Le tempeste monetarie che sconvolgono la superficie dell'economia capitalistica riflettono la crisi del meccanismo di accumulazione e il vacillare dell'incontrastato predominio americano (I)

Pubblicato: 2011-04-08 20:03:05

Il conflitto monetario che contrappone oggi tutti i contendenti sul mercato mondiale, il suo carattere globale e senza prospettiva di soluzioni stabili, esprimono l'altissimo livello di contraddizioni in cui si dibatte il capitalismo nella sua fase estrema e le crescenti difficoltà del meccanismo di accumulazione nei paesi di vecchio capitalismo, principalmente negli Usa. Le attuali turbolenze monetarie annunciano il declino del sistema monetario internazionale a dominanza Usa e del dollaro come  incontrastata moneta internazionale. Le difficoltà del “biglietto verde” riflettono il vacillare dello schiacciante predominio americano, senza che si vadano ancora delineando nuovi equilibri monetari mondiali, perché nessuno è oggi in grado di imporre una soluzione e la “cooperazione internazionale” (in quanto consesso di predoni) si rivela regolarmente un fallimento se manca un capobanda che detti le regole della spartizione. Anche sul terreno monetario lo scenario globale appare dunque caotico e tendente alla catastrofe. La questione si presenta come scontro tra Stati e politiche monetarie a tutela delle rispettive valute e, tramite queste, delle proprie economie ed equilibri interni tra le classi. Ed è proprio di quest’aspetto che intende occuparsi la prima parte di quest'articolo.

Il riacutizzarsi di queste tensioni che hanno interessato con maggiore o minore intensità tutto il periodo successivo alla dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro (1971) va ovviamente ricondotto alla crisi di sovrapproduzione riesplosa due anni fa e non certo superata, quanto piuttosto malamente celata nei bilanci bancari o assunta a carico dei debiti sovrani. La crisi esaspera la competizione economica e assume anche la forma di conflitto tra Stati, per ora in forma valutaria o commerciale. Le politiche statali, agendo sul corso dei cambi e sull'interscambio, si propongono di intervenire in un modo o nell'altro sui prezzi. La questione rimanda dunque alla formazione del valore nella produzione, da cui i prezzi hanno origine. Questo aspetto sarà considerato nella seconda parte dell’articolo, nel prossimo numero di questo giornale.

Caratteristiche del sistema monetario internazionale

Il dollaro è attualmente moneta mondiale per eccellenza e ne riveste tutte le funzioni (1). Tutte le valute fanno riferimento al rapporto di cambio col dollaro; il dollaro è accettato universalmente come valuta per qualunque transazione; il prezzo del petrolio e delle principali materie prime è fissato in dollari; le riserve in dollari costituiscono una parte consistente delle riserve complessive dei Paesi economicamente rilevanti, e nel caso della Cina ne sono la parte prevalente (mezzo di tesaurizzazione). Se attualmente il Pil Usa pesa per circa il 25% sul Pil mondiale, il dollaro pesa per l’80% nelle negoziazioni globali in valuta non domestica, per il 60% nelle riserve valutarie mondiali (2).
Ad esso si affiancano alcune valute che rivestono un ruolo internazionale, ma che attualmente non possono competere con il dollaro, pur se, negli ultimi anni, sono cresciute di importanza nelle riserve valutarie di alcuni paesi. L'equilibrio monetario internazionale continua dunque a fare perno sul “biglietto verde”..

Alcune valute “forti” (Euro e Yen) hanno un rapporto di cambio fluttuante col dollaro, che è caratterizzato negli ultimi anni da una forte volatilità, dovuta in parte all'andamento dell'interscambio e della bilancia dei pagamenti. Le valute di alcuni paesi emergenti sono invece ancorate al dollaro in un rapporto di cambio fisso o controllato, situazione descritta da alcuni come una sorta di “Bretton Woods 2”: un sistema “dollar standard che riguarda le relazioni monetarie tra Usa e gruppo degli “emergenti”: il BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e il GCC (Gulf Cooperation Council, che raggruppa i 6 stati arabi del Golfo).

Questo assetto è sottoposto negli ultimi tempi a fortissime tensioni, con Usa e Cina nel ruolo di principali antagonisti. Nel corso del 2010, gli Usa hanno esercitato una forte pressione sul governo cinese per un sostanziale apprezzamento dello yuan sul dollaro che favorisse un riequilibrio della bilancia commerciale degli Stati Uniti, in forte e crescente deficit. La Cina in giugno ha manifestato l'intento di dare avvio a un apprezzamento, che è stato però finora  lento e limitatissimo (2-3%), così che gli Usa, mangiata la foglia, sono passati alle maniere forti, come auspicato apertamente anche da economisti liberal, inaugurando una seconda manovra di “espansione quantitativa”  (Quantitative easing 2). Si tratta di un nuovo programma di acquisto di titoli di Stato Usa da parte della Fed, che comporta la creazione di una massa consistente di moneta internazionale in grado di scuotere in profondità gli attuali rapporti valutari.

Finora il dollaro ha svolto una funzione fondamentale nel sistema capitalistico mondiale, perché attraverso esso si è imposta definitivamente la moneta di credito nei rapporti economici internazionali. Entro un sistema che ha raggiunto la fase del credito, l'espansione della massa monetaria, nelle sue varie forme, si affranca da ogni riferimento con la massa dei valori delle merci, e in primo luogo con l'oro, merce il cui valore – entro il sistema aureo – fa da riferimento a quello di tutte le altre. L'impossibilità di stare entro i limiti del sistema aureo è determinata storicamente dal grado di sviluppo del Capitale che, nella costante espansione del volume della produzione e conseguentemente del valore della stessa, è costretto a sganciarsi dal vincolo metallico che ha dei limiti fisici ed un valore dato dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione. Così, la massa enorme di valore prodotto può essere rappresentata solo da moneta di credito, che è moneta a tutti gli effetti e non conosce limiti di espansione. La dichiarazione d’ inconvertibilità del 1971 non fu altro che la ratifica di un dato di fatto – l'esistenza di una massa di moneta di credito sui mercati internazionali – e il riconoscimento del passaggio storico alla moneta di credito nei rapporti valutari (3).

Da quando è stato abbandonato definitivamente il riferimento aureo, la questione dei rapporti tra le monete riguarda, a un primo approccio, i rapporti tra gli Stati, ciascuno con la propria politica monetaria: “Se il sistema valutario può sembrare un vero mercato – scambia 4mila miliardi di dollari al giorno e nessuno può rivendicare un potere sui prezzi – è in realtà fortemente condizionato dalla politica. I cambi possono essere rigidi o flessibili in gradazioni diverse, e la moneta è emessa, in prima battuta, dagli stati che cercano di fissarne anche il costo. I tassi d’interesse solidamente alla guida dei flussi valutari lasciano che i cambi si sgancino facilmente dall'economia reale.[...] Le politiche monetarie messe in campo dopo la crisi creano di fatto [...] un conflitto tra valute, quasi una successione di ‘svalutazioni competitive’ che prevede almeno un perdente costretto ad apprezzarsi [...]. Il risultato, come negli anni ‘30, è un continuo disordine” (4)

Questo “sganciamento dall'economia reale” dei rapporti di cambio non è altro che il riflesso della finanziarizzazione dell'economia e dell'autonomizzarsi della finanza dalla produzione materiale, sede della formazione del valore. Le grandi masse di capitale finanziario si muovono con grande velocità, attratte da titoli ad alto rendimento e, nei periodi di vacche magre, almeno “sicuri”; questi movimenti, comportando l'acquisto o la vendita di titoli denominati in una determinata valuta, possono influenzarne il corso; lo stesso si verifica nel mercato valutario: si pensi ad esempio al carry trade sullo yen, dove lo speculatore gioca essenzialmente sul divario dei tassi di interesse derivanti dalle diverse politiche monetarie dei vari paesi (si finanzia in yen a tassi prossimi allo zero e s’investe in titoli più o meno redditizi denominati in altre monete).

La stessa esistenza di questi flussi internazionali di capitale finanziario influenza la politica monetaria e fiscale degli Stati, orientata ad attirarli o a limitarne l'afflusso per evitare, ad esempio, un eccessivo apprezzamento della propria moneta. Fatto si è che, comunque vadano le cose nel fantasmatico mondo della finanza, al manifestarsi della crisi la legge del valore si vendica e riconduce i rapporti valutari alla cosiddetta “economia reale”. Tant'è che, nell'attuale scontro tra le valute, tutti i paesi cercano di svalutare la propria moneta, che è la modalità più consona a ridare competitività alle produzioni nazionali, riducendo nel contempo il peso dei debiti accumulati dalle banche e dagli Stati.

E' stata la Svizzera a inaugurare, nel marzo 2009, la fase d’instabilità monetaria annunciando interventi sul mercato dei cambi. Il tradizionale porto sicuro delle banche svizzere attraeva troppi capitali spingendo in alto il cambio del Franco. Il tentativo di deprezzamento del Franco non ebbe successo, e lo stesso esito ebbero analoghi tentativi da parte di molti paesi asiatici, Giappone compreso. Le difficoltà delle politiche monetarie di orientare stabilmente il corso della propria moneta nella direzione voluta dipendono essenzialmente dal rapporto di grandezza tra la massa monetaria impiegata nelle operazioni dei governi e la massa dei capitali che si muovono sui mercati internazionali con intenti immediatamente speculativi o alla ricerca di rendimenti sicuri. Nessuna manovra di cessione della propria moneta sui mercati per deprezzarne il corso (le manovre più convenzionali dei governi sono chiamate “operazioni di mercato aperto”) può alla lunga sortire effetti stabili, se l'orientamento dei cosiddetti “mercati” si muove in direzione opposta. E' una prima vendetta della legge del valore: se non c'è possibilità di investire con profitto nel mercato azionario o direttamente nella produzione, masse crescenti di capitali prendono la strada degli approdi finanziari “sicuri” e non c'è politica monetaria che li fermi.

 
Andamento delle principali monete dal 01/01/2009 al 28/09/2010 (cambio ponderato con le valute dei maggiori partener commerciali)
 
Dollaro -7,45%     
dopo il forte rimbalzo all'apice della crisi, causato dall'afflusso di capitali in cerca di investimenti "sicuri" in Treasury bonds
Euro -7,72%
in forte calo per la crisi dei debiti sovrani, si è riapprezzato a partire da agosto, fino allo scoppio di una nuova crisi debitoria degli Stati
Yuan -3,24%
in modesto rialzo da giugno, del 3% circa
Yen +3,85% è ai massimi su dollaro ed Euro, nonostante gli interventi della Bank of Japan
Sterlina britannica +6,16%
ha ripreso vigore come moneta rifugio per il rigore antideficit dal governo conservatore
Franco svizzero
+8,25%
moneta rifugio per eccellenza, il sistema bancario continua ad attirare capitali
Real brasiliano
+34,2%
inutili gli interventi della banca centrale, continuano ad affluire capitali attratti dalla forte crescita economica, indotta più dal mercato interno che dal export

Fonte il Sole 24 ore del 29 settembre 2010

 

Variazione sul dollaro della principale moneta da inizio 2010

Dollaro +0,15% (cambio su un paniere di valute)
Euro -3,25%
Yuan +1,99%
Yen +10,43%
Sterlina britannica -1,59%
Franco svizzero
+6,74%
Real brasiliano +3,96%

Fonte il Sole 24 ore del 06/10/2010 ("Il Risiko dei cambi, tabella a pag.2)

 

Il confronto tra le due tabelle, per quanto elaborate con criteri non omogenei, evidenzia la caduta del dollaro nel biennio e il suo minimo recupero nell'anno in corso, ma solo al confronto con Euro e Sterlina. La moneta che più paga la tempesta valutaria è il Real brasiliano; lo yen se la passa piuttosto male, soprattutto nell'ultimo anno. Nell'immediato vince il dollaro, che a fine settembre era ai minimi sulle principali valute grazie alle potenti iniezioni di liquidità da parte della Fed, l'unica banca centrale che riesce a influenzare entro certi limiti il corso della valuta nazionale, il dollaro, grazie al privilegio di stampare moneta mondiale. Entrambe le tabelle si riferiscono comunque al periodo che ha preceduto l'espansione quantitativa della Fed.

L' "espansione quantitativa" della Fed e le sue implicazioni

In un contesto di rapporti valutari internazionali già fortemente instabili, la manovra della Fed tra ottobre e novembre 2010, denominata Quantitative easing2 (QE2) ha dato un'ulteriore scossa agli equilibri tra le principali valute ed i suoi effetti sul corso dei cambi sono ancora da verificare. La Fed ha annunciato il ricorso all'acquisto di buoni del Tesori americano ed altra carta finanziaria a lungo termine per complessivi 600 miliardollari nell'arco di alcuni mesi. Contemporaneamente, il Tesoro ha annunciato il programma di vendere una certa quantità di titoli a lungo termine e la Fed sarà probabilmente uno degli acquirenti più importanti di questi titoli; in questo modo, lo Stato emette debito per poi ricomprarselo via Banca centrale.

La manovra ha lo scopo di combattere la deflazione, di sostenere i prezzi e rilanciare il credito e con esso la produzione e i consumi interni. L'inflazione Usa è ai minimi da 53 anni (1,2%; 0,6% la core, senza alimentari ed energia, su base annua). A ottobre, l'indice dei prezzi al consumo è stato positivo (+0,2) solo grazie a benzina e materie prime, mentre quello core è a zero da tre mesi (9,6% la disoccupazione; - 11,7% le case di nuova costruzione, contro una previsione di - 1,6%). L'obiettivo della Fed è il rilancio del mercato interno attraverso un sostegno ulteriore al sistema creditizio, inondato di nuovi abbondanti capitali. Questo dovrebbe far ripartire il mercato edilizio e gli acquisti con i mutui immobiliari e con il credito al consumo. Il rilancio, se riuscisse, riproporrebbe la centralità del mercato interno Usa nei flussi di merci e di capitali mondiali e di conseguenza la centralità economica degli Usa e del suo sistema creditizio, che continuerebbe ad attrarre e gestire capitali internazionali (5).

Finora, le enormi risorse che lo Stato ha messo a disposizione del sistema bancario, prima per salvarlo dalla bancarotta e poi per riattivare il credito, non hanno irrorato il sistema produttivo né rilanciato i consumi, ma solo evitato che entrambi crollassero sprofondando il Paese in una nuova Grande Depressione. Le risorse rimangono nel sistema finanziario e alimentano la liquidità globale che si indirizza verso i paesi con maggiori tassi di crescita (oggi Hong-Kong, Cina, Brasile); l'associazione delle grandi banche internazionali (Institute of International Finance) prevede per il 2010 flussi netti di capitali privati verso gli emergenti pari a 825 miliardollari (erano 581 nel 2009).

I cinesi – ma critiche sono venute anche dall'Europa – hanno accusato la manovra Fed di innescare  un'iperinflazione globale, inondando i mercati di una massa incontrollabile di capitali. Tuttavia, la Fed non ha fatto altro che espletare le sue funzioni istituzionali: si è comportata come una qualunque banca tra le cui prerogative rientra la creazione di moneta, in un sistema  dalla natura creditizia in cui si accetta senza batter ciglio che le stesse banche private creino denaro attraverso l'attività di credito e l'emissione di titoli praticamente senza limitazioni. Stampare moneta attiene alle prerogative sovrane e la Fed, in quanto banca nazionale degli Stati Uniti, detiene il privilegio di emettere moneta internazionale e se ne avvale (6). Certo, il dollaro non è una moneta qualunque, ma in un sistema basato sul credito vige la legge del più forte e l'instabilità è una caratteristica connaturata quanto i contrasti tra gli Stati.

Un prevedibile effetto della manovra sarà il deprezzamento del dollaro su tutte le maggiori valute, e principalmente nel rapporto con lo Yuan. Ciò che non è stato possibile ottenere con la diplomazia e la “cooperazione internazionale” gli Usa perseguono con l'arma potente della creazione di moneta. Il loro obiettivo è un apprezzamento dello Yuan sul dollaro di almeno il 20%, che sarebbe insostenibile per l'economia cinese la cui crescita si basa sull'export. La Cina detiene 2400 dei 6800 miliardi di dollari accumulati all'estero come riserve, e in presenza di un forte deprezzamento del dollaro vedrebbe deprezzarsi drasticamente anche le riserve accumulate in anni di surplus commerciale.

In definitiva, la manovra della Fed è un tentativo di riaffermare la centralità americana sullo scenario globale e di continuare a tener legati al proprio carro la Cina e gli altri emergenti. Il ragionamento con cui gli americani cercano di convincere i partner-concorrenti non fa una piega:  chi vuole che i propri titoli di Stato Usa e le proprie riserve in dollari non perdano valore ha tutto l'interesse ad assecondare una manovra che si propone il rilancio dell'economia americana e il riequilibrio, attraverso la ripresa dell'economia interna, dei “deficit gemelli”. Qui è il cuore del problema: il destino del dollaro come moneta mondiale e il destino della superpotenza sono strettamente legati.

Reazioni cinesi

Per la Cina, l'espansione monetaria innescata dalla Fed  può comportare due conseguenze: se viene mantenuta la parità fissa col dollaro, aumenteranno i prezzi interni e i rischi di bolle speculative; se se ne sgancia e la valuta fluttua liberamente, questa è destinata ad apprezzarsi con conseguente perdita di competitività dell'export sui mercati mondiali – qualcosa di analogo a quanto si verificò nel corso della crisi degli anni Settanta relativamente all'Europa. Alla fine degli anni Sessanta, ancora nel regime valutario stabilito a Bretton Woods, gli Usa denunciavano già crescenti deficit “gemelli” (fiscale e dei conti correnti), mentre Germania, Giappone e Europa occidentale registravano crescenti surplus di conto corrente e accumulavano riserve in valuta estera per prevenire un apprezzamento delle loro valute sul dollaro. Questo eccesso di riserve, con conseguente crescita della base monetaria, portò inflazione interna e crescita dei prezzi delle materie prime. La dichiarazione d’inconvertibilità dollaro-oro pose fine al sistema dei cambi fissi e le monete cominciarono a fluttuare liberamente.

La recente “espansione quantitativa” della Fed prospetta effetti analoghi sui Paesi che mantengono un rapporto di cambio fisso col dollaro: inflazione, speculazione sulle materie prime, deprezzamento del dollaro e svalutazione delle riserve. Negli anni Settanta, la crisi si manifestò infine come stagflazione globale, inflazione senza crescita.

Attualmente, in Cina si sta verificando un aumento dell'inflazione, passata dal dato negativo (-1,6%) di febbraio 2009 al +4% di ottobre 2010. Il governo è intervenuto con provvedimenti calmierativi dei prezzi dei generi di prima necessità e la banca centrale cinese (PBoC) ha alzato a più riprese la riserva obbligatoria delle banche portandola a livelli record (7). Un’eventuale decisione della PboC di aumentare il tasso di interesse per contrastare l'inflazione avrebbe l'effetto, auspicato dagli USA, di un apprezzamento dello Yuan. Ma la risposta cinese non si limita a provvedimenti interni e si svolge a tutto campo: mira a legare a sé l'Europa, acquistando titoli di Stato dei Paesi in difficoltà col debito e fabbriche in tutti i paesi europei; ha stabilito con alcuni paesi dell'America Latina accordi d’interscambio che prevedono l'utilizzo dello Yuan; tratta con il governo Usa per un compromesso che salvaguardi il proprio export e le proprie riserve, ma si pone fin d'ora nella prospettiva della convertibilità dello Yuan che così diventerebbe un forte contendente del dollaro sui mercati valutari.

La Cina avrebbe tutti i numeri per mettersi a capo di un'inedita alleanza antidollaro, considerato che la politica della Fed ha effetti negativi su tutte le economie dei Paesi sviluppati ed emergenti, molti dei quali hanno già provveduto al rialzo del tasso di riferimento o all'aumento della tassazione su alcuni flussi di capitale dall'estero o a misure analoghe al QE2 (8). Ma, al contrario, potrebbe anche verificarsi un accordo Cina-Usa per limitare l'apprezzamento dello yuan sul dollaro e scaricare tutte le tensioni valutarie sull'Euro e sugli altri paesi del BRIC. Così, in effetti, si salverebbero capra e cavoli: si manterrebbe l'interscambio privilegiato Usa-Cina, magari con un parziale riequilibrio a favore dell'export americano, e i cinesi continuerebbero a finanziare il debito Usa, garantendo la precaria stabilità finanziaria di un paese che ormai ha un debito pubblico che è aumentato del 50% dall'apice della crisi (fine 2008) e va verso il 100% del Pil.

La Cina subisce dunque in una certa misura gli effetti delle manovre degli USA, ma in quanto potenza in ascesa ha un ampio ventaglio di possibilità di azione e si muove di conseguenza, contrastando di fatto l'egemonia americana in tutti i settori e in tutte le aree, compreso il “cortile di casa” del Latinoamerica. 

UE preagonica

Quanto alla UE, tra giugno e novembre il dollaro aveva perso il 20% sull'Euro (9), e la manovra della Fed avrebbe probabilmente accentuato la tendenza se non fosse intervenuta una nuova crisi dei debiti sovrani europei, questa volta di Irlanda e Portogallo. Grazie a questa crisi, a metà novembre l'Euro era sceso del 6% sul dollaro dai massimi di inizio mese (1,30 $ a fine novembre). Una vera manna per l'export della Germania, il secondo paese esportatore al mondo dopo la Cina. Le dichiarazioni del ministro delle finanze tedesco, che ha parlato di ristrutturazione dei debiti, accentuando la tendenza alla speculazione sui titoli di quei paesi, sono state forse tutt'altro che “inopportune”, come molti le hanno definite, specie se si considera che sono state rilasciate pochi giorni dopo il Quantitative Easing Usa. E' pur vero che il 40% dell'export tedesco è diretto nell'area Euro, per l'80% è addebitato in Euro, e soprattutto che le banche tedesche sono le più esposte in titoli di stato irlandesi. Tuttavia, spiegare tutto questo con una gaffe è ancora più riduttivo e semplicistico (10). In ogni caso, l'attuale disordine monetario si ripercuote direttamente sulle prospettive della moneta unica, passando per la crisi dei debiti sovrani. I Paesi che adottano l'Euro si indebitano in questa valuta, ma non esercitano in piena autonomia la politica monetaria per fronteggiare le situazioni critiche: in sostanza, non possono svalutare, riducendo per questa via l'ammontare del debito e rilanciando l'export. In Europa, la politica monetaria la fa la Bce e, tramite questa, la Germania, che detiene un forte potere di ricatto e indirizzo su tutti i paesi dell'area.

La Germania è orientata quanto la Cina a contrastare i rischi di inflazione e nell'attuale fase oppone  resistenza ai salvataggi del debito dei Paesi in difficoltà, che vengono subordinati al rigore estremo dei conti pubblici, a tagli e licenziamenti – insomma, a “lacrime e sangue”. La Germania, in un'Europa che nel complesso cresce meno di tutti i concorrenti internazionali, è il paese con la crescita più sostenuta proprio grazie all'Euro, ma ora non intende buttare le riserve accumulate grazie al crescente surplus con l'estero nel buco nero dei debiti degli Stati in crisi. Perciò, ai primi di dicembre, ha opposto molte resistenze ad un nuovo intervento della Bce a garanzia del sistema bancario europeo, in forte difficoltà per la crisi irlandese.

La scorsa primavera la Grecia, “salvata” dopo molti tentennamenti, presentava un deficit che dipendeva essenzialmente da conti pubblici fuori controllo. Il debito irlandese è più pericoloso perché riflette una crisi bancaria. Nel 2007 rappresentava solo il 12% del Pil, ma i debiti delle banche hanno costretto due anni fa il governo a garantirne l'intera esposizione per un ammontare di titoli pari al 30% del Pil (11).

L'enormità del debito di cui lo Stato irlandese si faceva carico, in prossimità della scadenza di gran parte dei titoli, ha innescato una crisi di fiducia sulla possibilità che il bilancio statale irlandese fosse in grado di assorbire un così alto volume di perdite, e una corsa alla vendita dei titoli di debito pubblico. La speculazione sul debito del Portogallo ha la stessa origine, e anche la Spagna presenta una situazione potenzialmente critica sul fronte delle banche. Nessuno conosce con certezza l'entità dell'esposizione, men che meno le “autorità di sorveglianza” europee che, in seguito agli esiti degli stress test, avevano giudicato in disordine i conti di non più di una dozzina di banche dell'area Euro. Se a novembre è stato il turno di Irlanda e Portogallo, domani potrà essere quello della Spagna e della stessa Italia, e allora il costo dei salvataggi risulterebbe insostenibile. Le possibilità di una reazione a catena sono altissime, se si considera che le banche tedesche e britanniche sono esposte per 100 miliardi di € ciascuna solo verso quelle irlandesi. Ciò ha indotto la Bce a immettere nuova liquidità nel sistema bancario, con l'acquisto di titoli e obbligazioni, con intento più difensivo, a carattere emergenziale, rispetto all'espansione quantitativa della Fed, decisamente “aggressiva”, che invece avrà riflessi su scala globale.

La Germania ha ritenuto nell'occasione di cedere alle pressioni di Italia, Spagna e Portogallo, tanto più che c'erano in ballo i bilanci delle sue banche, ma la discussione in seno alla UE ha messo in luce l'esistenza di contrasti sempre più forti. Si è opposta invece fermamente all'emissione di Eurobonds, perché sarebbe un altro modo per accollarsi il debito altrui. Una parte degli industriali tedeschi spinge per un'uscita dall'Euro, ritenendo che la forza della struttura produttiva della Germania sia ora in grado – dopo aver goduto per anni di un formidabile vantaggio competitivo rispetto ai paesi dell'area Euro – di poter fronteggiare la concorrenza di paesi europei con una moneta deprezzata dall'alto di un maggiore livello di concentrazione capitalistica e di produttività. La produttività dell'industria tedesca è infatti cresciuta nell'ultimo decennio molto più della media degli altri Paesi Ue, garantendole un vantaggio nel commercio intra-UE comparabile ad una svalutazione del 20% (12).

Su questa base si sta profilando nella Confindustria tedesca l'idea di un supermarco nordico (dall'Austria alla Scandinavia), che escluderebbe perfino la Francia, associata nel progetto agli Stati mediterranei con un Euro fluttuante al ribasso. L'economia tedesca poggia ancora in modo determinante sulla produzione industriale e sul suo export, le cui esigenze in questo momento non coincidono con gli interessi del suo sistema bancario, gravato di titoli illiquidi e orientato alla speculazione più spinta, e fortemente esposto nel debito sovrano degli stati in crisi..

La tempesta valutaria mondiale è dunque solo la manifestazione superficiale di una crisi che colpisce il sistema finanziario, generata a sua volta dalla crisi di sovrapproduzione, da un eccesso di capacità produttiva globale che innesca una concorrenza internazionale esasperata, tensioni tra gli Stati che preludono a riassetti  delle alleanze, crisi politiche che possono prospettare non solo la fine dell'Euro e della UE, ma finanche la disgregazione di entità statali, il cui territorio rientra solo in parte nell'area di diretta influenza economica del capitalismo dominante: come è nel caso, in Europa, di Italia e Belgio.

Impotenza del denaro

Sia gli Stati Uniti che la UE patiscono l'accumularsi di un'immensa liquidità che, anziché finanziare gli investimenti produttivi, dai quali ricavare il vitale plusvalore, sta alimentando la speculazione quanto e più che nel periodo precedente la catastrofe finanziaria del 2008. Le banche sono state salvate e dispongono di abbondante liquidità, ma non c'è sbocco per gli investimenti nella produzione, perché c'è un eccesso di capacità produttiva in rapporto alle capacità di consumo delle masse; ma anche perché nei paesi di vecchio capitalismo si estrae ormai un saggio del profitto medio troppo basso perché gli investimenti diventino effettivamente redditizi. La speculazione e il flusso di capitali verso gli “emergenti” diventano allora vie obbligate. (13)

I costosi interventi pubblici di sostegno al sistema finanziario, aggiunti ai trasferimenti pubblici alle imprese in crisi e ai sussidi di disoccupazione, hanno accresciuto i deficit statali e i debiti sovrani, rendendo di difficile realizzazione le politiche fiscali espansive (di riduzione delle tasse) e obbligando tutti, in misura più o meno accentuata, a politiche monetarie espansive (14). Il disordine valutario riflette il gigantismo finanziario, l'avvitarsi della finanza nella spirale speculativa nell'illusione di “far soldi con i soldi” all'infinito, senza passare per la creazione di nuovo valore attraverso l'estorsione di plusvalore nella produzione. Nei paesi di capitalismo stramaturo, più che un'illusione è una strada senza alternative. La Germania costituisce in parte un'eccezione, solo perché grazie all'Euro la sua industria ha potuto strapazzare i concorrenti nel mercato europeo e le difficoltà dei debiti pubblici riflettono in ultima analisi lo squilibrio competitivo, più o meno marcato, tra il colosso tedesco e tutti i partner. Finora la Germania ha assecondato i salvataggi per mantenere il vantaggio che deriva dalla moneta unica e preservare il proprio sistema bancario pericolosamente esposto: ma ora mantenere l'Euro comincia a costare troppo a tutti, tanto ai salvatori quanto ai salvati.

Se la crisi dell'Euro è riconducibile all'economia cosiddetta reale, ai divari di produttività tra i vari paesi, la crisi del dollaro deriva dalla stessa evoluzione economica che ha portato il capitalismo dominante a fondarsi sempre più sulla finanza e sempre meno sulla capacità produttiva, al punto da delegare a paesi esteri – principalmente la Cina – la produzione di beni di consumo per il proprio mercato interno, dando in cambio pezzi di carta senza alcun valore intrinseco: dollari. La situazione è giunta a un punto in cui, per la prima volta dal 1971, può essere messo in discussione l'esorbitante privilegio americano di stampare moneta mondiale a piacimento, mentre per tutti gli altri contendenti la possibilità di esportare capitali è subordinata alla creazione di avanzi commerciali e di bilancia dei pagamenti.

La crisi del dollaro è un aspetto della crisi della superpotenza atlantica. Ma, in quanto questa incarna l'evoluzione estrema del Capitale verso la finanziarizzazione, la crisi del dollaro è in senso ampio crisi del denaro come espressione mistificata di un rapporto sociale  al capolinea storico.

Con l'“espansione quantitativa” della Fed, gli USA ripropongono un atto di forza a distanza di quarant'anni dalla “dichiarazione di inconvertibilità” del 1971, ma in un contesto di rapporti interimperialistici completamente diverso e denso di incognite, dove all'evidente tendenza declinante del vecchio padrone fa riscontro l'ascesa poderosa di un nuovo concorrente. Quest’ultimo, se al momento non ha alcun interesse ad affossare il dollaro perché salterebbero le condizioni monetarie di una crescita basata sull'export, si sta muovendo per il superamento dell'attuale regime monetario internazionale, ormai non più corrispondente ai nuovi rapporti di forza. L'affrancamento dal ricatto del dollaro e la fine dell'arbitrio americano di inondare a piacimento il mondo di dollari passano attraverso la diversificazione delle riserve, l'esportazione di capitali in varie forme, la pressione sugli organismi internazionali e la prospettiva – non più così remota – della convertibilità dello yuan e del suo utilizzo negli scambi internazionali.

Ma la questione rimanda ai rapporti di forza globali e alla definizione di un nuovo “ordine” mondiale, ammesso e non concesso che questo modo di produzione sia ancora in grado – pur con tutta la violenza organizzata di cui dispone – di imporre stabilmente la propria legge, nuovi padroni, nuove monete.

Parte II (il programma comunista n°03 - 2011)                                      

 

Note:

1. In questo lavoro, noi supporremo “per approssimazione” che il dollaro, moneta nazionale, circolante nazionale, rappresenti la “moneta mondiale”. E’ un rapporto di forze quello che stabilisce storicamente che cosa rappresenti una moneta nei confronti delle altre monete nazionali: e indubbiamente il dollaro, per quanto declinante, è una gigantesca forza economico-finanziaria dominante. Riportiamo di seguito alcuni brani tratti da Per la critica dell’economia politica di Marx (Editori Riuniti, pp.131-135): in essi, si convenga di sostituire “dollaro” a “oro e argento”. Messo in soffitta l’oro, possiamo vedere quali prerogative discendono al dollaro in questa sua funzione. Pur circolando entro uno spazio nazionale, la prima funzione che assume è quella di appartenere a un dominio internazionale, non come mezzo di circolazione, ma come mezzo di scambio. Scrive dunque Marx: “Quanto più si sviluppa lo scambio di merci tra sfere di circolazione nazionali diverse, tanto più si sviluppa la funzione della moneta mondiale come mezzo di pagamento per la compensazione dei bilanci internazionali”. Ma “la circolazione internazionale richiede una quantità di oro e di argento sempre mutevole […] presso ogni popolo deve esistere un fondo di riserva della moneta mondiale che ora si svuota, ora si riempie di nuovo, a seconda delle oscillazioni dello scambio di merci [… ] la moneta mondiale ha un movimento generale i cui punti di partenza si trovano alle fonti della produzione, dalle quali corsi d’oro e d’argento scendono in direzione diversa sul mercato mondiale. Come merci, l’oro e l’argento entrano qui nella circolazione mondiale e come equivalenti sono scambiati in proporzione del tempo di lavoro in essi contenuto, con equivalenti in merci prima di finire nelle sfere della circolazione interna. […] Come l’oro e l’argento, in quanto denaro, sono nel concetto la merce generale, così nella moneta mondiale, acquistano la corrispondente forma d’esistenza di merce universale. […] Quindi, mentre le nazioni di possessori di merci, mediante la loro industria universale e il loro traffico generale trasformano l’oro in denaro adeguato, industria e traffico appaiono loro soltanto come mezzi per sottrare il denaro, nella forma di oro e di argento, al mercato mondiale […] L’oro e l’argento come moneta mondiale sono quindi tanto il prodotto della circolazione generale delle merci come anche mezzo per estenderne l’orbita”.

E così continua: “Allo stesso modo che alle spalle degli alchimisti, che volevano fare l’oro, nacque la chimica, alle spalle dei possessori di merci che danno la caccia alla merce nella sua forma fatata, sgorgano dal suolo le fonti dell’industria e del commercio mondiali. L’oro e l’argento aiutano a creare il mercato mondiale anticipando nel loro concetto del denaro l’esistenza del denaro. Allo stesso modo che il denaro si sviluppa in moneta mondiale, il possessore di merci si sviluppa in cosmopolita. La relazione cosmopolitica fra gli uomini è in origine soltanto il loro rapporto come possessori di merci. La merce di per sé è superiore a ogni barriera religiosa, politica, nazionale e linguistica. Il suo linguaggio generale è il prezzo, e la sua comunità è il denaro. Ma con lo sviluppo della moneta mondiale in contrapposizione alla moneta nazionale, il cosmopolitismo del possessore di merci si sviluppa come fede della ragione pratica in contrapposizione ai pregiudizi religiosi, nazionali ed altri che ostacolano il ricambio organico dell’umanità. Come quello stesso oro, che nella forma di eagles americani sbarca in Inghilterra, diventa sovrana, dopo tre giorni circola a Parigi, come napoleone, dopo alcune settimane si ritrova a Vienna come ducato, ma conserva sempre lo stesso valore, così diventa chiaro per il possessore di merci che la nazionalità ‘is but the guinea’s stamp’ (è l’impronta della guinea). L’idea sublime in cui si trasfigura per lui tutto il mondo, è quella di un mercato, quella del mercato mondiale”.

 

2. A. Cesarano, “Verso un nuovo sistema monetario”, Affari e finanza, 15 novembre 2010.

 

 

 

3. Questo passaggio al sistema creditizio è insieme il riconoscimento “dell'assurda contraddizione e controsenso” (entro un sistema che ha abolito la produzione per il valore d'uso, dove "la produzione esiste soltanto come un processo sociale che si esprime nel concatenamento della produzione e della circolazione”) che la forma sociale della ricchezza si presenti come una cosa: l'oro, appunto(Cfr. Il Capitale, III). Nel 1971, sui nn.19, 20’, 21 di questo stesso giornale, ci occupammo della “dichiarazione di inconvertibilità” del dollaro, scrivendo: “L'ideale capitalistico sarebbe questo: M=D, cioè la massa dei valori prodotti (merci) uguale alla massa dei segni monetari [...] Senonché, ad un certo grado di sviluppo della produzione [...] sul mercato appaiono più merci e più segni monetari, com'è logico. Ma questi segni monetari hanno una funzione diversa dalla tradizionale moneta di scambio. Hanno vita indipendente dallo scambio delle merci. Si acquistano e si vendono come merce [...] Lo scambio M-D potrebbe ancora funzionare se solo si sapesse non solo la massa di M, ma anche quella di D. Sinché si produceva oro e argento la cosa era possibile, ma da quando chiunque può produrre cambiali o assegni [...] la conoscenza di questa massa di segni di valore è totalmente sconosciuta. E' imprevedibile. Da allora, da quando cioè i titoli di credito hanno soppiantato nel commercio di scambio l'oro e l'argento, la presenza della crisi è sempre latente”.

 

 

4. R.Sorrentino, “Solo vittime nella guerra tra le valute”, Il Sole 24 ore, 30/9/2010.

 

5. “La Fed spera così di influenzare direttamente i tassi a lungo nell'ipotesi che siano quelli che influiscono sugli investimenti, sulle accensioni di mutui immobiliari e sul credito al consumo. In sostanza, esaurite le pallottole dell'arma del tasso di riferimento, prossimo allo zero, l'unico modo per indurre le banche a concedere credito a tassi inferiori a quelli attualmente praticati è agire sul mercato dei titoli obbligazionari. Se i rendimenti di questi si abbassano, il sistema finanziario sarà indotto a fare maggiore affidamento sulla concessione dei crediti immobiliari e al consumo, che una volta riattivati agirebbero da volano alla produzione. Gli effetti della precedente EQ della Fed erano andati nella direzione desiderata: discesa dei rendimenti del Treasury bill, aumento del 10% dell'indice borsistico, deprezzamento del dollaro. Effetti meno desiderabili sono stati l'aumento del prezzo del petrolio, il ritorno della grande speculazione sulle materie prime e la mancata ripresa della crescita del Pil e dell'occupazione”. L'obiettivo del QE2 è il rialzo della borsa e delle materie prime, nella speranza che si trasmetta al mercato edilizio e faccia di nuovo risentire ricchi gli americani medi, il cui patrimonio sono la pensione futura, legata ai corsi di Wall Street, e la casa di proprietà. Ma è stata proprio questa politica, condotta nel ventennio di Greenspan e proseguita nel quinquennio di Bernanke, ad aver portato al disastro prima la finanza e poi l'intera economia mondiale (cfr. De Cecco, “Diabolica Fed, non impari mai”, Affari e finanza, 8/11/2010).

 

 

6. “L'essenza dell'attuale sistema monetario è la creazione di denaro attraverso l'attività di credito, spesso irresponsabile delle banche. Perché questa privatizzazione di una funzione del settore pubblico è cosa buona e giusta mentre le iniziative della banca centrale per venire incontro alle esigenze dei cittadini sono una strada verso la catastrofe? Quando le banche non prestano denaro e la massa monetaria in senso ampio quasi non cresce, La Banca centrale deve fare esattamentre questo” (M. Wolf, “Non sparate sul pianista Bernanke”, Il Sole 24 ore, 10/11/2010).

 

7. Cfr. L. Vinciguerra, “La Cina mette un freno ai prezzi”, Il Sole 24 ore del 18/11/2010, e “Stretta sulle banche cinesi”, Il Sole 24 ore del 20/11/2010.

 

 

 

8. Perfino la Banca centrale israeliana, a partire dall'inizio della caduta del dollaro, ha iniziato a contrastare decisamente la rivalutazione del tasso di cambio dello scheckel per salvare l'export di alta tecnologia, manipolando il cambio con “operazioni di mercato aperto”. E' la stessa politica che gli Usa rinfacciano alla Cina, ma l'esempio di Israele potrebbe essere seguito dagli altri emergenti dove la caduta del dollaro danneggia l'export e fa affluire masse enormi di capitali che innescano l'inflazione e il gonfiarsi di bolle speculative. Il governo brasiliano, per arginare il flusso di capitali e il conseguente forte apprezzamento del Real, ha raddoppiato la tassa sugli investimenti in entrata in titoli brasiliani a reddito fisso, e il Giappone ha inaugurato a sua volta una nuova fase di allentamento quantitativo, anticipando di un mese le mosse della Fed.

 

 

9. Bastasin, “Atlantico in piena tempesta”, Il Sole 24 ore, 11/11/2010.

10. M. Longo, “Quell'euro debole che alla Germania non dispiace, Il Sole 24 ore, 18/11/2010.

11. Alla vigilia della crisi, il totale delle attività del sistema bancario irlandese era arrivato al 703% del Pil (per l'Italia è il 243%); a fine 2009, per effetto della caduta del Pil, aveva superato l'800%. Di fronte a queste cifre, non si può parlare di speculazione, ma di corsa a vendere titoli sul mercato o al rifiuto di rinnovare i prestiti. Le possibilità di intervento della Bce non sono senza limiti: già ora gravano sui suoi bilanci titoli illiquidi per 130 miliardi di €. Cfr. M. Onado, “Alle banche serve una sfoltita”, Il Sole 24 ore, 2/12/2010.

12. Paradossalmente, il paese che ha operato il processo di riaggiustamento strutturale più intenso è la Germania, che ha sempre goduto della massima fiducia degli investitori. In questo paese sono state varate importanti riforme del mercato del lavoro che hanno ridotto la generosità dei sussidi di disoccupazione e aumentato la flessibilità dei contratti. Oggi in Germania la contrattazione al livello aziendale ha un peso molto forte, maggiore di quella nazionale, e i contratti a termine sono molto più diffusi che nel passato. Il costo del lavoro per unità di prodotto nelle regioni dell'Est è progressivamente calato da inizio anni 90 fino a essere inferiore a quello dell'Ovest di quasi il 50 per cento. Ciò ha consentito di aumentare gli investimenti diretti dall'estero e di ridurre la disoccupazione, al prezzo di una maggiore dispersione salariale tra i diversi settori e aree geografiche del paese. L'unificazione tedesca è stata un processo costoso per i tedeschi dell'Ovest, ancora incompleto. Ma la convergenza è in atto. Tra il '98 e il 2008 il gap tra Est e Ovest si è ridotto di 8 punti in termini di produttività del lavoro e di 4 punti in termini di Pil pro capite. Il rigore finanziario e la moderazione salariale dei tedeschi potrà sembrare eccessivo. Alcuni chiedono alla Germania politiche più espansive per ridurre gli squilibri commerciali tra i paesi europei. In effetti, il riaggiustamento strutturale della Germania ha prodotto una svalutazione effettiva del suo cambio reale nei confronti dei 27 paesi dell'Unione pari al 20% tra il 1994 e il 2009. Ma non è solo la moderazione salariale ad aver prodotto questo risultato. Le imprese tedesche hanno ottenuto forti guadagni di efficienza mediante la progressiva delocalizzazione di segmenti del processo produttivo nei paesi dell'Est Europa.” (P. Reichlin, “Spazziamo via il ghiaccio della UE”, Il Sole 24 ore, 4/12/2010.

13. Un recente studio di Mediobanca sulle grandi banche europee registra un aumento del 26% dei prodotti finanziari derivati nel primo semestre 2010 rispetto al 2009, per un totale di 4000 miliardi di € contro 3200. Essi rappresentano 1/5 degli attivi totali. I titoli illiquidi (non vendibili) rappresentavano il 36% dei mezzi propri ed il 38% del patrimonio di garanzia. L'ammontare dei titoli senza mercato è superiore o prossimo al capitale minimo per colossi come Deutsche Bank e Credit Suisse. Il patrimonio tangibile di Deutsche Bank rappresenta il 2% dei suoi attivi. Alla faccia dei conti sani di cui i tedeschi menano vanto, sputtanando le cicale mediterranee!

14. Sul Sole 24 ore del 2/12/2010 si riporta l'ammontare delle erogazioni Fed alle grandi banche, ma anche alle grandi imprese in seguito alla crisi: 600 miliardi di dollari; questo per ovviare alla paralisi della normale modalità di indebitamento delle imprese tramite commercial paper. Il Quantitative Easing 2 ha preceduto una manovra di stimolo di enorme portata: 900 miliardollari in due anni, che comporterà un aumento del deficit pubblico di 500 miliardi per ciascun anno.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)