprio per impedire che si costituisca materialmente la spinta direttiva e pericolosa delle lotte proletarie che stanno ancora investendo il Paese e che cercano una direzione di classe. Nella sua eterogeneità, compresi i lealisti del vecchio regime, il “fronte” ha riconosciuto l'Esercito come l’unico garante del momento storico e questi ha battezzato, come legittima, l'esuberanza della giovane opposizione pacifica e riformatrice riconoscendone la matrice borghese.

La rivolta del 25 gennaio 2011, con la caduta del “tiranno” Mubarak, aveva quindi dato solo l’ultima spinta agli equilibri ormai consumati di un Egitto al collasso. Un nuovo governo si era sistemato attraverso le elezioni democratiche: il governo dei Fratelli mussulmani, frutto di un accordo labile e transitorio con l’Esercito, foraggiato dal grande capitale americano (1,4 miliardi annui), regista e tutore della transizione, che attraverso il suo Consiglio supremo controlla le piazze, i palazzi del governo e le banche. Quell’accordo è saltato il 3 luglio 2013. Le due forze politiche, alla cui base era possibile un vasto consenso per la materialità dei loro sistemi di welfare, sono entrate in rotta di collisione. Che cos’ha impedito che queste due forze, una che da sempre ha sostenuto militarmente ed economicamente il tiranno detronizzato (una burocrazia strutturata ed efficace dai tempi di Nasser) e l'altra che l’ha “sostenuto” socialmente, potessero convivere appoggiandosi a vicenda? Quali altre forze politiche borghesi potranno assicurare una stabile governabilità sociale?

Dal sostegno a Mubarak all’appoggio alla giovane primavera araba “sotto scorta militare”, dal sostegno alla fonte vivificatrice della democrazia, le elezioni, dall’aiuto ai Fratelli Mussulmani sotto l’onnipresente tutela dell’esercito, dall’avallo al Golpe militare, le “Grandi democrazie,“ madrine di dittatori, di democratici, di radicali, di islamisti, di militari golpisti e dell’attuale Governo di salvezza nazionale, hanno potuto condurre per mano, dirigere, assecondare quel processo conformista la cui unica e sola direzione oggettiva è stata di bloccare violentemente il movimento proletario iniziato con lotte economiche straordinarie. I personaggi di superficie, le masse in movimento intorpidite da dosi massicce di oppio democratico e religioso hanno riempito la scenografia. Il proletariato egiziano (ma soprattutto quello internazionale) pagherà duramente il ritardo della presa di coscienza classista.

Il movimento così ampio di masse gode del limo fecondo che la lotta del proletariato inizialmente ha lasciato e continua a lasciare – una lotta che esalta e spinge verso la ribellione generosa e solidale contro lo stato borghese e per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro, ma che nelle classi medie e nelle plebi serve solo a ingigantire le illusioni piccolo-borghesi, inneggianti alla “fine dei dittatori”, alla “dignità nazionale ritrovata”, ai “blindati dell’esercito” (“gloria dell’Egitto!”), “alla fratellanza religiosa” rilanciandole a un livello ancor più ampio.

Come non c’era stata una “primavera”, così in quest’ultimo 3 luglio 2013 non c’è stato altro che una gigantesca adunata nazionalista mossa contro i Fratelli mussulmani (22 milioni di consensi sotto la regia dei Tamarrod, i ribelli), rei di non aver fatto che aggrapparsi alle poltrone, alimentare la corruzione, ampliare le droghe religiose, imporre il marchio proprietario maschile sulle donne: ma soprattutto di non aver saputo rilanciare un'economia ormai spenta. E come avrebbero potuto?

E che cos'altro accadrà dopo il bagno di sangue di un migliaio di oppositori al regime e al suo governo che ha insanguinato strade e piazze dal 14 agosto se non la riconferma della stessa corruzione e della stessa impotenza? Nessun accordo economico potrà risolvere la crisi politica e sociale, oltre che economica, con nuovi crediti: la situazione è destinata a incancrenirsi. I prestiti miliardari servono solo a concordare patti di alleanza, che si scioglieranno con la stessa rapidità con cui si sono o saranno stipulati. Le pressioni reali pretenderanno che il tasso di sfruttamento del proletariato torni a crescere, che il capitale torni ad accumularsi. Alle assisi del Fondo monetario internazionale, delle banche mondiali e alle hall delle monarchie del Golfo che promettono una montagna di miliardi, un altro paese si aggiunge dunque a quelli che andranno piatendo con il cappello in mano. Attorno ai crediti già inesigibili si rimisureranno le alleanze di guerra presenti e future in tutto il Medio Oriente. Il fronte opposto è già in allarme. Libia, Siria, Irak e Afghanistan sono già trasformati in sepolcri imbiancati. Il Libano è già sotto attacco di mercenari, Gaza e Israele pronti a dar fuoco alle polveri. L’Iran aspetta che il Fronte di salvezza Imperialista mondiale attacchi le sue mura.

Soffiano altri venti di guerra. Tocca al proletariato mondiale disperderli una volta per tutte.

 

Partito Comunista Internazionale

 

(il programma comunista n°05 - 2013)