Algeria, Tunisia, Egitto, Libia… E poi? Sempre più instabile il modo di produzione capitalistico

Pubblicato: 2011-03-14 16:41:16

Lasciamo ad altri la cronaca spicciola degli avvenimenti, la narrazione giornalistica condita di color locale e di sensazionalismo, la retorica dei luoghi comuni. Andiamo al cuore dei fatti, delle dinamiche, delle prospettive di quanto è successo e sta succedendo in quella fascia di paesi che va ormai dal Marocco all’Iran, scendendo giù per la penisola araba. Con intensità ed estensione diverse, le masse proletarie e proletarizzate di questi paesi sono scese in piazza, fregandosene altamente degli appelli alla moderazione. Dopo decenni di oppressione e repressione, di inganni politici (laici e religiosi), di tradimenti e voltafaccia di movimenti autoproclamatisi “fratelli” o “amici”, hanno fatto saltare il coperchio istituzionale e legalitario che le schiacciava.

Hanno dimostrato (in maniera inconsapevolmente ma magnificamente materialista) che, non importa quanto profondi siano oggi la solitudine, l’isolamento, il frazionamento del proletariato mondiale, non importa quanto devastante sia stata la controrivoluzione degli ultimi ottant’anni, è sotto la pressione insopportabile dei fatti materiali che ci si ribella: fame, miseria, disperazione, impossibilità di sopravvivere, mancanza totale di prospettive… Non in nome di Cristo o di Maometto, non per qualche miserabile riforma di questo o di quel codice, non per salvaguardare chissà quale “diritto” caduto non si sa bene come dal cielo: ma perché non ce la si fa più a vivere, o addirittura a sopravvivere.

 

Ora è tempo di mettere in chiaro alcune cose. Non spendiamo più di tante parole a smentire che si sia trattato di una “rivoluzione”, come si sente dire invece da ogni parte e soprattutto da tutti coloro che, in Occidente, storcono il naso e fanno sorrisetti di circostanza quando sentono parlare di lavorare per la rivoluzione, e poi si riempiono la bocca a sproposito della parola “rivoluzione” quando vedono l’occasione per sparar cretinate.

Non è stata una rivoluzione. Una rivoluzione mette in discussione non un regime (foss’anche quello più becero), ma un intero modo di produzione. In Algeria, Tunisia, Egitto, Libia e altrove, c’è stato un possente ed esteso moto di ribellione, partito dalle masse proletarie e proletarizzate che hanno detto basta! Il peso di una controrivoluzione che dura da più di ottant’anni (e dunque sia l’inerzia del proletariato delle cittadelle imperialiste sia la mancanza di un partito rivoluzionario radicato internazionalmente sia infine lo stesso carattere istintivo e non organizzato delle rivolte) ha impedito fin dagli inizi che questo moto (splendidamente possente) potesse trasformarsi in qualcosa di anche lontanamente simile a un moto rivoluzionario. E tanto basti per il momento, perché su ciò torneremo.

Non siamo nemmeno in presenza di qualche tardo sussulto di moti anticoloniali. Il ciclo delle rivoluzioni nazionali e anticoloniali s’è chiuso a metà anni ’70, tra Vietnam e Angola. Da allora, tutti i paesi che hanno conosciuto le “delizie” della dominazione coloniale (lo sfruttamento selvaggio di manodopera e materie prime che ha reso possibile il boom economico del secondo dopoguerra, ingrassando tutti i cosiddetti “paesi avanzati” e contribuendo a riempire le tasche con quelle “riserve” utili e necessarie per ritardare lo scoppio del malcontento sociale), quei paesi sono paesi capitalisti in tutto e per tutto, gestiti da borghesie intrallazzone, compromesse con i vecchi regimi, legate a questo o quell’imperialismo, sedute su barili di petrolio e vagoni di materie prime e metalli preziosi, sempre pronte ad alimentare “conflitti religiosi” e “scontri etnici” (e magari anche a proclamarsi, a parole, antimperialiste!), affittandosi a questa o a quella banda di legionari stranieri o indigeni (comunque si chiamino) per massacrare popolazioni inermi. La miserabile storia della borghesia mondiale (Inghilterra, Francia, Italia, Stati Uniti, Germania… ) continua dunque in questi paesi, con un grado di violenza e cinismo reso ancor più alto dall’inarrestabile processo di putrefazione imperialistica. E continua anche dal punto di vista dei regimi che hanno gestito questo trapasso, dall’epoca coloniale a quella post-coloniale: regimi nella quasi totalità militari, gestiti da colonnelli, generali, dittatori e autocrati, come si conviene a una fase di trapasso in cui il potere va gestito (anche – se necessario – in forma dinastica) nella maniera più centralizzata, più autoritaria, più univoca (oltre che più corrotta) possibile – perché è così che ci si assicura la paralisi sociale all’interno e il canale privilegiato degli affari economici con l’esterno: bastone, carote, mazzette. Di nuovo, basta andarsi a studiare le dinamiche di potere dei regimi capitalistici nella loro storia secolare per rendersene conto.

Non siamo nemmeno in presenza di moti a sfondo religioso. Non ci sono qui (almeno per il momento) ayatollah fondamentalisti pronti a cavalcare la tigre sociale e a sostituirsi a ormai impresentabili Scià, come avvenne a Teheran nel 1979. Né ci sono Hezbollah, Hamas e simili gruppi di copertura pseudo-religiosa a borghesie fetentissime in cerca di una fetta più grossa di rendita petrolifera. Tace infatti Hamas (che anzi è scesa in campo per controllare i proletari palestinesi nella Striscia di Gaza) e i Fratelli Musulmani se ne stanno in disparte, aspettando di vedere come tira il vento e recitando comunque la parte del partito “nazionale” e laicheggiante; quanto ad Al Qaeda, dimostra sempre più di non esser altro che una Legione Straniera in salsa fondamentalista, pronta ad affittarsi a questa o quella frazione borghese, nazionale o internazionale, per le sporche faccende di vendette trasversali.

Siamo invece in presenza di un movimento nato nel profondo del sottosuolo sociale e scatenato dal progredire della crisi economica, che – nonostante tutte le dichiarazioni di cauto ottimismo di “esperti” e politici – continua il suo cammino inesorabile, distruggendo presunte stabilità e certezze e al tempo stesso abbattendo muri e steccati ideologici e fondendo insieme, all’insegna dell’urgenza di sopravvivere, settori diversi di un proletariato mondiale sofferente e abbandonato a se stesso.

Proprio il succedersi degli eventi d’Egitto lo dimostra in maniera lampante. Qui, all’inizio dell’anno, un attentato a una chiesa cristiano-copta sembrava sul punto d’innescare l’ennesima spirale di conflitto religioso: la lettura che ne abbiamo dato noi era che la tensione sociale doveva essere arrivata a un punto davvero altissimo, se era stato necessario mandare in campo… Al Qaeda o chi per essa, secondo una prassi che s’è ripetuta tragicamente per tutto l’ultimo decennio. E difatti, come alcuni fra gli stessi osservatori borghesi hanno dovuto riconoscere (Corriere della Sera, 26/1: “La strage, sicuramente pianificata da estremisti sunniti legati ad Al Qaeda, aveva un obiettivo: quello di creare un conflitto fra musulmani e copti. Ma il piano non è riuscito…”), passano poche settimane e le masse proletarizzate egiziane, di qualunque confessione religiosa o appartenenza politica fossero, si sono ritrovate insieme nelle strade a combattere il loro unico nemico: l’oppressione capitalistica quotidiana, incarnata in Egitto da Hosni Mubarak, in Tunisia da Ben Ali, in Algeria da Bouteflika, in Libia da Gheddafi, e via di seguito [1].

Purtroppo, per le ragioni che dicevamo più sopra, non siamo in presenza di un processo rivoluzionario che possa avere come obiettivo quello di sovvertire il modo di produzione capitalistico, causa prima e unica delle sofferenze mostruose di un intero continente, di un intero mondo. Sta qui la tragedia infinita di oggi come di ieri, sta qui la ragione prima dei bagni di sangue che non cessano di sfibrare il proletariato mondiale da ormai ottant’anni. Così, soprattutto in Egitto, dopo la grande fiammata iniziale (300 morti almeno), abbiamo assistito al progressivo spostarsi dell’asse della rivolta dalle masse proletarizzate a frazioni borghesi (doppiamente legate alle borghesie internazionali con enormi interessi economici sul posto) che, annusato il vento, fanno in modo che “tutto cambi perché nulla cambi” e a una piccola borghesia democratica solo interessata a riforme di regime che le concedano (eterna illusione piccolo-borghese!) un maggiore margine di manovra. Sotto la pressione incessante della crisi economica, la rigidità piramidale della struttura di potere che aveva assicurato quel passaggio dall’epoca coloniale a quella post-coloniale (e che, così facendo, aveva generato – anche attraverso un’ampia rete di corruzione gestita centralmente – un crescente ceto borghese di affaristi d’ogni genere), quella rigidità doveva saltare, doveva lasciare il posto a dinamiche più fluide e “libere” – un “si salvi chi può” tipico dei regimi borghesi in tempo di crisi. In un certo senso, nel loro profondo e dal punto di vista delle dinamiche borghesi, gli avvenimenti del Mediterraneo meridionale replicano quanto avvenne nella Russia di fine anni ’80 del ‘900: lo sviluppo capitalistico “in serra”, gestito centralmente, con strutture rigide e di Stato, attraverso le quali soltanto passava il commercio e l’interscambio mondiali, ha dovuto riconfigurarsi proprio sotto la pressione della nuova fase di crisi economica sviluppatasi a partire dalla metà degli anni ’70 [2]. Di qui, tutte le spinte centrifughe (sul piano economico, politico e sociale) che ne sono seguite e che ben conosciamo.

D’altra parte, non è una contraddizione il fatto che questo passaggio (verso una vagheggiata e impossibile “liberalizzazione” economica, politica e sociale, sempre e comunque nell’interesse del capitale) venga gestito ancora una volta dall’esercito, come sta avvenendo in Egitto a partire dalle prime settimane di febbraio. O meglio, è la “contraddizione” tipica del regime borghese in epoca imperialista, che i piccolo-borghesi piagnucolanti e le mefitiche frange pseudo-sinistre non possono cogliere: il capitale può solo essere autoritario, deve imporre il proprio potere sul luogo di lavoro come nella società. E’ intimamente fascista, nel momento stesso in cui si riempie la bocca di frasi “democratiche” e “liberali”: la storia italiana, nel trapasso dal ventennio mussoliniano al beato dopoguerra in cui siamo tuttora immersi, lo insegna magistralmente. E lo è soprattutto, intimamente fascista, là dove questo trapasso è stato messo in moto da possenti moti di rivolta delle masse proletarie e proletarizzate, scese in strada per motivi materiali e non ideologici – insomma, l’eterno spettro di un proletariato di cui la borghesia non può fare a meno e da cui è sempre e comunque terrorizzata. Non a caso, la prima misura adottata dal regime militare egiziano dopo il ritiro del “dispotico Mubarak” è stata il divieto di sciopero [3].

Per uscire da questo vicolo cieco (che non esclude altri bagni di sangue, in Egitto come altrove), dovranno maturare altre condizioni. La prima sarà lo stesso procedere della crisi: lo smantellamento delle “garanzie”, il peggiorare delle condizioni di vita e di lavoro, la repressione da parte delle classi dominanti attraverso il loro Stato (che non è “padre affettuoso” di tutti, ma “mitra puntato” a difesa del Capitale), tutto ciò, materialisticamente, riporterà alla ribalta la lotta di classe aperta. Decisivi, in questo senso, saranno il risveglio e il ritorno in campo dei proletari d’Occidente (da tempo ormai compagni di lavoro e di condizione di decine di migliaia di proletari immigrati da quegli stessi paesi alla ribalta in questi primi mesi del 2011): proletari d’Occidente addormentati e drogati da decenni di finto benessere e soprattutto decapitati della loro testa pensante e dirigente, il partito rivoluzionario. Anche questo ritorno sulla scena del proletariato in lotta dipende infatti (seconda condizione) dalla misura in cui procederà il lungo e difficile lavoro controcorrente di radicamento del partito comunista internazionale, e si affermerà in maniera decisiva la sua influenza schiacciante sulle avanguardie in lotta, contro tutti i traditori (sindacali e politici) del proletariato.

Mentre ci aspettiamo che l’incendio avanzi con le sue inevitabili pause e attenuazioni, ma anche con le sue improvvise vampate, lavoriamo dunque per sviluppare e radicare il partito rivoluzionario, per combattere le nostre rispettive borghesie nazionali, per contribuire alla saldatura fra i vari reparti di proletari in lotta. Per fare del Mediterraneo davvero un mare nostrum: rosso come la nostra bandiera!



[1] Mentre stiamo scrivendo (inizi di marzo), i “fatti di Libia” sono ancora in corso – ne parliamo in altra parte di questo stesso giornale, riservandoci di commentarli in maniera più approfondita nei prossimi numeri.

[2] Cfr. quanto scrivevamo in “Il mito della ‘Pianificazione socialista’ in Russia” (Quaderni del Programma Comunista, n. 1, agosto 1976) e in “La Russia si apre alla crisi mondiale” (Quaderni del Programma Comunista, n. 2, giugno 1977), dunque ben prima del fatidico 1989-90!

[3] Quanto sia minacciosa per la borghesia la presenza proletaria in piazza è testimoniato dal fatto che, nel silenzio dei media che invece dedicano sbrodolate senza fine alla “rivoluzione via internet”, gli scioperi in Egitto continuano con vigore: nell’industria tessile (al Cairo, a Damietta e a Mahalla, già protagonista di grandi movimenti di lotta negli anni scorsi), nell’industria petrolifera (i lavoratori della Petrotrade), nel turismo e nei trasporti…

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)