LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO

Pubblicato: 2011-02-13 10:46:33

La catena delle guerre imperialiste non si spezzerà se le lotte contro il capitale non ritroveranno la strada del marxismo rivoluzionario

 

 

( prima parte).

 

«Nel giudicare avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai in condizione di risalire sino alle cause economiche ultime. Persino oggi, che la stampa tecnica specializzata fornisce un materiale così ricco, non è possibile nemmeno in Inghilterra seguire giorno per giorno il corso dell’industria e del commercio sul mercato mondiale e i mutamenti che sopravvengono nei metodi di produzione, in modo da poter in qualsiasi momento fare il bilancio generale di questi fattori multiformi, complessi e in continua mutazione, fattori di cui i più importanti, inoltre, agiscono a lungo e in modo latente prima di erompere improvvisamente e violentemente alla superficie». Così nel 1895 Engels esponeva, nel suo consueto modo cristallino, la principale difficoltà cui lo stesso Marx aveva dovuto far fronte nell’applicare il metodo del materialismo storico quasi mezzo secolo prima nel suo studio sulla rivoluzione del 1848 in Francia. Queste stesse difficoltà, naturalmente, dobbiamo affrontare se vogliamo tracciare il quadro storico entro il quale l’imperialismo contemporaneo si sta movendo nel suo divenire spesso contraddittorio e poco lineare. Riconoscere le cause economiche ultime, oggi come ieri, è operazione impossibile, nel loro intreccio sempre tortuoso e complesso; ma individuare la tendenza storica, imposta dalle sue leggi immanenti, che caratterizza l’odierna fase del capitalismo, è non una possibilità, ma un dovere militante per un partito rivoluzionario. La citazione da Engels può essere allora completata da quella, contenuta nelle prime pagine dell’Imperialismo di Lenin, opera alla quale dovremo necessariamente tornare: «Per rappresentare la situazione obbiettiva [delle classi dirigenti di tutti i paesi belligeranti] non vale citare esempi e addurre dati isolati: i fenomeni della vita sociale sono talmente complessi che si può sempre mettere insieme un bel fascio di esempi e di dati a sostegno di qualsivoglia tesi. È invece necessario prendere il complesso dei dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli stati belligeranti e di tutto il mondo »[1].

Un confronto tra le due guerre del Golfo ci può permettere, appunto, di individuare una tendenza in atto, tendenza che in quest’ultimo decennio ha subìto una evidente accelerazione storica. Lo facciamo seguendo il filo degli articoli che questo giornale ha dedicato non solo alla questione medio-orientale ma al corso dell’imperialismo in questi ultimi dieci anni[2].

 

 

Prima guerra del Golfo

 

La I Guerra del Golfo era stata preceduta, negli USA, da una serie di crolli nel sistema bancario e assicurativo, un aggravarsi delle difficoltà nel settore automobilistico, una crescita della disoccupazione, il tutto accompagnato dagli spettacolari crolli borsistici del 1987 e 1989. Il preludio di ciò si era svolto nel decennio precedente. Questo era stato caratterizzato, per gli USA, dalla perdita di crescenti fette del mercato mondiale di fronte all’accresciuta aggressività commerciale di Germania e Giappone. Ciò era una conseguenza della bassa produttività interna, della crescenti difficoltà di realizzazione per il capitale produttivo investito nell’industria e nell’agricoltura, del graduale ritardo, fino al loro abbandono, di interi settori produttivi e del loro trasferimento in altre più lucrative parti del mondo, dell’obsolescenza tecnologica (uno dei tanti paradossi dell’economia capitalistica: poiché si producono merci, e la tecnologia è nel suo assieme una merce, essa va venduta dove migliori sono le condizioni di realizzo). Importanti sezioni del capitale industriale USA, nonostante (o proprio grazie ai) crolli in Borsa del 1987 e 1989, si rivolsero tanto più volentieri alla speculazione e alla rendita finanziaria, sostenute la prima dalla forza del dollaro, la seconda anche dalla forza militare; entrambe dal credito largamente concesso da tutto il mondo, amici veri o presunti, o anche nemici dichiarati. Questa situazione, non nuova ma certo sempre più accelerata, non rappresentò solo l’apparente prevalere della finanza sulla produzione. Dietro ad essa si trovava un intrico di processi a causa dei quali gli USA furono ridotti ad essere il primo paese debitore del mondo e sempre più in ritardo nel settore produttivo, in quello commerciale e nel rinnovo tecnologico. Col crollo dell’Unione Sovietica, che sembrava dischiudere i tesori del mercato orientale, venne invece a ridursi una voce importante del bilancio USA, quella della spesa militare, accrescendo le già visibili crepe nell’economia interna, con inevitabili riflessi sul piano internazionale.

Negli anni precedenti la prima guerra del Golfo, il Giappone aveva messo a segno una crescita senza precedenti, candidandosi a prima potenza nella regione asiatica. Su un periodo più lungo (dal 1951), si registra un poderoso +7.1%, il doppio degli USA per lo stesso periodo (causa, le distruzioni belliche). Il forte sviluppo fu legato, fino alla guerra del Golfo, alla politica di protezionismo sulle importazioni ed esportazioni attuata dalle grandi conglomerate (le Chaeboll), con prezzi molto più elevati rispetto al mercato mondiale. Nel medesimo periodo (1975-1991), la Germania conobbe un aumento di quasi il 3%, ciò che le permise di seguire una politica di spesa sociale e di misurata espansione dei salari. Sia l’una che l’altra economia entravano sempre più in competizione con gli USA sul mercato internazionale.

Con la prima guerra giunse al capitale nordamericano un po’ di ossigeno, grazie al rilancio dell’industria bellica e delle tecnologie ad essa collegate, senza risolvere tuttavia le difficoltà strutturali interne. Essa servì comunque quale prova di forza nei confronti di quei concorrenti, come Germania e Giappone - più agguerriti sul piano economico produttivo, molto di meno su quello militare - allo scopo di riaffermare il peso internazionale del dollaro e del controllo strategico di aree geostoriche di vitale importanza. Nonostante la copertura dell’ONU, quella guerra fu un forte avvertimento lanciato al mondo: ottenuto l’effetto, i generali americani non ebbero bisogno di arrivare a Baghdad.

 

 

Alcune considerazioni

 

La prima guerra del Golfo non fu, si badi bene, una “libera scelta” tra opzioni equivalenti e la cui decisione si sia presa dopo una consapevole analisi economica per “risolvere”, con quel mezzo, problemi economici e sociali su scala mondiale. In generale, nessuna guerra (che non siano, ovviamente, le guerre di rapina che hanno caratterizzato tutta la fase colonialistica del capitalismo) è fatta dal Capitale come cosciente soluzione delle difficoltà sui mercati interni ed esteri. La guerra come prolungamento della politica con altri mezzi è nel DNA del capitalismo ed è anche una risorsa economica di prim’ordine, ma le forme di ogni specifica guerra si precisano talora all’ultimo momento, emergendo da una serie di tendenze talora antagoniste. Tuttavia, il convergere di una serie di fattori (“nuovi”, ma da noi in larga misura previsti con anni di anticipo) che si presentavano sullo scacchiere interno ed internazionale più o meno simultaneamente – il crollo dell’URSS, i crescenti contrasti sui mercati, la necessità bene avvertita nel settore produttivo interno agli USA di prendere iniziative contro capitalismi agguerriti e concorrenti (Germania, Giappone), l’intensificata offensiva diplomatica nella stessa direzione, rinnovate pressioni dei vertici militari, la necessità di cogliere al volo l’occasione di prendere possesso di un centro nevralgico dell’energia mondiale, oltre che di fondamentale importanza geo-strategica in prospettiva futura – tutto ciò doveva portare esattamente a quella guerra, in quanto, di fatto, le guerre capitalistiche, hanno sempre una funzione determinata; non scoppiano né per caso, né per la “cattiveria” di questo o di quel personaggio illustre, sia esso esponente di una teocrazia assolutista o della forma più evoluta di democrazia rappresentativa.

 

 

Tra le due guerre

 

Il decennio che segue la prima guerra del Golfo conobbe un progressivo approfondimento dei contrasti e un migliore precisarsi delle tendenze in atto.

1) Gli USA, che avevano reagito alle tensioni interne ed internazionali con una politica sempre più orientata ad un liberismo semi-incontrollato (“reaganomics”) passano ora ad una fase di cauto e moderato interventismo statale. I programmi di Clinton si orientano verso accresciuti interventi assistenziali e previdenziali; sostengono il rilancio dell’industria e, nello stesso tempo, mirano ad una accresciuta aggressività sul mercato mondiale. E’ l’epoca degli accordi NAFTA (Messico- USA-Canada) e GATT (in funzione anti-CEE); della minaccia del blocco totale delle esportazioni giapponesi in USA.

2) Lo scontro tra monete comincia a farsi aspro, perché si tratta ora di definire quale moneta debba occupare il ruolo di valuta di riserva mondiale per tutto il sistema capitalistico: questione di primaria importanza, dal momento che è su questo terreno che si gioca il destino delle esportazioni di merci e di capitali. Dopo la rottura unilaterale degli accordi di Bretton Woods, il dollaro è andato sempre più perdendo nel suo valore di scambio con yen e marco, anche se rimane la moneta più forte per il finanziamento internazionale. Chi ha pagato questa svalutazione sono soprattutto Giappone e Germania.

3) Si profila la crisi del Giappone, che reagisce con fusioni gigantesche fra capitale bancario e capitale industriale per far fronte alla concorrenza straniera. Ciò comportò una iniziativa diplomatica e commerciale ad ampio raggio in tutta l’area asiatica, che si fece ancora più aggressiva dopo la guerra del Golfo con una politica di espansione commerciale anche in Europa. È in questa fase che iniziò a caratterizzarsi un embrione di asse Germania-Giappone, già superiore sul piano economico, ma non ancora su quello militare, rispetto agli USA.

4) Aumentano le pressioni speculative sulle monete. Dal 1992, a frequenze sempre maggiori, tutte le divise europee sono state sottoposte a turno a forti pressioni speculative, anche dovute alla forza relativa del marco: le varie divise subiscono ondate di vendita per acquistare marchi. Le oscillazioni in più o in meno costrinsero i vari governi ad alzare i tassi di interesse, nel tentativo fallito di contrastare l’aumento della valuta tedesca. Gli USA nel 1994 aumentarono i tassi per cercare di contrastare la discesa del dollaro, ma questo provvedimento determinò il ritiro dei capitali, soprattutto dal Messico, precipitando il paese nella crisi.

5) Iniziano le ritorsioni sul dollaro. Dopo la crisi messicana, l’OPEC minaccia di sganciarsi dal dollaro sostituendolo col marco. La minaccia rientra subito ma, come vedremo, questa è un’arma di ricatto estremamente pericolosa per gli USA, che è destinata a rinnovarsi con maggiore intensità in seguito, e probabilmente negli anni futuri.

6) Si fa sempre più forte la corsa alla finanziarizzazione della produzione e la ricerca di ulteriori masse di capitale finanziario. Compaiono i fondi pensione, i fondi di investimento, le assicurazioni, tutti gestiti da grandi gruppi transnazionali la cui attività diventa praticamente incontrollabile. La speculazione invade tutti i settori della finanza e quindi dell’economia; da qui si trasferisce alla politica, con gli spettacolari scandali che investono governi e multinazionali.

7) Si acuiscono le tensioni diplomatiche. Alcuni accordi commerciali USA-UE falliscono, mentre la Germania solleva il problema della guida strategica della NATO. Gli USA reagiscono vivacemente e si sfiora la rottura col governo di Kohl, costretto a presentare le scuse.

8) Mentre comincia ad impostarsi la questione asiatica, con la Cina sullo sfondo, il decennio scorso sarà ricordato come un decennio di guerre, forse più ancora dei precedenti. La guerra nei Balcani è stata, per certi aspetti, una prosecuzione di quella del Golfo, ma voluta nel cuore stesso dell’Europa, un’area dove per tradizione ha pascolato il capitalismo tedesco e dove erano da lungo tempo svaniti, per necessità più che per desiderio, gli appetiti russi. La campagna al riarmo, il rilancio dell’industria militare, la longa manus stesa sulle vie di trasporto degli idrocarburi caucasici verso il Mediterraneo: questi, e non i principi di lesa democrazia, stanno alla base di una guerra che ha ridisegnato l’assetto geopolitico dell’Europa balcanica.

9) In conclusione, tutto l’ultimo decennio si è sviluppato all’interno di una fase di cronica sovrapproduzione mondiale, che ha condotto, tra l’altro, ad una corsa all’impazzata alla centralizzazione di capitale e a una serie di gigantesche fusioni attraverso l’intero pianeta. Mentre le attese sulla new economy svanivano nel nulla borsistico, tutto ciò creava una sfrenata euforia dei consumi, che è andata riflettendosi sulla produzione, poi sui profitti, e poi di nuovo sui consumi. È stata una crescita di una domanda artificiale e drogata: drogata essenzialmente dal credito e, pertanto, alla lunga insostenibile.

 

 

Il quadro entro cui si sviluppa la seconda guerra del Golfo

 

 Nella teoria marxista dell’imperialismo, è chiaramente dimostrato come la rendita assoluta sia creata dal diritto di proprietà; il proprietario – singolo possessore, o Stato imperialista – per ciò stesso si incamera parte del plusvalore totale prodotto. La rendita assoluta si basa sul diritto monopolistico da parte di alcuni contro tutti gli altri, e garantisce larghi profitti ai detentori. Ne consegue che la lotta per il controllo della rendita fondiaria (e di tutte le altre forme di rendita, tra cui primeggia quella finanziaria) è uno degli elementi fondamentali dell’imperialismo. Se nell’Ottocento la relazione era tra grandi proprietari fondiari e regioni, oggi è lotta tra gli Stati per la spartizione del pianeta.

Le tensioni per accedere a queste fonti si fanno particolarmente acute quando sono in gioco le risorse energetiche che alimentano l’economia di ogni singolo paese. Dipendenza dalle materie prime, e quindi necessità di controllarne i prezzi (che vanno ad incidere sul tasso di profitto), sono le chiavi di volta dell’economia nella fase imperialista. Il controllo delle risorse da parte di ogni singolo paese determina la base per l’ineguaglianza nello sviluppo industriale; il controllo sui prezzi sta alla base dei diversi saggi di profitto che si realizzano nei singoli paesi. Oltre a ciò, va ricordato che la quasi totalità degli scambi nel commercio dei prodotti petroliferi in senso lato è svolta in dollari, in quanto il dollaro è la moneta internazionale, e ha garantito fino ad oggi agli USA il ruolo di usuraio internazionale.

La crescente importazione USA ha sparso miliardi di dollari in tutto il mondo. Questi dollari sono tornati in USA attraverso il mercato obbligazionario e dei titoli e hanno bisogno di essere reinvestiti, sia pure ad alto rischio speculativo. I primi a rimetterci saranno, naturalmente, gli ingenui che “hanno fiducia” o i proletari di questa o quell’azienda, privata o statale, costretti a diventare azionisti della “propria” azienda.

Dunque, nell’aumento contro natura del saggio di profitto, c’è non secondario il primato del dollaro come moneta internazionale. E’ un primato sempre più messo in dubbio, così come i rapporti di cambio sono peggiorati, nonostante il legame tra dollaro e prezzi delle materie prime.

Il dollaro è divenuto moneta fiduciaria internazionale da quando, con la seconda guerra mondiale, la base aurea, il gold standard, è stata soppressa. L’oro è stato sostituito dal dollaro; la “garanzia” di quest’ultimo era assicurata dalla vittoria militare del 1945 e dalla successiva e conseguenza penetrazione delle merci americane in tutto il mondo. Ma esso è comunque «la moneta di uno Stato, e come tale intrinsecamente legata alle fortune di questo. Ne segue che l’avere esteso il dollaro a tutto il mondo come valuta di scambio, significa aver legato indissolubilmente la sorte del mondo a quella degli Stati Uniti»[3] e, di conseguenza, la sorte degli Stati Uniti a quella del mondo. Nell’Ottocento il ruolo del dollaro fu giocato dalla sterlina, ma allora non poteva esistere qualcosa di simile alla attuale rendita finanziaria, perché l’Inghilterra, principale paese esportatore, era anche il principale paese importatore. Oggi, invece, il flusso commerciale tra USA e resto del mondo avviene in un solo senso, poiché essi sono importatori assoluti. «I dollari in circolazione finiranno prima o poi per tornare ad esser spesi in patria, ma le economie degli altri paesi assumono sempre più un carattere di dipendenza e di artificiosità con tutti i pericoli impliciti nella prospettiva che da un momento all’altro la crisi del dollaro si approfondisca e trasformi anche la “valuta forte” per antonomasia in un segno scottante nelle mani di chi lo possiede»[4]. Oggi, minacciose nubi gravano sul dollaro, e rischiano di trasformarlo in “segno scottante” per chi lo possiede: sono le nubi rappresentate dall’euro.

Come può essere dunque misurata la “forza” attuale degli USA? Non ci riferiamo, naturalmente, alla loro capacità di affermazione militare in Iraq (che comunque, come appare evidente, è assai meno comoda oggi rispetto alla guerralampo di aprile). Qui si tratta di ben altro: se cioè questa “forza” non sia più o meno prossima ad esaurire il suo ruolo di traino economicopolitico nel quadro dell’imperialismo mondiale Gli USA possono essere ricattati con il gioco delle valute; la loro tecnologia è perlopiù in mano a multinazionali e a compagnie straniere; dipendono pesantemente dall’importazione di capitale finanziario straniero; non sono in grado di sostenere guerre in tutte le parti del mondo; suscitano ovunque crescenti vampate di nazionalismo anti- americano nei paesi del Terzo Mondo.

Gli USA sono innegabilmente la prima potenza militare mondiale. Sulla base di questa ovvia considerazione si sono troppo spesso fatte considerazioni erronee sulle prospettive rivoluzionarie. La potenza militare di uno Stato è il riflesso della sua potenza economica reale, e non può essere nient’altro che ciò. La tesi espressa da alcuni, secondo cui gli USA godrebbero di una sorta di delega internazionale (finanziati dal mondo in cambio del “servizio” di polizia internazionale) ha potuto avere un senso solo nella fase espansiva dell’ultimo ciclo imperialistico quando, con la vittoria nella seconda guerra mondiale, gli USA imposero i propri capitali a tutto il mondo. Il problema che si comincia a configurare con sempre crescente chiarezza è dunque il seguente: quanto a lungo durerà la supremazia economica (del dollaro, della produzione, sui mercati, nel controllo di gigantesche fette di plusvalore internazionale) degli USA sul resto del mondo? E inoltre, quando l’economia internazionale mostra segni accelerati di cedimento, e quando il gioco interimperialistico è tale da dover rimettere in discussione equilibri che sembravano consolidati e rapporti che si basavano su una solidarietà internazionale (tale solo per necessità e non per pii desideri), potrà continuare ad aversi un apparato militare unilaterale “forte” in un mondo globalmente in crisi?

 

 

L’affare della ricostruzione

 

È una vecchia canzone dei sostenitori dell’imperialismo l’affermazione che questo sarebbe “più democratico” rispetto al sistema coloniale di cui è figlio, grazie alla rinuncia ai grandi imperi oltre oceano e alla pratica dei “protettorati”. Nella realtà, il sistema coloniale fu abbandonato perché troppo costoso quanto a gestione militare e poco affidabile in termini di stabilità sociale. Quale che sia il futuro assetto politico dell’Iraq, esso non potrà più configurarsi secondo gli schemi del passato. L’imperialismo ha sostituito il metodo coloniale basato sull’occupazione militare con quello, ben più remunerativo in termini di economia capitalistica, del controllo finanziario dei paesi vassalli. Il dominio finanziario ha distrutto le frontiere degli imperi più forti, ha soggiogato con l’invisibile cappio dell’indebitamento le economie più deboli, ma, per legge dialettica, le sue stesse leggi si stringono attorno al collo anche di quelle più forti. I governi locali diventano docili intermediari delle banche degli stati imperialisti più forti: che significa, per il secondo dopoguerra, degli USA. Al tempo stesso, lo scontro si fa più acuto proprio tra questi, con la pratica dei dazi sulle importazioni, le guerre commerciali sui prodotti agricoli e sull’acciaio, ecc.

Date queste premesse, che tutti i marxisti riconoscono operanti da circa un secolo nell’economia mondiale, si capirà agevolmente come uno degli obiettivi primari degli USA in Iraq dovesse essere la banca di Stato irachena, i suoi vertici e i vertici politici strettamente legati a questa, che hanno costituito per decenni la gestione del paese sotto il regime canagliesco di Saddam.

È stato sostenuto da certa stampa democratica che l’intervento USA è motivato dal petrolio tout court, e più precisamente dal fatto che la Casa Bianca è saldamente nelle mani di una lobby che controlla alcune importanti compagnie petrolifere private. Si sono fatti con molta diligenza i nomi degli uomini politici più vicini a Bush, sottolineandone quello che i moralisti in tricolore definirebbero “conflitto di interessi” all’ennesima potenza. Si è detto che questa o quella compagnia petrolifera americana, i cui vertici sono stati occupati in anni recenti da questo o quell’esponente del governo Bush, stanno realizzando o hanno già da tempo realizzato grassi contratti. Altri “osservatori” si sono diligentemente dedicati alla compilazione di cartine e diagrammi, dai quali risultava la fregatura per le compagnie non-statunitensi. Che questo possa essere un’arma di ricatto nelle mani americane nei confronti degli “alleati” è una possibilità così ovvia che non perdiamo tempo a commentarla. Tuttavia bisogna sottolineare con forza che nessuno di questi “alleati” – Germania, Francia, Russia in testa – era contrario per principio alla guerra in Iraq. Essi sarebbero stati favorevoli alla guerra alle loro condizioni, che erano quelle di un’equa divisione del bottino; ma era chiaro che, di fronte all’uva acerba, questi stati, con i loro conati di Forza di intervento rapido e le loro miserabili truppe di polizia, non potevano giocare altro che il ruolo della volpe delusa. Il bottino era stabilito fin da subito, e non si trattava solo di mettere le mani sul grezzo iracheno. Bisogna dare atto al governo Bush di aver giocato le proprie carte senza barare: fin dalla metà di marzo 2003, il dichiarato piano USA consiste nella privatizzazione di tutte le società statali irachene e nella creazione di una Banca centrale indipendente. Indipendente significa non dipendente dal passato regime, proprio quello che all’inizio del 2000 aveva pianificato la conversione dai dollari all’euro nelle proprie transazioni internazionali. Indipendente significa dunque interamente dipendente dall’FMI e dalla Banca centrale USA. Ecco dunque che, in una notizia riportata con scarsissimo rilievo dalla stampa internazionale, il 7 luglio gli USA hanno annunciato la sostituzione della moneta irachena e ciò che hanno descritto come una rinnovata banca centrale autonoma[5]: l’aggregato militare- industriale ai vertici degli USA deve imporre all’Iraq un immediato ritorno al dollaro, segnalando a tutti gli stati-canaglia (Iran e Arabia in testa, ma poi Nigeria e Venezuela), e a quelli che, tentati da conversioni all’euro, stanno per entrare nella lista, che a nessuno sarà permesso di uscire dalla sfera del dollaro.

Oltre a questo aspetto, tuttavia, si devono prendere in considerazione altre motivazioni, più strettamente legate al petrolio, o di tipo geostrategico.

Si è calcolato che la produzione di un barile di petrolio dalle sabbie arabe può costare $1,50; estrarlo dal Golfo del Messico, a causa dei costi elevati delle strutture in mare e del trasporto a terra, $13 o più. Sul mercato internazionale un barile è trattato a $22- 28. Come si vede la rendita differenziale frutta un fiume di dollari, che è vitale agli USA per coprire il pauroso buco nella bilancia dei pagamenti e il deficit del bilancio federale (oltre a quello, beninteso, che proviene dagli investimenti di capitali finanziari stranieri); ma mentre il primo lascia le mani libere alle imprese interne, il secondo, di fatto, è la quota con la quale imperialismi concorrenti si accaparrano letteralmente pezzi di economia USA.

Se queste considerazioni sono esatte, allora ben si comprende come l’intera questione irachena rientri in un gioco che ha come confini l’intero pianeta e che trova uno dei suoi punti di forza nel crocevia iracheno, posto tra l’oceano – che rimane pur sempre la strada indispensabile alle prue delle petroliere – e il centro-Asia, dove scorrono altre vie, altri oleodotti, altre rendite, e ove si gioca, più o meno mascherato oggi dagli “affari”, più duro domani, il destino degli schieramenti interimperialistici futuri.

In questa rete di rapporti imperialistici tra Stati e imprese, quale dev’essere il ruolo del proletariato? È quanto prenderemo in esame nella seconda parte di questo articolo. (1. Continua)

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2003)