Tutti alla festa delle corporazioni nazionali (e del proprio orticello)

Pubblicato: 2011-09-23 20:32:47

Quando, alla fine del secondo macello mondiale, scrivemmo che il fascismo aveva vinto dal punto di vista sociale, ci guardarono con sospetto, come si fa con i matti. Quando aggiungemmo come corollario che la democrazia postbellica non era altro che fascismo vincente, lo si volle leggere come un paradosso. Oggi, basta dare uno sguardo alle macerie sociali, nel mezzo della crisi di sovrapproduzione, per comprendere quanto quelle valutazioni e previsioni siano state profonde, esatte e adeguate a descrivere la realtà dell’imperialismo che ci circonda. Allora, quando le rovine dei bombardamenti nelle città furono i campi di gioco delle nuove generazioni nate in mezzo al conflitto, vinse tra i proletari il bisogno di pace, di tornare alla normalità: sulla targhetta del regime capitalista “Fascismo” fu sovrapposto il cartellino “Democrazia” (con diverse sfumature: liberale, sociale, popolare). Non si ebbe “fame di democrazia”, ma fame reale, ed essa impose al proletariato (nonostante rivolte e resistenze e soprattutto con i proletari comunisti che, controcorrente, sopravvissuti alla controrivoluzione acuta, cominciavano a restaurare il partito di classe) di tornare nelle galere in ricostruzione (le fabbriche) per riprendere a macinare profitti – base strutturale della democrazia, dei diritti, delle costituzioni borghesi. L’ammirazione per i Dittatori che avevano saputo fermare la marea rossa e strangolare la dittatura si sgonfiò in un cambio di facciata, in un brindisi alla pace-diktat di Yalta. Il nuovo regime si era incistato nel vecchio spontaneamente. Perché s’era scatenata una guerra così devastante, perché c’era stato un così orrendo massacro di civili? Si mobilitò una montagna di intellettuali per dimostrare che si era trattato di una storia di “dittatori violenti e sadici”, si eressero monumenti ai militi ignoti, ci si scordò dell’olocausto dei civili di tutte le nazioni in guerra – e la Seconda guerra mondiale si trasformò in un “intervento umanitario” a favore degli ebrei.

Le organizzazioni democratiche patriottiche staliniste (chi più patriottico, democratico e nazionalista di Baffone, che aveva sconfitto Baffetti dopo essergli stato alleato?) non aspettarono un decennio per trasformarsi in pentiti del socialismo in un solo paese (nel 1956) e in mafiosi democratici (dopo il 1989), ma continuando il lavoro cominciato dal 1926 di assassini e secondini dei proletari. Organizzazioni patriottiche imperialiste con timbro americano, democratiche per nascita e quindi fasciste da sempre, non aspettarono cinque anni per scatenare altre guerre: Corea, Vietnam, e via all’infinito, contro “rivoluzioni nazionali” per niente socialiste che davano fastidio come inevitabili concorrenti negli schieramenti pro e contro il cosiddetto “comunismo in Russia”. Seguì la minaccia dei vincitori Usa-Russia di scatenare guerre nucleari dopo aver riempito gli arsenali fino all’inverosimile: e ancora massacri di popoli, divisioni territoriali in nome dell’appropriazione delle materie prime, razzismo a tutte le latitudini, distruzione dell’ambiente umano. Un paradosso, dunque, che la nazione americana sia la più grande esportatrice di democrazia, e quindi di fascismo? e che a essa si preparano a dare il cambio le nuove grandi potenze (Cina, India, Brasile), come un tempo Gran Bretagna e Francia avevano passato il testimone agli Usa, tolte di mezzo la Germania nei due conflitti mondiali e la Russia staliniana con la guerra fredda e la distensione?

 

Coccardine e nuovi Balilla

Nei vent’anni di fascismo, si dovette fare un grande sforzo per creare dei sudditi e dei burattini inneggianti al Duce. Educare i Balilla, esercitarli alle armi, inculcare slogan nelle loro teste e spingerli a picchiare i lavoratori e i “sovversivi” fu il compito del ventennio. Quanta fatica, per creare maschietti pronti ad andare in guerra per esercitare dal vivo la violenza reazionaria e madri devote alla patria e sottomesse ai mariti nel primo dopoguerra! Oggi, in questo teatrino desolato, in questo territorio socialdemocratizzato, in cui solo nominare il concetto di democrazia mette in stato di devozione religiosa gli intellettuali di alto e basso bordo dietro le icone dei Padri fondatori, la preparazione, l’educazione alla democrazia, al dovere patrio, al nazionalismo, costano meno in termini di costrizione, ma molto dal punto di vista economico. E’ un fatto spontaneo. Basta osservare i rigurgiti delle feste nazionali (Italia in testa, per i suoi 150 anni!), la grande convention a Berlino per l’anniversario dell’abbattimento del muro e della riunificazione tedesca (tanto per fare due esempi), per rendersi conto di quanta spesa occorre impegnare e di quanto libero volontariato adunare, per issare bandierine e distribuire coccardine, mettere in fila scolaresche, declamare e cantare inni nazionali, inserire nei libri di scuola gli eroi nazionali. Aggiungete la preparazione professionale dei militari all’estero e i loro contratti, le parate per la morte di soldati così “devoti e amanti della pace” (e armati fino ai denti): tutto per esportare quella democrazia, per la quale la piccola borghesia si strugge e si anima di passione. Il consumo di armi è gigantesco, il debito estero per le spese d’intervento cresce a dismisura. Il passaggio dalla “produzione di guerra” (sempre un passo avanti sulla produzione civile) alla tecnologia bellica imperialista è avvenuto: l’imperialismo delle portaerei canta le glorie di Sua Maestà l’Acciaio.

Ora chiunque può vedere su questo palcoscenico lo spettacolo che offre la democrazia: disoccupazione, miseria, sfruttamento, precariato, morti nelle fabbriche, malattie professionali sempre più diffuse, carceri strapiene di diseredati, lager di migranti, clandestini in attesa di essere cacciati (o ammazzati), affarismo, speculazione... Poco importa! Logica vuole che, se ci sono elezioni politiche, amministrative, referendum, rappresentanze politiche e sindacali in ogni buco di culo, allora c’è democrazia. Ed è vero: c’è più democrazia, quindi più fascismo. Con la differenza che il fascismo in questo senso era più democratico, era l’ideologia cristallina della borghesia, che non aveva bisogno di mentire a se stessa e agli altri (per questo era ed è ancora tanto ammirato) la propria funzione: conculcare la guerra di classe esaltando la patria, preparare le generazioni a temere il comunismo, costituire organizzazioni sindacali corporative che, subordinate ai padroni, decidessero contratti e patti di crescita economica (non vi sembra di udire cose d’oggi?)…

 

Corporazioni sindacali e grandi accordi

E oggi, in questo tripudio democratico, si agitano scioperi finti, caricature di conflitti sociali, falsi scontri, tutti quanti, però, inneggianti alla democrazia, alla vera democrazia, in favore di questa o quella corporazione del lavoro, di questa o quella professione, categoria, qualifica. Si esaltano accordi con strette di mano tra corporazioni operaie e imprenditoriali apparentemente avverse, si inneggia alla “difesa dei diritti” nei tribunali dello stato borghese (cioè, del nemico di classe), nell’isolamento più totale dei lavoratori, con scioperi preavvertiti, controllati, deviati dalle strade, dalle piazze principali. Il tripudio democratico si estende alle centinaia di piccolissime e medie corporazioni sindacali, ognuna con il suo stitico sciopericchio. Le corporazioni sindacali, tante sigle quanti sono gli interessi e i pruriti individuali, difendono il diritto del lavoratore di restare e morire nelle galere aziendali: unica e sola possibilità di salvezza è continuare a strisciare per otto, nove, dieci ore al giorno, accettare prolungamenti dell’orario di lavoro e premi di produzione, seguire cortei in difesa dei… diritti sindacali, del diritto di rappresentanza sindacale, del diritto a sedersi ai tavoli di contrattazione. Ma quanti diritti “disattesi”?! Ci vorrebbe un esercito di avvocati e un secolo intero di udienze, per affrontarli! Dove sono andate a finire le rivendicazioni sulla drastica riduzione dell’orario di lavoro, sugli aumenti salariali, sui metodi di difesa e di lotta classisti? Ceti medi e sottospecie di sottoproletariato si aggirano nei comuni, nelle province, nelle regioni, liberi di intervenire in mezzo agli operai e preparare qualche intruglio politico-sindacale; liberopensatori e sfasciacarrozze aggiungono qualche risciacquatura di disordine sociale con proprie divise da combattimento: ma di lotte manco a pensarci! Il fascismo non si è mai sognato così tante corporazioni: giovanili, precarie, femminili, aristocrazia operaia impiegatizia fuori produzione e in produzione, assuefatta al crumiraggio, richiedenti reddito di cittadinanza, adunate Mayday, sostegno pubblico, carità, ammortizzatori sociali… Non ha mai visto tanti “indignati” (studenti, femministe in cerca di percentuali rosa di rappresentanza politica e di parità nei tribunali), referendari per vocazione, antinuclearisti e mercatisti a chilometro zero: una vera e propria festa di richiedenti diritto!

Ai tempi del fascio, lo Stato di classe (la dittatura di classe) permetteva che gli incontri si chiudessero pacificamente con un’alzata di mano “alla romana”; oggi, democraticamente “mano nella mano”, sotto i riflettori dei media, si possono vedere Confindustria, Governo, Banche e Sindacati rivendicare un “Patto Italico contro la crisi”, mentre sul collo dei malcapitati proletari si abbatte una “Finanziaria lacrime e sangue”. La trasformazione del sindacalismo fascista in sindacalismo democratico in versione Cgil-Cisl-Uil continua la sua antica pratica di gestione “in piena libertà democratica”. Massacrando popolazioni nel corso del conflitto mondiale, la medusa democratica ha trasformato in pietra ogni opposizione di classe. Il museo dei genocidi, il terrorismo di guerra, gli olocausti, la deterrenza mondiale hanno scavato un solco di paura che inchioda il proletariato – un orrore continuamente rinnovato. Dopo il massacro, la democrazia, la dea alata della vittoria borghese, ha imposto la pace dei cimiteri. Un delirio di schede elettorali, di petizioni, di firme, di sottoscrizioni, mai visto in tutta la storia del capitalismo, sommerge il proletariato quasi annegandolo.

 

Val di Susa

La gente della Val di Susa, dunque, difende la sua Valle Verde, che sarà deturpata dalla Tav (i treni ad alta velocità) – un’opera inutile, che lascerà dietro di sé detriti, amianto, spostamenti di falde acquifere, devastazione di una realtà ambientale. Una grande partecipazione, una grande mobilitazione di gente, giovani, massaie, contadini, artigiani, capitalisti, sindaci, operai. Una bella miscellanea di interessi. Non dovrebbero mobilitarsi? Non dovrebbero usare mezzi violenti per impedire un tale disastro? La questione è un’altra. Un programma rivoluzionario contro questo modo di produzione distruttivo nelle loro parole non lo trovi nemmeno a peso d’oro: solo qualche botto e qualche fionda, un lancio di pietre per credersi “rivoluzionari” e una montagna di illusioni tra Torino e Bardonecchia. La Valle Verde sembra diventata il giardino dell’Eden, attaccato dalle ruspe. Un “interventismo” che non troveresti nemmeno nel caseggiato assediato dai poliziotti in caso di sfratto esecutivo nei confronti dei miseri e diseredati, migranti in testa; una solidarietà che non troveresti davanti a nessuna fabbrica sotto tiro dei licenziamenti. Ogni situazione lasciata ai “fai da te”! Quelle “avanguardie” viola, nere, verdi, stelline, non si mancherà di vederle poi infervorate durante le elezioni, nei referendum, a mettersi in fila per dare e chiedere il voto per questo o quel candidato di destra o di sinistra, occhieggiante. La Valle è solo un miscuglio di interessi economici diversi, è la rappresentazione in piccolo della concordia nazionale nel Parlamento di fronte alla crisi e del conflitto che non può sostenere quella pacificazione. C’è da credere che questo insieme solidale stia là ad aspettare che, fallito il progetto della Tav, parte delle risorse si riversi tale e quale nel territorio, divise secondo i vari interessi corporativi. Contro di loro, un esercito di poliziotti armati in difesa dei Grandi Interessi Finanziari in gioco respinge quest’attacco, questa difesa ad oltranza del territorio. Novelli riformisti chiedono a gran voce di essere sentiti in prima persona, sindaci in testa. Non è forse la loro Valle? Non è forse un loro diritto difenderla dagli assalti degli speculatori? Non votano forse? non pagano le tasse? E così via.

In tutta questa baraonda di interessi corporativi, gli operai chiamati per i lavori, nella solitudine più totale, esibiscono il loro contratto. Che responsabilità hanno? Hanno da perdere “solo” un salario, il che significa le loro “condizioni di esistenza”. Che cosa sono di fronte al paesaggio? Certo, non hanno mai avuto tempo di guardarsi intorno, chiusi nei cantieri-galera, per ammirare le montagne, le fonti, le coltivazioni, la bellezza, e difendono con la catena ai piedi quel lavoro di merda per cui molti moriranno, per incidenti, per la fatica, per malattie “professionali”. Come sono arretrati! Come fanno a non comprendere la “comunizzazione” collettiva che si offre ai loro occhi?! Questa massa di difensori del proprio orticello non riesce nemmeno a immaginare il putiferio che susciterebbero i lavoratori se mai prendessero in mano la direzione della lotta bloccando i lavori e la guerra di classe che si scatenerebbe. Non lo sanno nemmeno gli operai. Una montagna di moralisti a questo punto comincerebbe a inondare i giornali di articoli, attaccando gli operai con l’accusa di essere “supergarantiti” (un equivalente dei “bamboccioni”) e “confrontandoli” addirittura con i proletari di Rosarno, “che almeno si guadagnano il pane con grandi sacrifici” e senza mene sindacali.

In realtà, qui nella Val di Susa, si gioca un tiro alla fune per alzare le quote di risarcimento, per portare più denaro alla valle nel migliore dei casi; in realtà, si gioca, coscienti o meno, al servizio di proprietari, di coltivatori, di artigiani, una sottoclasse borghese arrivata a un punto morto. Solo la dittatura proletaria, con il suo programma di abolizione della proprietà privata (mezzi di produzione, materie prime, prodotti) e di distribuzione della terra in forma gratuita, in usufrutto per le generazioni future, scioglierebbe questo nodo e darebbe alla Valle di cui tanto si sparla il senso del suo legame con la specie umana. “Non sia mai!”, griderebbero allora per primi i guerriglieri volenterosi, gli ultimi mohicani del principio di proprietà: la proprietà individuale, la cascina, il campicello, le bestie sono il loro sogno. Quanto “leghismo” si nasconde in questi Cavalieri del Sacro Suolo!

Ma per arrivare a quella soluzione ben altra dinamica sociale deve intervenire: non la visione miope dei piccolo-borghesi che non vogliono liberarsi del paraocchi. Solo la classe operaia ha la soluzione: la classe che non ha da difendere nessuna condizione presente, la classe che non ha niente da perdere e tutto un mondo da guadagnare. Per arrivare a questo, devono entrare in scena la sua politica di classe, il suo programma, la sua tattica, la sua strategia, nati un giorno non lontano per abbattere il modo di produzione capitalistico e imporre la dittatura di classe, attraverso cui si giunga all’eliminazione delle classi e dello Stato.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2011)