Le incessanti miserie dell'opportunismo

Pubblicato: 2011-02-14 22:21:06

A proposito di un convegno internazionalista

Il 14 aprile u. s., s’è tenuto a Milano, presso la Libreria Calusca, un “Convegno Internazionalista” sui temi della situazione mediorientale (e dell’intervento militare italiano in particolare) e della risposta da dare alla guerra. Che dire di questo genere di iniziative, se non il peggio? Gli organizzatori e i convenuti facevano parte di un’area composita che intendeva valutare la possibilità di organizzare un lavoro comune “di lungo respiro” nei prossimi appuntamenti contro la guerra. Tra i partecipanti, anche Battaglia comunista (BC), la Corrente Comunista Internazionale (CCI) e Rivoluzione comunista (RC), i quali evidentemente pensano che a questi convegni vada dato un apporto programmatico (scritto o verbale) per giungere così a un minimo di omogeneità politica, in vista di un intervento comune. La cosa non ci sorprende: la pretesa che in questi convegni si chiariscano le idee, che quelle “rivoluzionarie” facciano breccia su quelle “andate a male”, che “la moneta buona scacci quella cattiva” (come si dice in economia), è propria delle illusioni piccolo-borghesi. In verità, si tratta della solita vecchia logica degli “intergruppi”: che è poi la logica dello “scaffale di supermercato” – le merci messe in mostra perché qualche gonzo le “scelga”. Il fatto è che le merci esposte sono della peggior specie, scadute e deteriorate!

 

Sulla base degli interventi e della documentazione distribuita al Convegno, passiamo a esaminare le posizioni di alcuni di questi gruppi, internazionalisti a parole, ma nazionalisti nei fatti. Rimandando chi ci legge ai nostri lavori recenti e passati sulla “questione mediorientale” [1], ci limitiamo qui a rilevare l’insieme delle contorsioni teoriche e tattiche che accomunano i convenuti, al di là delle piccole differenze formali: e riferiremo solo di alcuni di essi, per dare un quadro sommario delle miserie attuali dell’opportunismo. Appare chiara in alcuni gruppi la “vocazione resistenzialista”, in altri è forte il richiamo a un “supplemento di rivoluzione borghese”; per alcuni, l’economia capitalisticamente avanzata preannuncia la “rivoluzione ad egemonia proletaria”; per altri, l’arretratezza economica porta in direzione opposta, verso una “vera” rivoluzione borghese (“rimasta incompiuta”), magari con il supporto determinante del proletariato; per altri ancora, l’autodeterminazione palestinese è al centro della scena, leva necessaria e insostituibile per un cambiamento rivoluzionario con fine immediato la “distruzione dello Stato sionista”. Non mancano poi una sottolineatura dell’islamismo “bandiera degli oppressi” e un “anti-imperialismo” fiancheggiatore del fondamentalismo, visto come esecutore testamentario dell’unità araba mancata.

Questi gruppi, circoli, reti, “pub letterari”, non parlano mai della necessità del partito comunista su scala internazionale (è l'ultima delle loro preoccupazioni). E, se parlano di internazionalismo, tutt’al più intendono una federazione di nazioni all’interno di un altro quadro politico borghese. Propongono invece quella che è la vera tragedia per il proletariato (che oggi preme, purtroppo solo a livello istintivo e spontaneo, contro la guerra e contro la pulizia etnica e religiosa in corso, partendo dai propri bisogni immediati, con lotte che non ci sogniamo affatto di negare o di frenare): il suo coinvolgimento con la marmaglia delle fazioni borghesi contrapposte, laiche o religiose poco importa, in un abbraccio resistenziale che questi gruppi di impazienti piccolo-borghesi vorrebbero stimolare ad ogni costo. Della parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario, nemmeno l’ombra: nemmeno sanno che cosa sia! D’altronde, non hanno dubbi: se una nazione è invasa da una potenza come quella americana, il proletariato aggredito deve fare il suo dovere patriottico (ricordate? “E il Piave mormorò, ‘Non passa lo straniero’”...). Guerra all’invasore, dunque! E non si  parli di disfattismo rivoluzionario contro il militarismo italiano! In fondo, si tratta di poche migliaia di volontari italiani, unità di poco conto...

Ma vediamo più da vicino alcune di queste posizioni, limitandoci a qualche incursione (da guastatori...) in questo territorio piccolo-borghese.

Il “Circolo Alternativa di classe” di La Spezia e il giornale “Pagine Marxiste” (PM) si fanno promotori del cosiddetto Partito Comunista Operaio d'Irak, che avrebbe le carte in regola per proporsi come alternativa a strategie unitarie “resistenziali” con forze borghesi laiche o islamiche. Sfugge (o si chiudono gli occhi sul fatto) che il PCOI abbia già dichiarato di voler mettere da parte “per il momento” la lotta per il socialismo (?) “a favore di obiettivi democratici e non  socialisti o classisti”, promuovendo un'organizzazione di massa, l'Irak Freedom Congress, per “liberare” i territori e costituire forme di “potere popolare” (PM, n° 15/2007). La cosiddetta “milizia popolare” contro l'occupazione ha come obiettivo il “ristabilimento delle condizioni democratiche”: non certo quello della lotta di classe. Sulla questione palestinese, PM scrive: “[Essa] può trovare soluzione solo nell'unione del proletariato arabo e israeliano [...], anche se... in una convergenza momentanea con la borghesia palestinese contro lo Stato sionista”. Dunque, il proletariato delle due nazionalità avrebbe il compito di aiutare l’attuale borghesia palestinese ad abbattere lo Stato d’Israele che le impedisce di costituirsi in “nazione”. Ma, anche immaginando l’unità del proletariato delle due nazionalità, quale ruolo può avere ancora la borghesia palestinese, se attualmente la sua esistenza pesa come un macigno sul proletariato palestinese? E quale forma statale dovrà assumere l'area dopo il rovesciamento dello “Stato sionista”, si chiede PM? E così risponde: “Se il proletariato ha preso il potere non avrà problemi a spazzare via le vecchie forme artificiali create dall'imperialismo, nel rispetto delle particolarità nazionali”. Lo immaginavamo. Cacciati (per modo di dire) dalla finestra, gli interessi nazionali rientrano dal portone. Ora, in epoca borghese imperialista, le particolarità nazionali non sono le caratteristiche etniche, ma gli interessi delle borghesie nazionali! A questo punto, il programma rivoluzionario del proletariato, il suo contenuto di classe internazionale, che fine hanno fatto?

Da parte sua, il Circolo Internazionalista di Torino, dopo aver mostrato alcuni dati statistici che individuano il carattere fortemente capitalistico assunto dall’area mediorientale, vede nell’Arabia Saudita il vero motore dello sviluppo economico e del futuro contrasto interimperialistico nell’area sotto l’insegna del panarabismo: “ L’Arabia Saudita assomma alla forza finanziaria in campo internazionale una forza militare egemone nella regione, pari quasi a quella di Turchia, Israele e Iran messi assieme”. La sua superiorità è alla base del tentativo, non ancora messo in atto, “di unificare militarmente l’area, se si esclude l’avventura della ricca frazione borghese impersonificata da Bin Laden” che mira “con atti terroristici all’unificazione araba sotto un nuovo califfato, tentativi molto discutibili e contraddittori” (?). Ciò detto CI riconosce che tutta l’area è percorsa da una “reazione resistenziale”. “Questa resistenza [...] contiene elementi di diversa natura, dal nazionalismo alla lotta di classe”. Ma, a parte l’attesa messianica di un’unificazione araba, la domanda fondamentale a cui CI non sa rispondere è: quale rivoluzione è in corso, quale è la classe d’avanguardia? Il testo invece prosegue a suon di... sondaggi: “L’apparente [?] alternativa tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista può essere risolta all’interno di un processo rivoluzionario” (cioè: tattica e prospettiva di classe procedono con il processo stesso, si autoaggiornano! roba da chiodi!), e poiché tutta l’area “rappresenta il 2,6% del Pil mondiale, sarebbe illusoria la possibilità di vittoria di una rivoluzione democratica o socialista…” (?). Per quanto riguarda l’intervento dell’internazionalismo in Italia, c’è da rabbrividire per l’intelligenza teorica e l’acume tattico che CI dimostra. Sentite: “Per quanto riguarda le mobilitazioni contro le missioni militari, recenti sondaggi ci confermano che la maggioranza degli italiani (60-70%) è contraria, ma le forze politiche parlamentari anche di sinistra, sono ‘obbligate’ ad ignorarli votando quasi all’unanimità per i finanziamenti. [...] abbiamo rilevato che i ¾ delle persone intervistate considerano l’ONU come espressione politica delle grandi potenze”. Da qui, una sbrodolata dopo l’altra: “ampi spazi si aprono”, anche “di ispirazione pacifista e cattolica” (volevamo ben dire!).

C’è da meravigliarsi se, in questa confusione, la “Corrente Comunista Internazionale” (CCI) nuoti come un pesce nell’acqua? E che, perentoriamente, dopo aver descritto l’inferno mediorientale, senza il benché minimo barlume di materialismo dialettico scriva: “ Il peso sempre più insopportabile della guerra e della barbarie nella società è una dimensione indispensabile della presa di coscienza da parte dei proletari sul fallimento irrimediabile del sistema capitalista”. Misticismo allo stato puro! Lo stato di disperazione porta al suicidio, non alla presa di coscienza; porta alla resa, non all’assalto al cielo! Per uscire dal tunnel del terrore occorrono il partito di classe, l’organizzazione, la lotta e la prospettiva classiste. La CCI ama la “crocifissione come via obbligata al socialismo”. I comunisti rivoluzionari no!

E passiamo a “Corrispondenze metropolitane” (CM), di Roma, che si muove sulla stessa lunghezza d’onda: Irak, Iran, Arabia Saudita, Siria tenterebbero di emanciparsi, anche se in modo velleitario, dalla dipendenza politica americana. La punta avanzata di questa volontà sarebbe espressa da Al Qaeda, che riproporrebbe l’unità araba travalicando i confini nazionali, combattendo tutte le borghesie collaborazioniste, e alimentando altresì lo scontro tra sunniti e sciiti. La politica americana avrebbe gli stessi obiettivi del colonialismo e per fine lo smembramento degli Stati-nazione del Medioriente, ritagliati dalle vecchie potenze colonialiste europee. La realtà mediorientale starebbe tutta all’interno della lotta di emancipazione della borghesia araba e non all’interno dello scenario di una prossima guerra mondiale. Ma poiché, avverte “CM”, le borghesie nazionali hanno esaurito la loro funzione progressiva, “la resistenza che potrebbe sortire effetti è quella proveniente dal proletariato e dalle altre classi più povere”. Per quale finalità? Ma evidentemente per l’indipendenza nazionale, “come ha fatto la Cina anche se non ha portato al Comunismo” (sic!). Ancora una volta, quindi, il proletariato dovrebbe caricarsi sulle spalle la rivoluzione borghese mancata. Un altro aspetto delle valutazioni piccolo-borghesi è poi il ritenere che, sull’arena dello scontro interimperialistico, la UE rappresenti “un polo imperialista in formazione”, che “ha i suoi balzi in avanti, ma anche le sue battute di arresto”. Poli omogenei di tal genere, abbiamo ripetuto più volte, sono pura fantasia. Tutti i grandi paesi europei sono imperialisti, tutti i paesi del Medioriente sono spinti nella stessa direzione, ma lo scontro bellico futuro vedrà contrapposti Stati e borghesie secondo direzioni in via di definizione: certo, nessuna unità araba e nessuna unità europea si porranno su fronti contrapposti. Il massiccio coro dei piccoli Stati arabi (e non solo) è attualmente in “offerta speciale” sul mercato mondiale.

Il Gruppo Comunista Rivoluzionario (GCR) esordisce attaccando Israele come Stato fanaticamente razzista e costituzionalmente “antiarabo”, che ha un DNA di tipo etnico-confessionale. La sua “natura colonialista e imperialista è l’elemento di forza dell’alleanza con gli Usa”. L’esordio, ormai sappiamo, è la premessa per agitare l’autodeterminazione palestinese e la distruzione di Israele. Per quale fine? Ma “per la rivoluzione democratica di area, la sola in grado di mettere in discussione la balcanizzazione del Medioriente”: “una rivoluzione democratica in un’area arretrata che coinvolge [...] una formazione economico-sociale più avanzata”. L’autodeterminazione libererebbe “gli antagonismi di classe latenti nella società israeliana e compressi nella morsa d’acciaio del sionismo”. Per avvalorare questa rivoluzione democratica, il GCR sostiene che nel Medioriente è presente un’“arretratezza qualitativa”. Il superamento dei rapporti di produzione precapitalistici e mercantili non testimonierebbe affatto dell’avvenuta creazione del mercato interno e della completa trasformazione in senso capitalistico di queste aree, né della trasformazione in senso democratico-borghese della struttura di questi stati” (valutazione economica, questa, che si discosta radicalmente da quella degli altri gruppi che ritengono il capitalismo mediorientale in stato di avanzato sviluppo, soprattutto in alcuni paesi). Scambiando le condizioni del proletariato moderno con quelle delle “masse povere inurbate precapitaliste” (“la sottomissione reale del lavoro al capitale” non sarebbe ancora avvenuta), il GCR conferma che la rivoluzione in corso è democratica. E chi deve dirigerla?  Se l’analisi fosse corretta, né la borghesia, che sarebbe solo allo stato nascente (accumulazione originaria), né il proletariato, che non esisterebbe in quanto tale, ma solo come massa povera. E invece, smentendo l’analisi fatta, ecco che si dice che la direzione deve avere come guida il proletariato e i contadini poveri. Lo sfondo economico presenterebbe il Medioriente con un livello di arretratezza maggiore di quello della Russia all’inizio del secolo scorso (ricordiamo lo scritto di Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, del 1899!). Un capolavoro d’incongruenze, per far passare il concetto che la rivoluzione futura non può che essere borghese, ma diretta dal proletariato. Dunque, e da capo, il proletariato si deve fare carico, non della sua rivoluzione, ma di quella borghese. Sembra ovvio che il proletariato debba mettere al centro la sua indipendenza. Ma per farne che? “Per assicurare alla stessa rivoluzione democratica un corso più radicale e favorevole”. Della “rivoluzione in permanenza” di Marx 1848 e della “doppia rivoluzione” di Lenin 1917, non c’è memoria. La stessa parola “socialismo” è scomparsa dal vocabolario. La parola d’ordine della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini poveri” è diventata la “rivoluzione democratica” tout court. In questo percorso, secondo il GCR, bisogna tenere un atteggiamento aperto a “movimenti e forze politiche che si scontrano con il capitale imperialistico [...] che possano essere strappati stabilmente all’influenza della borghesia e coinvolti nel processo rivoluzionario”. Non c’è dubbio che debba trattarsi di ceti medi produttivi, di piccola e media borghesia urbana e rurale. Conclusione: la “rivoluzione democratica” è quella che può agitare legittimamente la bandiera della difesa... della patria. Oggi più che allora, la resistenza, “in cui convergono forze diverse e finalità antitetiche [...] al di là delle specifiche organizzazioni politiche” è un “fenomeno sociale e politico che germina dall’oppressione imperialista stessa, e che in quanto tale deve essere appoggiata e non può non esserlo”. Da cui si evince che non ha alcuna importanza quali classi siano in lotta e per quali finalità: la lotta per la democrazia le tiene insieme tutti. Dove sta la differenza con l’“unità interclassista” del CLN in Italia fra il 1943 e il 1945? Per questi club senza partito, senza organizzazione, senza principi e senza finalità, tutto fa brodo. 

Rivoluzione Comunista (RC) avverte che le grandi potenze sono chiamate a svolgere il ruolo di polizia regionale contro ogni movimento curdo-palestinese-libanese, concordi con le cricche arabe moderate nello sterminio dei “movimenti nazionali” antimperialisti. Queste valutazioni vedono movimenti rivoluzionari borghesi là dove non esistono, dimenticano che gli Stati arabi e gli Usa tengono in caldo quegli stessi movimenti per frenare il proletariato, che la questione nazionale viene agitata solo a fini di conservazione e corruzione. Sullo stesso piano degli altri gruppi, RC  ricorda che l’unica possibilità per le masse proletarie palestinesi è il “rovesciamento dello Stato sionista e delle strutture semi-statuali  palestinesi” e “la formazione di una Federazione Socialista dei lavoratori palestinesi e israeliani”, che va considerata come “primo passo per un allargamento a tutta l’area mediorientale”. Soluzione questa che sa di... sanatoria condominiale, estesa ai condomini collaterali, ma che del proletariato ha un’immagine etnico-nazionale. Soluzione che dimentica l’intero quadro rivoluzionario mondiale in cui quello mediorientale è necessariamente inserito. Le attuali nazioni-fittizie arabe avranno un’influenza marginale quando l’area mediorientale sarà ridisegnata politicamente (e non formalmente) dal proletariato mondiale. E l’agitazione contro l’italo-imperialismo, contro la borghesia di casa nostra, sa più di regolamento di conti interni che di autentica strategia proletaria internazionalista.

Infine, Red Link (RL) distingue fra guerra interimperialista e aggressione armata imperialista. Mancherebbero le tre condizioni di una “classica” guerra imperialista: la chiamata in massa alle armi, l’esposizione di gran parte della popolazione al macello e le misure economiche di guerra. Ci vien da suggerirgli: la dichiarazione formale di guerra, le raccomandazioni  dell’ONU e il rispetto della convenzione di Ginevra... Secondo RL, la guerra, in quanto asimmetrica, non sarebbe più un conflitto interimperialistico, ma un’aggressione a senso unico, poiché manca la controparte con lo stesso livello di potenza distruttiva. Quindi, mai l’aggredito potrà diventare aggressore a sua volta; quindi, la forma classica della guerra interimperialistica non ha più alcuna possibilità di ripresentarsi. La difesa della patria, la resistenza patriottica, diventano l’unica strada percorribile. Lo sconvolgimento dell’area balcanica, di quella dell’est europeo, di quella mediorientale, del Corno d’Africa, del Caucaso sarebbero allora, secondo queste valutazioni, semplici guerre locali, del tutto estranee all’intreccio interimperialista. Sembra davvero che la memoria faccia cilecca: si pensi alle guerre che anticipano la prima e la seconda guerra mondiale (dalla guerra nei Balcani a quella di Spagna)! Costoro dimenticano che il posizionamento logistico e strategico fa parte dei preparativi di guerra, che l’aggressione è parte del processo di preparazione della guerra guerreggiata tra le grandi potenze, in cui l’aggredito diventa a sua volta aggressore. Chi paga in questo contesto non sono le borghesie, pronte a vendersi all’uno e all’altro fronte, ma il proletariato. E, se nell’immediato non c’è la controparte, essa verrà all’appuntamento storico. Per adesso, si tratta di affari, di commercio d’armi, di giocatori (con una potenza di fuoco inimmaginabile mezzo secolo fa) che stanno a saggiare il terreno dell’avversario e delle sue forze in campo, di sfruttamento del proletariato su ampia scala. Conseguentemente, RL non parla di disfattismo rivoluzionario, “perché è un suicidio nei paesi aggressori e una capitolazione nei paesi aggrediti”. Lanciato su questa china, RL rimprovera all’estrema sinistra (?), nel corso dell’aggressione americana in Irak, il suo assurdo distinguersi da Saddam (“dittatore sanguinario”), dal nazionalismo arabo, dal terzomondismo, da Bin Laden e dal fanatismo religioso. Che cosa dire? Quel che ci si aspettava, cioè l’esaltazione della resistenza: “per battere il nazionalismo e l’islamismo bisogna mettersi innanzitutto all’altezza della situazione: organizzare la resistenza armata”. “Predicare il disfattismo rivoluzionario contro le organizzazioni nazionaliste e islamiste è, oltre che sbagliato, anche equivoco. In un paese occupato le masse non aderiscono alla resistenza perché costrette dalla cartolina precetto, ma per dedizione spontanea”. Ma qual è la posizione dei comunisti se non quella di indicare una prospettiva che allontani i proletari dalla spontanea adesione (che la borghesia riesce ad ottenere dalle masse e che porta inevitabilmente alla sconfitta)? RL aggiunge poi:“Queste masse non si battono con una generica lotta di classe, costituita da scioperi, cortei, come si fa in occidente, non sono ottuse, oppiate dal tribalismo e dal dispotismo orientale, accese dal fanatismo islamico e inchini al suicidio”... Il tutto si traduce quindi in un inno allo spontaneismo, alla resistenza nazionale, al difesismo, con le masse che finiscono dritte nelle reti dell’opportunismo becero in tutte le sue vesti, sia in Irak che in Occidente, proprio perché non sanno quale sia la strada della lotta di classe (di cui il disfattismo rivoluzionario è un’arma indispensabile), non sanno della necessità del partito di classe distrutto dalla stalinismo (di cui RL ha ereditato in pieno ogni sfumatura, teorica e pratica).

Questa in estrema sintesi la radiografia del Convegno.

Nessun cenno alla necessità del radicamento internazionale del partito di classe, incapacità di vedere la “questione mediorientale” nel più ampio contesto dello scontro interimperialistico e dunque di cogliere il legame necessario fra lotta delle masse diseredate mediorientali e ripresa della lotta di classe aperta nel cuore euro-americano dell’imperialismo, equivoco silenzio sulla prospettiva di un nuovo conflitto mondiale e dunque rifiuto di principio della parola d’ordine comunista del “disfattismo rivoluzionario”...

Internazionalismo? Ma ci facciano il piacere! Nazionalismo puro e semplice.

 



[1] Si veda in particolare l’articolo uscito sul numero scorso di questo giornale e intitolato “La ‘questione palestinese’ e il movimento operaio internazionale”, che riprende e sintetizza una serie di materiali di partito risalenti agli anni 1958-1970.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2007)