Segnali di lotta proletaria in Europa: la lotta dei minatori delle Asturie, lotte all'Ilva di Taranto

Pubblicato: 2012-09-18 19:44:11

La lotta dei minatori spagnoli

Quella dei minatori spagnoli è la più recente manifestazione di lotta del proletariato europeo nel corso di questa crisi di sovrapproduzione di merci e capitali: i “musi neri”, che in passato sono stati protagonisti indiscutibili di mille battaglie pagando prezzi spaventosi dentro e fuori le viscere della terra, hanno dato simbolicamente e fisicamente un forte segnale ai loro fratelli di classe. La “Marcha negra” dei 300 minatori dell'Asturia, dell'Aragona e della Castilla y Leon è stata un evento importante: percorrendo a piedi il territorio spagnolo per 19 giorni (circa 400 km fino a Madrid), essi hanno mostrato quale è la via per confrontare il capitale e la classe dominante: la lotta di strada, la lotta dentro le città, nel cuore politico, sociale e amministrativo della borghesia. La “civiltà” capitalista è la più brutale e violenta forma di organizzazione del lavoro di tutta la storia umana. Questa è, dunque, la risposta che in questo frangente il proletariato spagnolo ha dato all’attacco che sta subendo, che subisce da sempre: una modalità che deve essere tenuta viva ed estesa a tutti i comparti proletari!

La rabbia e la determinazione di lotta dei minatori (dopo 45 giorni di sciopero nei pozzi!) hanno avuto dunque il battesimo di fuoco nel centro di Madrid, al Paseo de La Castellana, davanti al Ministero dell’industria (divenuta zona transennata invalicabile), confrontandosi con la carica di centinaia di agenti in tenuta di sommossa, appoggiati da blindati: i violenti attacchi, con lancio ad altezza d’uomo di lacrimogeni e micidiali pallottole di gomma, hanno causato decine di feriti (otto gli arrestati). Migliaia i lavoratori che sono scesi in lotta a fianco dei minatori, lanciando slogan anche contro i dirigenti sindacali dell'Ugt (il sindacato vicino ai socialisti del PSOE), “incapaci di risposta nei confronti del taglio degli aiuti statali e in mancanza di qualsiasi politica di riconversione economica”. Alle violenze, i minatori hanno risposto con coraggio per diverse ore, com’era già accaduto nelle Asturie con blocchi stradali e barricate, lanci di pietre e di petardi. 

Lo scontro era inevitabile dopo l’attacco politico “senza se e senza ma” portato dal Governo: “Non ci sarà alcuna revisione dei tagli previsti per il settore minerario!”. La compensazione per mantenere alcuni siti viene ridotta da 311 a 101 milioni di euro. La decisione del governo Rajoy è drastica: si tratta di tagli del 63% agli aiuti statali (nel settore del carbone), richiesti dalla grande borghesia europea che pretende, per ridurre il deficit statale spagnolo, la loro totale eliminazione entro il 2018. Una vera dichiarazione di guerra: sussidi ridotti alle famiglie, chiusura delle miniere, almeno 47 nelle cinque regioni minerarie, per 8.000 lavoratori e 30.000 dell’indotto.

Le settimane precedenti, prima della marcia verso la capitale, erano state molto intense (con turnazioni di scioperi della fame dentro i pozzi), tra la solidarietà, l’incoraggiamento e il sostegno di centinaia di lavoratori nei siti minerari, proseguiti lungo il percorso e poi all’arrivo a Madrid alla Puerta del Sol, dove li hanno raggiunti altri minatori provenienti da Paesi Baschi, Castiglia, Aragona, Leon. Davanti e dietro ai minatori, sta un destino vecchio come le miniere. Una quota sempre più ristretta di carbone nazionale (8,5 milioni di tonnellate) di fronte ai 16-20 milioni importati e un numero di minatori che dai 52.910 del 1985 si ridurrà a zero dopo la cura da cavallo cui sarà sottoposto tutto il settore.

Per che cosa stanno lottando i minatori? contro la chiusura delle miniere per conservare la loro unica fonte di sussistenza, il salario, e un posto di lavoro. Stanno lottando generosamente contro un processo irreversibile, lo stesso in tutto il mondo. La disoccupazione dall’inizio della crisi è salita rapidamente in quattro anni dal 9,63% (2008) al 24,6% della forza lavoro totale e sfiora il 51% dei giovani in età di lavoro. Il Pil, dal 2,7% (2008) è sprofondato a -4.5% (tra il 2009 e il 2010), è ritornato positivo nel 2011 (1%), per ridiventare negativo nel 2012 (-2,7%): le prospettive sono di un’ulteriore discesa all’inferno.

Non è possibile un capitalismo senza crisi: è questo che i proletari devono rapidamente imparare. Mentre il mondo del capitale è preso nel vortice della crisi finanziaria (in particolare quello spagnolo, con aumento della liquidità, rifinanziarizzazione delle banche, indebitamento pubblico, crollo dei mutui immobiliari: espressioni tutte della sovrapproduzione di merci e di capitali), un attacco d’inaudita potenza viene portato al proletariato. La Guardia Civil interviene per stabilire l’Ordine del Capitale: il proletariato deve sottomettersi al comando della borghesia, che non ha certo bisogno di sottoporsi al giudizio democratico della classe oppressa. Ha forse il proletariato posto sul piatto della bilancia storica la propria forza organizzata? Fin quando non comprende la propria condizione di esistenza, esso dovrà subire altre sconfitte. Esiste forse, nei settori d’avanguardia, l’obiettivo dell’attacco allo Stato, dell’organizzazione della lotta, della necessità di uno Stato maggiore della classe? No, non gli passa nemmeno dall’anticamera del cervello. Il partito della classe operaia? Uno scandalo! Piacciono all’immediatismo la scaramuccia, la barricata, il brivido del passamontagna calato sul viso. Questa è l’aria conservatrice che si respira ancora, micidiale più del grisu, a quasi un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre: e i minatori, ascoltando il piano “lacrime e sangue” di 65 miliardi del Governo, vanno cercando un’illusoria via di scampo nella “riconversione produttiva”, per allontanare lo spettro del futuro. “Non si possono chiudere le miniere dall’oggi al domani lasciando a casa migliaia di lavoratori in regioni dove la disoccupazione va crescendo ormai da decenni”, ripetono i lavoratori intonando il canto delle sirene sindacali, che vagheggiano il sogno reazionario di una “comunità condivisa” di sfruttati e sfruttatori (se non – peggio ancora - la “difesa della patria”). Nello stesso giorno, viene diffuso il piano dei tagli: insieme a essi, via le tredicesime per gli impiegati (che potranno recuperarla dal fondo pensioni nel 2015), meno giorni di ferie, riduzione del 10% del sussidio di disoccupazione, riforma del sistema pensionistico (pensione a 67 anni per gli uomini). La risposta delle CC.OO. (le comisiones obreras, tradizionalmente legate al Partito “comunista” spagnolo) che hanno indetto lo sciopero è il solito chiacchiericcio rituale: “Si tratta di un’aggressione senza precedenti ai diritti dei lavoratori, dei disoccupati e dei lavoratori del pubblico impiego, un’aggressione che colpisce le fondamenta della Costituzione e dunque la democrazia”: l’opportunismo non si smentisce mai, a ogni latitudine.

Sì, è un’aggressione, ma un’aggressione che colpisce i proletari, e non la Costituzione, non la democrazia, che proprio sui fondamenti dello sfruttamento della nostra classe sono state istituite. Senza la solidarietà dei lavoratori lungo il percorso, senza l’accoglienza generosa di migliaia di lavoratori a Madrid, la marcia si sarebbe trasformata in una festa da stadio: nessuno sciopero generale infatti è stato indetto per contrastare apertamente la forza della classe dominante. Il contrasto con le autorità sul percorso cittadino da seguire rischiava di far saltare la manifestazione, ma davanti alle transenne, poste ad argine dell’area della finanza e delle banche, la rabbia proletaria non ha avuto esitazioni, s’è espressa in tutta la sua pienezza. Nel corso della lotta dei minatori, “l’indignazione degli indignati” ha taciuto del tutto, limitandosi a… mettersi a disposizione della lotta: l’unico ruolo positivo che le è consentito di giocare.

La lotta dei metalmeccanici di Taranto

La dura protesta dei lavoratori dell’Ilva di Taranto, il 2 agosto, è stato un importante atto di “bonifica politica” compiuto da una minoranza impossessatasi di uno sciopero di 24 ore indetto dalle corporazioni sindacali riunite – sciopero che serviva a mascherare ancora una volta la trama delle prossime intese (alla luce e sottobanco) in attesa del verdetto del Tribunale del Riesame e a coprire quelle vecchie, strette da governi, sindacati e dirigenti dell’azienda, accusati in questi mesi di “disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose”. Scoperchiare la menzogna che si nascondeva dietro lo sciopero è stato così un atto di “utilità sociale”: bene hanno fatto i lavoratori a infrangere il ricatto che da sempre sospende i loro corpi alla corda del lavoro salariato “a ogni costo”, un cappio che essi stessi, dietro la regia sindacale e politica, hanno stretto attorno al proprio collo, accettando di tutto, facendo finta di niente, chiudendo gli occhi. Nessuno si aspetta che, oltre ai dirigenti d’azienda, vengano ora accusati degli stessi reati ministri, sindacalisti, dirigenti statali e sottoproletariato, appositamente istruiti e profumatamente pagati: la magistratura rappresenta l’Ordine borghese per eccellenza.  A questo punto, non possiamo che rimandare il conto, se non possiamo farlo prima, alla dittatura del proletariato.

Dopo un percorso lunghissimo di distruzione di ogni forma vivente, umana e ambientale, dopo anni e anni di scambio di favori, la realtà della crisi ha portato allo scoperto la merda su cui si reggeva l’Italsider statale e su cui affonda oggi l’Ilva privata, sua gemella. 174 decessi per tumore accertati in sette anni nei quartieri di Tamburi e Borgo a ridosso dell’Ilva, ci racconta Il Sole-24 ore. Altre valutazioni della perizia commissionata dalla magistratura affermano che due persone al mese muoiono uccise da sostanze chimiche prodotte da inquinamento industriale e che lo sviluppo dei tumori allo stomaco è fatto normale tra i lavoratori dell’Ilva. E conclude: “L’esposizione continua agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte. I modelli di analisi messi a punto hanno consentito di stimare quantitativamente il carico annuale di decessi e di malattie che conseguono all’esposizione all’inquinamento”.

 La tensione accumulatasi il 2 agosto attorno al palco dei soliti tre bonzi sindacali è solo una piccola storia: il corteo dei contestatori (operai dell’Ilva, ecologisti, cittadini libero-pensatori, Cobas, centri sociali, precari) s’incunea tra gli altri lavoratori venuti a sentire le castronerie sindacali (ma è solo un caso che vengano lasciati passare?) e “conquista” il palco. In realtà, a quanto si viene a sapere qualche giorno dopo i fatti strombazzati dalla stampa (41 le denunce intanto pervenute), i responsabili chiedono di parlare dal palco: ma gli viene negato. La piazza nella quale hanno parlato i tre compari è quasi vuota e ora sta parlando Landini. In piedi su di un’Apecar, i contestatori tengono il comizio, mentre i tre scappano, scortati dalla polizia. Stanchi di fare i paraculo dell’azienda e dei sindacati, i lavoratori seguono e accolgono il comizio con applausi. Il resoconto apparso il 9 agosto è limpido: “Siamo liberi, dicono i contestatori, perché vogliamo spezzare le catene del ricatto occupazionale, nella busta paga devono mettere anche la voce ‘tumori’”. Apriti cielo! La stampa del giorno dopo parla di tafferugli, di lanci di uova, di sconvolgimento da fumogeni, un’Apecar che penetra come un ariete (!), la polizia che carica. Le rievocazioni si sprecano: da Lama (1977) alla Pantera (1990), il mondo si riempie di “provocatori”. Ma nel farlo le organizzazioni sindacali e la stampa (tra cui Il Sole-24 ore) svelano la propria appartenenza alla cupola delle cupole che li tiene in vita: lo Stato e i Sig. Riva.

Era prevedibile che i due cortei, partiti da luoghi diversi, si sarebbero “incontrati” e che la contestazione non sarebbe sbucata dal nulla: la rabbia, strisciando da decenni sottoterra e vergognandosi di apparire, è finalmente venuta alla luce, anche se, da sola, non potrà pareggiare i conti in sospeso con un passato delinquenziale. Se, nel corso delle assemblee di fabbrica prima dello sciopero, le due organizzazioni Fim e Uilm, addette da sempre al crumiraggio nell’incoscienza più totale dei lavoratori aderenti, hanno osato proporre la solidarietà al padrone Riva, e per questo sono state fischiate, si comprende a quale livello è arrivato il fango.  

La “coscienza civile” offesa da tanto malaffare si esibisce nelle parole del magistrato: “Di fronte a reati così gravi c’è una sconfitta di tutti. Significa che non hanno funzionato a dovere la politica e gli organi amministrativi di controllo”. Ma no! hanno funzionato benissimo! Il profitto è stato strappato a viva forza dai corpi bene educati (e in parte castrati) dei proletari, i quali non hanno nemmeno “respirato” per non farsi cacciare dalla fabbrica, costretti, popolazione compresa, al silenzio eterno. I morti di cancro non riescono nemmeno ad agitare i sogni dei responsabili: non potranno venire a testimoniare nei tribunali dei vivi, che ancora soppesano il dilemma “salute o posto di lavoro?”, “morire di cancro o morire di fame?”. La produzione è andata avanti fino alla sovrapproduzione: il mostro più grande (e modernissimo) d’Europa ha divorato tutto attorno a sé e continua ancora a vivere, elargendo diossina e benzo(a)pirene ai miserabili della terra, e interessi, rendite, mazzette a borghesi e loro servi. I progetti per le scuole, gli stages, le visite guidate, le associazioni dei veterani, confermano l’impegno della ditta Riva (Olivetti, Agnelli, Falck, Marzotto, Caltagirone, Costanzo, etc., etc., dalle Alpi alle falde dell’Etna) nell’indottrinamento sociale: nient’altro che fascismo e democrazia, una coppia vincente! Non solo: la protervia è così grande che il presidente attuale dell’Ilva (l’ex prefetto di Milano, si badi bene: non è casuale) ha minacciato che, se dovessero essere chiuse le aree a caldo e condannati i dirigenti, non solo il destino dell’Ilva di Taranto sarebbe segnato, ma anche quello dell’Ilva di Genova, di Novi e di Racconigi –  ovvero, di tutta la filiera dell’acciaio.

La notizia che arriva poi fresca fresca è che i sei reparti caldi sequestrati rimarranno aperti al risanamento interno e ambientale, ma i signori Riva rimarranno chiusi agli arresti domiciliari… nelle loro ville: il  Tribunale del Riesame allontana dunque lo spettro della chiusura che si era temuto (un sospiro di sollievo!). Anche Landini della Fiom si dice soddisfatto (non vi diciamo degli altri due, tre, quattro capetti sindacali): che non si perda tempo, che gli investimenti crescano e i posti di lavoro si moltiplichino alla grande, mettendo insieme, ovviamente, salute e posti di lavoro. L’Amministratore Delegato, da controllato, diviene per il Tribunale il “controllore giudiziario” (?!) e, in quanto tale, deve garantire la sicurezza degli impianti, la realizzazione delle misure tecnologiche per evitare i pericoli e monitorare le emissioni inquinanti. Bravi! Lasciate dunque che sotto l’occhio attento del “controllore giudiziario”, il profitto sgorghi dalle cokerie, dagli altiforni, dai laminatoi, e fluisca al signor Riva assiso nella sua poltrona (gli utili degli ultimi anni si aggirano intorno ai due miliardi di euro). La cosa che turba l’AD, a parte naturalmente i 5.000 lavoratori a rischio di licenziamento!, è come fare ad aumentare il ciclo produttivo nello stesso tempo in cui dovrà procedere ai controlli. L’idea che gli frulla in testa (come lascia intendere il Sole–24 ore dell’8 agosto) è di lasciare a casa un bel numero di lavoratori a rotazione in cassa integrazione. Riducendo l’attività produttiva? Ohibò, non è possibile, spiegano i dottori in marketing occupazionale (i sindacati): se si riduce proporzionalmente l’attività in ogni settore, potrebbe andare bene, ma non si può chiudere un settore e gli altri tenerli attivi; bisogna… mixare fra soluzioni diverse.

Intanto, la vocina del Capitale sussurra: “1) risparmia sui salari mettendo in cassa integrazione una parte dei lavoratori e spiega che lo fai per loro (gli operai non resteranno inquinati); 2) spingi contemporaneamente la produzione al massimo d’intensità lavorativa al fine di ‘esaminare l’inquinamento alla sua massima potenza di emissione’, dando a intendere che ti servono quei valori straconosciuti; 3) chiedi il denaro per le nuove tecnologie (90 milioni li hai già in riserva da sfruttamento precedente, 520 ti sono promessi dalla regione Puglia, lo Stato potrebbe darti altro denaro dopo i 336 per l’ambiente esterno, la Banca degli investimenti europei potrebbe farti altri prestiti trattandosi di progetti innovativi)”. Per quanto tempo? “Il tempo di incamerare una massa di profitti uguale o maggiore del capitale necessario per la ristrutturazione”. Cioè: saranno gli operai che pagheranno i nuovi sistemi di sicurezza? E i super inquinati di Tamburi, nel frattempo? “Che te ne fotte? Spostateli in massa!”

L’acciaieria, che si protende verso il mare di Taranto, ha trasformato nei decenni il territorio e il mare in un luogo appestato. In essa ancora “vive” di lavoro una popolazione operaia di 15.000 addetti, dell’età media di 31 anni (a Genova sono 1760, a Novi 700, a Racconigi 150). “Era assurdo pensare di trovare una soluzione per il problema ambientale imponendo con un blitz la chiusura della fabbrica e il tribunale ha preso la decisione giusta: solo il tempo risolverà il problema”, si legge. Si sa che la prima indagine sulle polveri partì nel 1964 e si risolse in un nulla di fatto: lo stesso accadde per quella dell’82 e una terza nel 2000 subì lo stesso trattamento. La cosa dunque si ripete e si ripeterà all’infinito. Non hanno insegnato nulla i morti per l’Eternit (operai e abitanti) o gli omicidi alla Thyssen-Krupp? Lavaggio mentale.

Nel capitalismo, ci ricorda Marx da un passato che risulta sempre più presente, l’attività produttiva esiste come mezzo, non come fine di un bisogno umano: il vero fine è il profitto. E, per questo fine, tutto è lecito, tutto è giustificato. Il lavoro umano è la fonte dell’esistenza della nostra specie, ma il lavoro salariato nel tempo della barbarie capitalista puzza solo di morte. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, così scriveva: “la produzione produce l’uomo non solo come merce, la merce umana, l’uomo nella determinazione della merce, lo produce conformemente a questa determinazione, come un essere disumanizzato sia spiritualmente che corporalmente – immoralità, mostruosità, ilotismo, degli operai e del capitalista. Il loro prodotto è la merce autocosciente e automatica… la merce umana”.

Gli operai, come dimostra la massa enorme di nullafacenti, non moriranno certo di “non lavoro”: muoiono e moriranno, al contrario, di lavoro (“malattie professionali”, le chiamano eufemisticamente). La soluzione provvisoria era ed è a portata di borsa fin dai tempi di Marx: Salario integrale ai lavoratori, totalmente a spese dello Stato e del capitale, finché Stato e capitale non li si fa saltare in aria. Difficile a capirsi? Lo si imponga con la forza. E, se non la si possiede, la si prepari oggi con l’impegno delle grandi giornate.

Si studiano nel frattempo le varie zone di Taranto per conoscerne i danni: ma distinguere i Tamburi e i Borgo dalle altre zone cittadine è solo un esercizio contabile per risparmiare. Il denaro, come si sa, deve avere un “fine produttivo”: ergo, lasciamo che i miserabili continuino a svolgere il loro ruolo di miserabili sulla terra, perché alla fine essi godranno del Paradiso – sarà quello il loro vero risarcimento. Inquinando aria, terra e acqua, la mineralizzazione, caratteristica insita nella produzione capitalistica, ha prodotto sofferenze, malattie e morte. Tutto questo inferno per gli adoratori dello sviluppo industriale, della produttività, del Pil (l’Italia è il secondo produttore di acciaio in Europa, dopo la Germania) genera inni all’operaio e al suo “diritto al lavoro”, alla diligenza e all’operosità, alla “virtù del lavoro”, per fargli accettare la cupa prigione in cui è rinchiuso: il che non è altro che la più alta operazione di corruzione della classe, di cui i rappresentanti sindacali sono i maggiori esperti e responsabili.

Al comizio, dopo la manifestazione, si erano presentate tutte insieme le organizzazioni sindacali categoriali di Cgil, Cisl, Uil, Ugl, con Fiom in testa. Avendo condiviso le responsabilità per decenni, ma sulla pelle degli operai, non potevano non presentarsi uniti all’appuntamento per dare un contributo, dicono, al “riassesto del polo dell’acciaio, alla siderurgia nazionale, in questo momento di crisi”. A Bari, erano convenuti qualche giorno prima autorità locali e i nuovi vertici dell’Ilva, stretti attorno al Ministro dell’ambiente per formalizzare un decreto legge, un piano di bonifica e di protezione ambientale su Taranto. Il profumo degli stanziamenti milionari da parte dello Stato (336 milioni di euro) per curare le ferite prodotte sul territorio ha attratto tutti gli addetti ai lavori. Facendo circolare, prima della manifestazione, l’impegno di spesa dello Stato a favore dei Riva (troppo pochi, suggerisce qualcuno dalla platea) per ripulire il complesso industriale e il territorio dal merdaio (occorrono moderne tecnologie per farlo, dice un altro), si gettava ancora una volta la giusta dose di pastura agli intermediari sindacali – tra l’altro, perché la facessero ingoiare ai lavoratori.

A noi non interessa assolutamente sapere (ma lo si sa! lo si sa!), se sia responsabile l’impresa pubblica Italsider degli anni cinquanta e sessanta o quella privata dei Riva dopo il 1995, come si affannano a blaterare gazzettieri telecomandati. Il gioco del rimpallo delle responsabilità (chi ha inquinato?) è vecchio quanto il capitalismo. I borghesi hanno sempre, in ogni occasione, un guardaroba presentabile: sono statalisti, liberisti, protezionisti, neoliberisti, neokeynesiani, monetaristi, etc. ad ogni mutar di vento; sono buoni per tutte le stagioni; sono intercambiabili. A noi non interessa assolutamente la fiction che vedrebbe contrapposti lavoratori-padroni-sindacati da una parte ed ecologisti-magistrati dall’altra. Anche questa è una bufala e ha il compito di sguazzare nel torbido, alimentare ancora la corruzione e le illusioni. Una magistratura che pulisce la condotta immorale del padrone e l’ecologista che consegna agli operai, dopo un certo lasso di tempo, una fabbrica linda ed efficiente sono il non plus ultra dell’ottundimento e dell’idiotismo. Nuova corruzione all’ennesima potenza! Cadere in questa trappola ecologico-ambientalista-leguleia per sfuggire all’altra industrial-produttivista è finire comunque nella stessa fogna, in nome del posto o della salute o della loro “coniugazione” (?!).

Più importanti sono gli effetti prodotti dall’atto di scoperchiamento dei tombini. La provenienza dei contestatori ci interessa poco: non è la buona o cattiva coscienza che muove gli individui o le organizzazioni, ma le determinanti economiche e le loro contraddizioni che vengono ad esplodere. Avremmo visto volentieri gli operai in massa, e non “i cittadini libero-pensatori”, attaccare l’aristocrazia del lavoro in piedi sul palco, anche se l’azione messa in campo rispecchiava l’istinto e la rabbia dei primi. Che cosa è successo? Nulla di nuovo. Accadde tempo fa che Rinaldini, precedente segretario della Fiom, rischiasse di cadere dal palco per la spinta di operai incazzati;  accadde tempo fa che, dopo la manifestazione a Torino per gli omicidi alla Thyssen-Krupp, lo stesso Rinaldini fosse fischiato platealmente; accadde a suo tempo a D’Antoni di ricevere una scarica di bulloni in faccia, e a Lama di venir buttato giù dal palco, travolto dalla rabbia operaia veicolata attraverso la nuova generazione di precari; accadde nel 1980 alla Fiat, che i sindacalisti, dopo aver condotto gli operai alla sconfitta, dovettero scappare dopo aver sottoscritto l’accordo con i padroni e rifiutato dagli operai, quasi sotterrati dalle pietre che vennero loro lanciate. E’ successo ancora qui a Taranto che i sindacalisti offesi siano scappati via schizzando veleno e gridando come ossessi: “facinorosi, violenti, estremisti, mercenari!”. Dal veleno lanciato dal teatrino del palco sui “provocatori”, dal dolore espresso dagli operai che rimpiangevano di aver accettato sulla propria pelle e su quella dei loro figli lo scambio denaro-salute, e dalle 41 denunce si misura la verità rivoluzionaria. Che la “bonifica politica” si faccia finalmente strada! Di là dai particolari interessi in gioco e le elucubrazioni equidistanti, la cosiddetta “presa dittatoriale del palco” da parte dei lavoratori incazzati indica una strada: quella della lotta ad oltranza, della lotta come organizzazione di forza, contro ministri, padroni, sindaci, sindacati, ecologisti e magistrati, ovvero contro la classe dominante. Abbattere il capitalismo è il compito che l’umanità proletaria si è posta fin dal suo apparire. Il luddismo non aveva solo lo sguardo rivolto al passato, ma anticipava nelle sue azioni l’orrore per il futuro.

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2012)