La realtà economica del Maghreb e l’Italia

Pubblicato: 2011-04-06 21:23:10

Cerchiamo di disegnare un quadro della realtà economica del Maghreb, attraverso i dati economici dell’integrazione con l’Italia – cosa che ci serve anche per rispondere, in questo frangente, ai proclami terroristici della borghesia italiana sul pericolo di essere sommersi dagli immigrati in fuga, o di essere scavalcati dai concorrenti europei. In realtà, diffusissima è la presenza economica italiana in tutti questi paesi, e ciò è dimostrato anche dalla tardiva decisione d’intervento nella grande opera di “esportazione della democrazia” (in realtà, nella “crociata antiproletaria”). Non diversamente dalle borghesie arabe, l’Italia teme più di ogni altro paese del Mediterraneo lo scombussolamento dell’area e non vede l’ora che tutto ritorni come prima: teme cioè tanto una maggiore apertura quanto un restringimento delle relazioni di scambio. L’idea che con la democrazia si aprirebbe un Eldorado africano per l’Europa non alletta più di tanto il capitalismo italico, che ha sempre visto nella costa africana il proprio cortile di casa.

Attualmente, secondo le stime della Confindustria italiana, nell’area del Maghreb è rappresentato l’11% dell’export italiano e, stando ai dati del Ministero per gli Affari Esteri, l’interscambio con questa regione africana ha raggiunto, nel 2008, quota 39 miliardi di euro. Se mettiamo a confronto questi dati italo-maghrebini con l’intero interscambio con i paesi di vecchia colonizzazione, la valutazione che ne risulta è quella di una realtà di paesi perfettamente integrati nel capitalismo europeo: una connessione verticale di flussi di vario genere di merci, prodotti industriali, siderurgici, tessili, chimici, alimentari e soprattutto di materie prime (petrolio, gas)… E poi, il flusso della merce forza-lavoro, che non può essere interrotto, ma che deve essere controllato duramente ovunque si trovi, pena l’aggravarsi della crisi sulle due sponde. La rivolta popolare, ma soprattutto la lotta proletaria, per molti anni determinerà una condizione sociale generale sempre più critica. Questi dati riferiti a una relazione di scambio bilaterale spiegano solo parzialmente il rapporto quantitativo, ma bastano per definire il rapporto qualitativo complessivo: se la borghesia spalanca gli occhi estatica quando il PIL cresce a dismisura, per noi esso segnala invece il grado di proletarizzazione, di sfruttamento e d’immiserimento sociale complessivo. Crescita, sviluppo, indici di produttività, profitti, rendite, aumento della massa salariale rappresentano segnali di generale impoverimento sociale: solo un dato è per noi positivo, quello della crescita della proletarizzazione, che decreta l’approssimarsi della lotta di classe.

Vediamo dunque sinteticamente i dati a disposizione, paese per paese.

L’Egitto, con i suoi 85 milioni di abitanti, è la punta avanzata dello sviluppo del Nordafrica. L'Italia si conferma il suo primo partner economico e commerciale tra i paesi europei: è in assoluto il primo paese di destinazione delle esportazioni egiziane con il 9,4% e, tra i Paesi dell’Ue, il secondo maggiore esportatore. Il volume d'affari derivato dall'interscambio tra i due paesi nel 2009 ha superato i 4 miliardi di euro. L'Italia esporta in Egitto prevalentemente macchinari e apparecchiature meccaniche, prodotti chimici e della raffinazione del petrolio, ma anche energie rinnovabili oltre ad infrastrutture (trasporti). Importa soprattutto greggio, prodotti petroliferi raffinati, prodotti della metallurgia e chimici, oltre ai prodotti tessili e alimentari. Settori fondamentali per gli investimenti italiani nel Paese rimangono quello del petrolio e quello del gas, in particolare nel campo della prospezione e dell'estrazione. Nel campo delle infrastrutture, le Ferrovie dello Stato italiane sono coinvolte nella rete di alta velocità egiziana per la linea Cairo-Alessandria, e nelle comunicazioni, grazie all'accordo tra Poste Italiane e Poste Egiziane. Negli ultimi anni, ha assunto importanza anche la collaborazione nel settore sanitario e in quello scientifico.

La Libia, con una popolazione di 6,4 milioni nel 2009, ha un interscambio con l’Italia che raggiunge i 20 miliardi di euro, la cifra più alta tra tutti i Paesi del Maghreb, e presenta uno stato d’integrazione straordinario. Anche qui, l’entità della cifra è riconducibile in gran parte all’import nel settore degli idrocarburi e dei prodotti petroliferi grezzi (98%), che genera un flusso superiore ai 12 miliardi di euro all’anno, mentre l’export italiano si concentra soprattutto sui prodotti petroliferi raffinati e su macchinari e tecnologie industriali. L'asse energetico ha visto la maggiore crescita dopo la cancellazione dell'embargo sulla Libia nel 2003 e soprattutto dopo la firma del trattato di amicizia con l’Italia nel 2008: la Libia è il primo fornitore di petrolio (il 23% del totale) e il terzo fornitore di gas. Tripoli è uno dei principali produttori di petrolio in Africa, con 1,8 milioni di barili al giorno, e si pensa che le sue riserve ammontino a 42 miliardi di barili. La fretta con la quale gli avvoltoi imperialisti si sono precipitati sull’area, scossa dalle rivolte, è dovuta proprio a questa massiccia presenza d’idrocarburi. Il petrolio rappresenta più del 95% delle esportazioni e il 75% del bilancio dello Stato. Il reddito pro-capite è di 9.714 dollari. Il PIL del 2010 è stato stimato in media superiore al 4%, superiore dunque al 3,4% del 2008 e all’1,75% del 2009. Il grado d’integrazione commerciale complessivo della Libia oscilla tra il 90% e il 100%. Impregilo, la società più colpita in Borsa dall'infiammarsi degli eventi, è impegnata nel Paese in opere infrastrutturali per circa un miliardo di euro. Le imprese di costruzioni hanno preso il volo: a Tripoli, nella Impregilo Lidco, opera il fondo sovrano libico al 40%. Sono in progettazione o sono stati realizzati centri universitari, opere di urbanizzazione, aeroporti, centri ministeriali, complessi industriali. I fondi libici stanno inoltre facendo sbavare le italiche famiglie industriali dei Benetton, dei Gavio, dei Ligresti.

La Tunisia, con più di 10 milioni di abitanti, è il secondo partner commerciale dell’Italia, oltre che il più prossimo dei paesi del Maghreb e punto di partenza dei migranti: così, la rivolta ha immediatamente riversato tutte le sue contraddizioni economiche e sociali sull’Italia. Povera d’idrocarburi (a parte i fosfati), la Tunisia interessa le imprese italiane che si occupano di elettricità ed energie alternative: si prevedono la posa di un elettrodotto sottomarino della capacità di circa 1000 MW e la costruzione di una grande centrale elettrica da 1200 MW, in totale per 2 miliardi di €.  L’interscambio commerciale tra l’Italia e la Tunisia va oltre i 5 miliardi di euro (stime 2008). Il Paese è il secondo mercato più importante del Mediterraneo per i prodotti italiani, dopo la Turchia. Principali voci dell’export italiano sono i macchinari di varia tipologia e i tessuti, seguiti dai prodotti petroliferi raffinati. Le importazioni riguardano principalmente i settori del tessile e quello calzaturiero, seguiti dagli idrocarburi (attraverso la Tunisia, passa il gasdotto che trasporta in Italia il gas naturale proveniente dall’Algeria). La presenza di industrie italiane è notevole: sono circa 680 le aziende italiane di tutte le taglie operanti nel Paese, con un numero di addetti che supera le 55.000 unità e un totale di investimenti di circa 216 milioni €. “La Tunisia – recita la propaganda industriale e turistica – presenta caratteristiche ideali per gli investitori italiani, grazie alla vicinanza geografica [dai 70 ai 100 km: cioè, permette la fuga in massa dei migranti proletari nei barconi], alla ‘stabilità politica e sociale’ [sic!], a normative particolarmente favorevoli in materia di incentivi per i compratori di forza-lavoro [leggi: i salari da fame!] ed al basso costo dei fattori di produzione”. Gli investimenti italiani sono diretti in diversi comparti dell’economia locale, con prevalenza nei settori della chimica e della gomma, degli idrocarburi, elettrico ed elettronico, dell’edilizia, dei trasporti, del turismo, meccanico e metallurgico, agro-alimentare e agricolo, del cuoio e delle calzature. Qui non si sono solo inserite l’industria tessile e calzaturiera, e quella olearia, ma soprattutto gioca un ruolo importante il cosiddetto export temporaneo di prodotti semilavorati, perché proseguano o completino la lavorazione in impianti fuori dai territori nazionali: è qui infatti che si trova una delle destinazioni favorite della delocalizzazione, ossia lo spostamento di stabilimenti industriali facenti capo a imprese al di fuori dei confini nazionali, spostamento dovuto principalmente all’abbattimento dei costi di gestione e del lavoro.  

L’Algeria, con 35 milioni di abitanti, è un partner economico di primissimo piano per l’Italia: il secondo partner commerciale dopo la Francia. L’interscambio commerciale (stime 2010) ha superato la cifra di 8 miliardi di euro, con 150 società italiane impegnate su suolo algerino in settori che vanno dall’impiantistica industriale all’agroalimentare, passando per il settore idrico, quello energetico e quello delle infrastrutture. Le esportazioni italiane riguardano le macchine industriali, autoveicoli (Fiat, Iveco) e materiale siderurgico (Ansaldo). Importa alimentari, ortaggi e frutta, cuoio e pelli conciate E’ il primo fornitore di gas naturale (5322 miliardi di €), che corrisponde al 35% del fabbisogno italiano. La quasi totalità dell’import proveniente da Algeri è composta appunto d’idrocarburi; la punta di diamante è costituita dalle grandi imprese coinvolte nell’estrazione, nella preparazione e nel trasporto d’idrocarburi, in primis Eni, Enel, Edison, Snam, Saipem. Il gasdotto è il Transmed, che collega Algeria e Sicilia attraverso la Tunisia. Nei prossimi anni, si prevede un altro gasdotto (Galsi), che dovrebbe arrivare in Sardegna e da qui in Toscana. A tutto questo si accompagnano dunque i prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio. Si stima che gli investimenti diretti esteri, ovvero l’afflusso di capitali in Algeria, sia troppo basso (il valore stimato è solo di 3 miliardi, per un paese che ha notevoli potenzialità economiche). La rivolta sociale in corso, che non ha espresso ancora le potenzialità delle lotte operaie, potrebbe dare una tremenda botta al capitalismo italico, se pensiamo che negli ultimi anni in Algeria il ritmo d’incremento del PIL medio è stato del 4%. Che la protesta rientri è la prima delle preoccupazioni: che il processo economico si mantenga ai livelli di prima è il desiderio più acuto.

Il Marocco, con una popolazione di 32 milioni di abitanti nel 2009, è quello che, in proporzione, incide di meno sulla bilancia commerciale: l’interscambio con l’Italia, per il 2008, si ferma a poco più di 2 miliardi di euro, il che è in parte dovuto alla scarsità di risorse energetiche, in confronto ai Paesi vicini. L’import/export si basano, rispettivamente, su prodotti d’abbigliamento, ittici e chimici da una parte, e su macchinari industriali e materiale tessile dall’altra. Come accade anche con la Tunisia, benché in misura minore, il “traffico di perfezionamento” e il turismo sono le voci più importanti nella bilancia commerciale tra Roma e Rabat.

Da questi pochi dati, è possibile constatare il grado altissimo di integrazione economico-finanziaria fra l’area del Maghreb e l’Italia, e quindi anche la misura della forza dell’imperialismo italiano. Nello stesso tempo, proprio questa integrazione capitalistica ha creato le basi per il diffuso e magmatico movimento di rivolta cui stiamo assistendo oggi e prepara domani le condizioni oggettive per il crollo definitivo.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)