Contenuto originale del programma comunista è l'annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti ed attore della storia umana

Pubblicato: 2011-01-31 15:25:25

Marxismo e proprietà

Un tema che ci ha frequentemente occupati è quello della formula che giustamente contrappone nel programma comunista l'epoca storica post-borghese a quella attuale. A questo tema fu dedicato il vecchio studio di Prometeo, prima serie, su Proprietà e Capitale. Discutemmo, e vi tornammo sopra a fondo nella ultima riunione a Torino, la formula di propaganda più comune del socialismo antebellico: abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (e di scambio). La parentesi la mettiamo perché così è in un testo di Engels indicato.

Il sostantivo abolizione non è stato mai soddisfacente. Sente di atto di volontà e va bene per gli anarchici, e (logicamente) per i riformisti. L'aggettivo privata pone il dubbio se il rapporto, che si definisce proprietà, debba nella società comunista scomparire, o solo cambiare di soggetto.

Nella ricerca di questo soggetto nuovo sta in fondo tutta la base delle deviazioni e dell'immediatismo, vecchio e nuovo, filisteo sempre. Passerà la proprietà dal privato (nella volgare accezione: grosso padrone) a gruppi di produttori, a distretti di produttori-consumatori, allo Stato, a categorie professionali o addirittura a sottoclassi sociali?

La nostra ricerca svolta a Torino e nei Corollari su queste pagine (V. nn. 13, 14, 15, 16 e 17) condusse alla tesi che non deve sopravvivere nessun soggetto della proprietà, come nelle storicamente sterili ideologie piccolo-borghesi; e non deve sopravvivere nessun oggetto: mezzo di produzione o scambio, terra, impianto fisso, o bene di consumo, nemmeno individuale.

Poiché le formule orecchiate hanno una resistenza terribile, i Corollari furono dedicati a svolgere la prova che questa non è una tesi nuova, ma come sempre quella classica del marxismo, e lo facemmo con luminose pagine di Engels e di Marx. Spingemmo la dimostrazione fino a stabilire, su di un passo basilare del Terzo Libro del Capitale, che il comunismo non è nemmeno definibile come proprietà della terra portata dal singolo alla Società, perché il rapporto tra la società e la terra, ove proprio lo si voglia indicare con un termine del sistema giuridico convenzionale, non è di proprietà ma di transitorio usufrutto.

Ma forse taluno può pensare che esistano enunciazioni di Marx che fanno salva la proprietà personale, individuale, sui beni di consumo, almeno del lavoratore salariato che certamente non la ha tratta dal frutto di lavoro altrui. Va mostrato che un tale modo di ragionare non poggia sul marxismo ma su una vaga e infeconda filosofia dello sfruttamento che sta alla base di molti odierni falsi sinistrismi (vedi lo Chaulieu di Socialisme ou Barbarie, come teorico non improvveduto ma condannato nella triste cerchia immediatista).

Per il marxista ogni merce della società attuale è Capitale - in quanto il Capitale non è che la massa delle merci che circolano; siamo all'Abc! - e contiene una frazione di plusvalore, di lavoro estorto e non pagato. Chi con danaro compra e consuma quella merce si appropria lavoro altrui, anche se nel ciclo produttivo altri si sono appropriato il suo.

In queste ricerche è necessario, quando ci si incontra in queste aberrazioni dalla apparenza innocente, risalire alle caratteristiche che discriminano il capitalismo dalle forme precapitalistiche di produzione, e domandarci quale sia nel marxismo classico la definizione esatta del modo capitalista.

Sarebbe ingenuo dire che il capitalismo è il sistema in cui vi è sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sia perché lo sfruttamento vi è anche in altri modi produttivi come servitù e schiavismo, che capitalisti non erano, sia perché tali definizioni non devono stabilire il rapporto tra un singolo e l'altro singolo, ma interpretare lo svolgersi di tutta la dinamica sociale e i rapporti tra le classi. Anche la formula di sfruttamento di una classe da parte di un'altra, sebbene migliore, non è completa.

In teoria almeno si può dare una società di proprietà privata, e quindi non socialista affatto, senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo e di classe su classe. Basta pensare ad una società di piccola produzione mercantile, se addirittura non si vuole pensare ad una società di produttori indipendenti autarchici, ossia agricoli ed artigiani, che consumano solo prodotti a cui hanno lavorato.

Espropriazione, non appropriazione

Per la nostra scuola definire il capitalismo non significa definire una struttura fuori del tempo, ma caratterizzare l'avvento storico di esso. In Marx il capitalismo è definito dalla separazione del lavoratore dalle condizioni del suo lavoro, come in ogni testo di partito è ben chiarito. Il capitale si forma per la espropriazione dei produttori liberi che restano senza terra né strumenti di lavoro, e perdono ogni diritto sui prodotti del loro lavoro. Queste sono le relazioni e condizioni da cui forzatamente sono costretti a divorziare, restando solo portatori di forza lavoro che venderanno contro salario in moneta. Il capitale non crea il «privatismo» che noi socialisti veniamo poi a distruggere; la cosa non è tanto banale. Il capitale invece «socializza» perché concentra in grandi masse i mezzi frammentati che ha estorti ai liberi produttori e con questo ottiene un risultato economicamente e storicamente positivo, in quanto conduce alla vasta cooperazione dei lavoratori. In un primo tempo questo sistema soddisfa meglio del vecchio i bisogni non dei soli capitalisti, ma di tutta la società e degli stessi lavoratori, soprattutto nel campo dei beni manifatturati, che i poveri del tempo preborghese praticamente ignoravano.

La dialettica della espropriazione degli espropriatori - letta da noi cento volte nel Manifesto, nel Capitale, e nell'Antidühring - non si riduce ad un peccato redento, ad una restituzione del maltolto, ad un banale dare a Cesare quel che è di Cesare, come pare alla bigotteria immediatista; ma è l'aggiunta storica di un balzo avanti ad un balzo avanti, di una rivoluzione ad una rivoluzione, in generale staccate molto nel tempo, ma che entrambe hanno ben lavorato.

Nel capitalismo la forma di produzione più collettiva ha sostituito quella privata; e in sostanza la tesi vale anche per la appropriazione dei prodotti. Questi che erano prima ripartiti a quantità minime tra i produttori autonomi, che potevano consumarli o scambiarli, restano ora in grosse partite a disposizione dei poco numerosi, e sempre meno numerosi, possessori di aziende.

Quella parte di prodotti che oggi chiamiamo beni capitali o strumentali (il primo termine è migliore perché meglio comprende oltre agli utensili e macchine i semilavorati che passano ad altro ciclo di lavorazione) seguono a circolare in grosse masse, mentre la sola parte di prodotti finiti che si dicono beni di consumo trova sul mercato una più larga partizione contro danaro che viene dal salario dei proletari, ovvero dal reddito dei capitalisti, o da quelli, anche, di altre classi ereditate dalle società antiche.

Pertanto il capitalismo è un modo di produzione non più individuale ma sociale, e la sua forma di ripartizione sola è individuale. Tuttavia questa seconda parte della tesi nemmeno si può riferire ai beni capitali, che sono la parte maggiore, bensì ai soli beni di consumo diretto, che tutti concorrono ad acquistare, benché non certo in quantità uguale.

Si noti che nemmeno questa disuguaglianza, come la precedente ingiustizia, vale nella nostra dottrina a definire il capitalismo, che piuttosto è definito dalla soppressione della libertà del produttore. Tutto ciò non ha impedito alla sua sovrastruttura politica di paludarsi di libertà uguaglianza e giustizia.

Il socialismo verrà infatti a proporre ben altro che la suddivisione in tante particole, quante sono le teste umane, della terra, dei mezzi di produzione, e dei prodotti, cosa che sarebbe manifestamente assurda per tutti i beni non direttamente consumabili, ed espressa puerilmente per quelli stessi di consumo.

Rigore teorico di Lenin

Uno scritto di Lenin della fine Ottocento, che ci sarà ulteriormente utile, tratta del vitale argomento della Teoria delle crisi, ed ha il titolo (a beffa dei revisionisti): Sui caratteri del romanticismo economico. Forse i lettori ricordano che varie volte abbiamo adoperata la definizione di romanticismo per le degenerazioni staliniste della rivoluzione russa.

Questo scritto ci è utile per alcune citazioni che dimostrano come da lungo tempo certe impostazioni ancora oggi difficili ad entrare nelle teste sono pacifico patrimonio della nostra scuola.

Lenin deride l'economista russo Efrussi per la sua definizione monca delle crisi, che è comune al grande Sismondi ed a Rodbertus (il tedesco che pretese che Marx lo avesse plagiato nella teoria del salario). Lenin mostra come talune deformazioni di post-marxisti non fanno che rimasticare errori che da Marx furono superati ed eliminati; possiamo ora estendere tale verità fino ad oggi, ossia di molto più di mezzo altro secolo. Keynes ed i benesseristi sono infatti fermi allo stesso punto cui si fermava Efrussi e a cui si erano fermati Rodbertus e Sismondi; la crisi è una cattiva relazione tra produzione e consumo, e per risolverla si tratta di stimolare ed esaltare il consumo, soprattutto dei salariati.

Lenin deride questa verità di Lapalisse, che la crisi viene perché non si compra tutto quanto si produce, non vi è equilibrio tra produzione e consumo, o che questo equilibrio viene meno perché il produttore (capitalista) non conosceva la domanda. Qui è l'effetto ma non la spiegazione della causa. Lenin rileva che il sottoconsumo è un fenomeno di tutte le economie, ma che le crisi lo sono della sola economia capitalista.

Malthus e Sismondi stanno contro gli economisti classici perché fanno derivare la ricchezza sociale non dalla produzione ma dal consumo, Rodbertus fece solo un piccolo passo innanzi perché pose la causa nel poco consumo degli operai e dette origine all'immediatismo riformista e gradualista. Su questo filone stanno ancora oggi gli economisti che credono di poter dire una parola in più di Marx, e (come dicemmo ad Asti) risollevano Malthus che delegava il consumo a nobili terrieri ed a preti per solvere l'enigma economico! In America il tipo ideale di questo moderno pretonzolo è l'impiegato partecipante agli utili con auto, villa, televisore, etc.

Ma veniamo a bomba. Lenin scusa Sismondi e Rodbertus, ma noi non possiamo scusare Chaulieu o Keynes. Quelli non «potevano» sapere che «a base della critica del capitalismo non si possono mettere semplici frasi sul benessere generale (Sismondi) o sull'ingiustizia di una circolazione abbandonata a se stessa (Rodbertus), ma è necessario mettervi il carattere della evoluzione dei rapporti di produzione». Non lo potevano sapere perché scrivevano prima del sorgere del marxismo.

Che cosa essi non sapevano? Nessuno lo dirà meglio di Lenin: «Le crisi sono inevitabili perché il carattere sociale della produzione entra in conflitto col carattere individuale della appropriazione». Questo teorema fondamentale del marxismo è ripetuto poco oltre con la aggiunta di una parentesi: «contraddizione propria di un solo sistema, quello capitalistico, cioè quella tra il carattere sociale della produzione (che il capitalismo ha reso sociale) e il modo individuale, privato, dell'appropriazione».

Aggiunge Lenin: «Anarchia della produzione, mancanza di piano nella produzione: che cosa significano tutte queste (ben note) espressioni? Esse esprimono il contrasto e la contraddizione testé enunciate».

Di questo passo di Lenin raccogliamo la nozione del sottoconsumo. Molte epoche hanno presentato questo fenomeno, a cui ha reagito la decimazione della popolazione. L'epoca capitalista mostra di aborrirne, ed insegue il mito della sovrapproduzione, per cui le occorre sovraconsumo e sovrappopolazione. È ora di liberarci da un altro complesso imitativo della forma borghese: la rivoluzione proletaria non può esitare a traversare, se necessario per travolgere il capitalismo, una epoca di sottoconsumo. La rivoluzione di Lenin or sono quarant'anni insegnò che non bisognava esitare; ma il traguardo doveva essere la vittoria del sistema socialista; e non di quello capitalista. Resta tuttavia un grande insegnamento per il proletariato e il suo partito: la dittatura rivoluzionaria avrà il carattere di una dittatura sui consumi, sola via per disintossicare i servi del Capitale moderno, e liberarli dalla stimmate di classe che esso ha loro stampata nelle carni e nella mente.

È una cosa incomprensibile per ogni cerchia immediatista: comune, distretto, categoria, classe di produttori (dobbiamo anche ricordare la scultorea frase di Marx sul controllo della società che non va consegnato ad una classe di produttori - ossia anche di non oziosi e non sfruttatori). Ed è cosa che si aggiunge alla catena delle impotenze di tutte le forme organizzate che non sono il partito politico: sindacati, consigli di azienda, consigli locali.

La giusta formulazione

Ancora una volta rivendichiamo la forma piena della declaratoria marxista.

È forma capitalista la separazione dei lavoratori dalle condizioni materiali del loro lavoro. Attuando tale separazione con mezzi violenti ed anche disumani, il capitalismo trasforma la produzione individuale in produzione sociale, ma lascia individuale la appropriazione dei prodotti.

I liberi produttori espropriati dal capitalismo sono ridotti a proletari che non hanno alcuna riserva e vivono vendendo per moneta la loro forza di lavoro, realizzando con essa la compera di una parte dei prodotti per il proprio consumo personale, ossia la riproduzione della forza di lavoro.

Nella forma socialista la produzione resta sociale, e quindi non vi è proprietà da parte di alcuno degli strumenti di produzione tra cui la terra e gli impianti fissi. In questa società anche ai fini del consumo non vi sarà appropriazione individuale, ma la distribuzione sarà sociale e a fini sociali.

Il consumo sociale differisce dal consumo individuale in quanto la fisica assegnazione dei beni consumabili non si fa per tramite di compra mercantile e col mezzo monetario.

Quando la società soddisfa tutti i bisogni dei propri membri che non contraddicono lo sviluppo sociale migliore, indipendentemente dalla loro minore o maggiore contribuzione al lavoro sociale, ogni proprietà personale è cessata e con essa la sua misura, ossia il valore, e il suo simbolo, il danaro.

Agli inizi della lotta del proletariato moderno sono state spesso usate formule incomplete, senza tuttavia dire che queste contenevano la espressione integrale della dottrina. A ciò va attribuita la frequente ricorrenza delle espressioni: socializzazione dei mezzi di produzione, ovvero: rispetto della proprietà personale del lavoratore. Storicamente questo non produceva grave equivoco quando era cosa recentissima la generale preda della minima proprietà personale di strumenti e prodotti dei lavoratori autonomi. È cosa analoga al fatto che lo stesso Marx dové subire che nell'indirizzo generale della Associazione Internazionale dei Lavoratori fossero lasciate frasi sulla giustizia e libertà degli individui e dei popoli, che egli procurò di relegare dove non nuocevano.

Oggi la corsa del capitalismo è a ben altro grado della curva, ossia a quello che il marxismo classico integralmente ha previsto; e perché una formula di agitazione sia utile alla classe operaia non basta che essa sia combattuta di fronte dai poteri costituiti, come allora.

Continuando il lavoro dei Corollari ci corre il dovere di continuare a dare quella dimostrazione che per l'episodio della Prima Internazionale è dato dalla ben nota lettera di Marx ad Engels, per togliere ogni dubbio che noi abbiamo voluto, ove altri dà dei tagli al marxismo, farvi delle giunte di nostro.

Grandi schemi della società futura

Le sempre più vaste indagini sulla letteratura marxista che sono in corso da ogni lato, e perfino ad opera di quelle correnti che sostengono si debba oramai finirla con tutto questo riferirsi a Marx, secondo tanti troppo invecchiato, hanno condotto a rintracciare e stampare anche semplici note a margine che Carlo Marx scriveva sulle pagine dei libri alla cui lettura e critica si dedicava.

Il brano di cui ci serviremo ora merita una lettura attenta, ed è con rammarico che vi si intermezza un commento che ne sminuisca la continuità e quindi la potenza. Esso è tratto da note scritte sull'opera di James Mill, l'economista inglese padre del più noto economista e filosofo James Stuart Mill, e che Marx cita largamente nelle sue opere successive e nella storia delle Teorie sul plusvalore. Qui si tratta di sei pagine scritte in un quaderno di note, e più che come critica al sistema di Mill padre interessano come una libera escursione della mente di Marx nei campi della società comunista, da cui lo si volle sempre alieno.

Bisogna aver ben presente che il giovane Marx aveva già sviluppata la critica completa dell'idealismo di Hegel, che egli dichiarò di avere del tutto costruita fin dalla sua opera sulla Critica della filosofia del diritto di Hegel, che è di quegli anni. Tuttavia la forma da lui preferita di esposizione, tanto più in una nota non redatta per il pubblico, non può non «civettare» con il metodo hegeliano, cosa che egli ammise perfino di fare nella prefazione al Primo Libro del Capitale, oltre un ventennio dopo.

Non fa dunque meraviglia che questo squarcio, che noi scegliamo come un vero Manifesto contro ogni individualismo, imposta la polemica sotto forma individuale di un Dialogo tra i personaggi Io e Tu; il che probabilmente avviene perché il testo di Mill, nel trattare la teoria dello scambio tra i produttori di merci che soddisfano a bisogni diversi, secondo la vecchia moda degli economisti di mestiere, non morta ancora dopo tanto tempo, basa tutta l'analisi che arriverà alla apologia del mercato e della legge di scambio sul caso elementare di Tizio che ha prodotta una merce che serve a Sempronio.

Marx si impadronisce di questa ipotesi di un rapporto personale, e dialetticamente vi fonda la costruzione di una critica da cui l'egoismo delle due persone singole, misurabile secondo i borghesi economici in valore e moneta ed in termini precisi per cui entrambi abbordano l'affare, si eleva oltre i bassi e vili confini di una società di mercato. È in tutto il corso evidente la preoccupazione di fondare tutto su sicuri rapporti materiali e reali, malgrado la forma letteraria possa avere sapore di astratto. «Certamente tu, in quanto uomo, sei in un rapporto umano col mio prodotto: tu hai il bisogno del mio prodotto. Questo dunque esiste per te come oggetto del tuo desiderio e della tua volontà. Ma il tuo bisogno, il tuo desiderio e la tua volontà sono impotenti nei riguardi del mio prodotto».

Chiediamo venia di questo primo arresto, vogliamo chiarire che siamo nel caso della descrizione di una società di proprietari dei prodotti. Il membro Tu non può semplicemente stendere la mano e prendere il prodotto del membro Io, che tanto appetisce, poiché la forma sociale glielo vieta. «Ciò (quella impotenza) significa dunque che il tuo essere umano, che per tal fatto è necessariamente in relazione interna con la mia produzione umana, non costituisce la tua potenza, la tua proprietà su questa produzione, in quanto non sono la potenza o la facoltà di appropriazione (traduciamo così il termine Eigentuemlichkeit) dell'essere umano che sono riconosciute nella mia produzione». Con permesso traduciamo il senso: la forma sociale non riconosce il diritto di consumare la mia produzione all'essere umano quale che sia, lo riconosce solo a me o a chi mi paghi, e passi il linguaggio triviale. Hegel fu. «Essi (il tuo bisogno, il tuo interno appetire) sono piuttosto i legami che ti rendono dipendente da me, perché ti mettono alla dipendenza del mio prodotto. Lungi da essere il mezzo per darti un potere sulla mia produzione, essi (i tuoi appetiti) sono un mezzo per dare a me un potere su di te...».

Fino a qui è descritta la esosa società mercantile. Lo scambio, come sostituto in due tempi del baratto primitivo, è descritto dai vari Mill come fatto di libere volontà che si sorridono venendosi incontro. Ma invece si tratta di due atti di consumazione di una potenza inumana. La mia potenza sul pane che ti toglierà la fame è quella di farti morire, e ti puoi sottrarre solo se disponi del danaro che passi sotto mio potere, e che hai ricevuto in quanto avevi da vendere un indumento, sotto pena per l'essere umano compratore di morire dal freddo. Ubbie di Marx giovanile? Ma chi non riconosce il capitolo del Capitale sul Carattere feticcio della merce e il suo segreto, in cui il rapporto tra le merci, segnato da un candido uguale aritmetico, diventa rapporto tra uomini, e si disvela che è rapporto peggiore di quello tra lupi?

Al recente congresso di filosofi pare si siano occupati molto di Marx. Un gesuita lo dice più fecondo filosofo nelle opere da giovane, altro professore lo dice più maturo da vecchio, alcuni filorussi lo dicono sempre coerente. Per ora basti di quel congresso, ma il nostro avviso è che nessuno dei tre gruppi ha capito Marx, che gli allievi di Stalin ti cucinano in un «dualista»!

Il volo nel tempo

Lo scrittore di un balzo, e senza avvertire, come fa sempre a confusione di censori, si porta oltre la forma storica mercantile e con audace concezione suppone che i cittadini Io e Tu continuino il loro dialogo; noi sappiamo bene che ormai è l'Uomo Sociale che parla con sé stesso. Ma il filosofastrume è lì per dire che abbiamo uccisa in lui la persona, fermata col nostro collettivismo la sua ascesa verso la Libertà e il Valore, inchiodato alla materia lo Spirito per fare dei due l'uno.

Marx non si ferma ad annientare con uno dei suoi sarcasmi di fuoco il contraddittore di tutti i tempi. Egli mostrerà quanto, ucciso nell'essere umano l'egoismo mercantile, sia esso salito in alto nella pienezza della gioia di una vita fino allora ignota.

«Supponiamo che noi abbiamo prodotto in quanto uomini». Dobbiamo fermarci; vorrà il lettore rileggere saltando le nostre pedestrerie. Oggi non produciamo come uomini ma come servi e come mercanti. Siccome supponiamo di produrre senza essere pagati e non per essere pagati, vuol dire che abbiamo supposto di esserci trasportati nella società comunista.

«Ognuno di noi avrebbe doppiamente affermato nella sua produzione sé stesso e gli altri». Nessuno dunque ha negato sé stesso e la sua umanità come il filisteo sta lì a ghignare. «Io avrò: 1) materializzata nella mia produzione la mia 'individualità', e la sua 'particolarità', e per questo fatto avrò gioito tanto durante l'attività di una 'manifestazione della vita individuale', che nella contemplazione dell'oggetto prodotto; io avrò provata la gioia individuale e riconosciuta la mia persona e la mia potenzialità nella sua forma materializzata e sensibile, ossia senza dubbio alcuno. 2) Nella tua soddisfazione e godimento per l'uso del mio prodotto io troverò un godimento immediato, tanto per la consapevolezza di aver soddisfatto un bisogno umano col mio lavoro, che per avere materializzata la natura umana e quindi procurato ad un altro essere umano l'oggetto che corrisponde alla sua. 3) Di essere stato per te l'intermediario tra te stesso e la specie umana, e per tal fatto di essere sentito e riconosciuto da te come un complemento del tuo proprio essere e come una necessaria parte di te stesso, e dunque di sapermi affermato tanto nel tuo pensiero che nel tuo amore. 4) Di aver prodotto nella mia manifestazione di vita individuale la tua manifestazione di vita e di avere dunque affermato e realizzato nella mia attività, direttamente, la mia vera essenza; ossia il mio essere umano e il mio essere sociale».

Nella mirabile redazione di questo brano si potrebbe ben dire che l'individuo e l'io restano in gioco come subietto logico e come categoria filosofica; nulla in questo di contraddittorio, ma valido gioco della nostra dialettica materialista: alla espulsione dell'individuo dalla storia e dalla società non vogliamo arrivare con esercitazioni metafisiche sub specie aeternitatis, ma come risultato dello sviluppo storico. Sembra che l'Io e il Tu siano le nostre dramatis personae, ma l'epilogo è il loro confondersi nella nostra categoria, ignota alle sovrastrutture ideologiche delle epoche pre-comuniste, l'essere umano, l'essere sociale; nel quale, a conferma della invarianza storica del pensiero di Marx, troviamo l'Uomo Sociale dei Grundrisse del 1859 già a noi noto, che coincide con questo punto di arrivo del 1844 «Il mio essere umano, il mio essere sociale».

Non abbiamo motivo di stupirci se queste frasi le troviamo nei testi di studio di Marx e non in quelli destinati alla pubblicazione. Marx scriveva in un tempo in cui la Germania non aveva compiuto il passaggio dalla filosofia critica (borghese) alla politica rivoluzionaria liberale; che sono due aspetti complementari della lotta contro l'autorità scolastica teologica e il dispotismo assoluto politico. Noi distruggiamo, noi marxisti, l'individuo, ma abbiamo storicamente bisogno per farlo che la rivoluzione liberale lo abbia emancipato.

Marx è partito dalla critica ad un economista che voleva dimostrare che la bilateralità dello scambio è una «legge naturale». La poderosa sua deduzione toglie nel suo corso luminoso al rapporto la sua caratteristica di andata e ritorno, di do ut des, e libera l'atto produttivo dalla condizione mercantile. Nella società mercantile il produttore lavora per trovare un compratore, il testo esposto ci dice; ma nella società comunista che la sostituirà il produttore lavorerà non per vendere e perché trovi il suo «contraente» individuo, ma per una finalità unilaterale, che è spiegata nella gloriosa serie in cui non vi è più il guiderdone della produzione dell'altro, né della moneta dell'altro. Lo storico dialogato tra l'Io e il Tu non si scioglie più come sempre ha fatto nella storia con l'assoggettamento di uno dei due, ma nemmeno con il loro equilibrio e la loro equipollenza in una società di produttori liberi, una democrazia mercantile, o se volete «democrazia popolare», vana ideologia piccolo-borghese. Il dialogato si risolve dopo la vittoria del comunismo proletario colla confusione dei due personaggi tradizionali nell'unica realtà dell' Uomo Sociale.

La visione altissima del produttore che ha la sua soddisfazione non nel bisogno e consumo di altrui prodotto, ma nel solo fatto unilaterale del produrre, e quindi di offrire, dottrinalmente qui impostata, non può intendersi come riferita ad una società di produttori autonomi, ma solo ad una società di produttori cooperanti, non divisi più da alcuna frontiera territoriale o statistica.

Si tratta di avere attinta la forma della produzione sociale integrale collegata al godimento sociale integrale, in cui fine della produzione non è il consumo del produttore, ma il dono del suo prodotto alla società, nella quale si ravvisa egli stesso.

Prova che questo non è nostro complemento o velo che solo il trascorso secolo ci consenta sollevare su detti profetici, possiamo citare le sole parole che nel testo in nostro possesso chiudono la citazione. «Le nostre produzioni sono come altrettanti specchi, nei quali si riflette il nostro comune genere...».

La vittoriosa invarianza

Ma tutti i testi di Marx sparsi nell'opera immane convergono tra di loro. Quanto abbiamo fin qui esposto ci permette di integrare l'esegesi dello scritto sulla proprietà della terra riportato nei Corollari a Torino, quello che conteneva il classico teorema poco fa richiamato: «trasferire la terra a lavoratori agricoli associati significa consegnare tutta la società ad una classe particolare di produttori».

Marx vede la nazionalizzazione del suolo, misura di transizione, come fatto «che provocherà la completa trasformazione dei rapporti tra capitale e lavoro e finalmente eliminerà la produzione capitalistica tanto nell'industria che nell'agricoltura. Non sarà che allora che le differenze e i privilegi di classe spariranno e la società si trasformerà in una associazione di produttori (corsivo nel testo). Vivere del lavoro altrui sarà allora divenuto un affare del passato. Non vi sarà allora né Governo né Stato in opposizione alla società stessa».

Ricordiamo che questo scritto è posteriore al 1868. Quale splendida invarianza! Il testo così continua: «L'agricoltura, le miniere, le industrie, in breve tutti i rami della produzione saranno progressivamente organizzati nel modo più efficace. La centralizzazione nazionale dei mezzi di produzione diverrà la naturale base di una società composta di associazioni libere ed eguali di produttori coscientemente attivi secondo un piano comune».

Anche letteralmente questo passo è abbastanza chiaro per fare intendere che ogni economia organizzata per Regioni (Russia) o peggio per Comuni (Cina) è fuori della strada storica che passa per il socialismo di primo stadio e offre la sola base per giungere al comunismo totale; e quindi per convincere di insanabile errore dottrinale il voto 23 agosto 1958 del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, che dice a conclusione: «Scopo fondamentale delle Comuni del popolo (nelle quali potrà essere introdotto il sistema dei salari!) è di accelerare la costruzione socialista, e scopo fondamentale del socialismo è di preparare attivamente la transizione al comunismo. Sembra che il raggiungimento del comunismo in Cina non sia un evento del futuro remoto (sic!). Dobbiamo servirci delle Comuni del popolo per esplorare quale sia la via più pratica per la transizione al socialismo». Mentre altro testo si intitola: «La Comune, unità primaria della futura società comunista».

Se possedere una dottrina non è inutile bagolamento, questa esplorazione è già fatta e non ha più bisogno di sonde spaziali! La strada non è, come piace ai cinesi: comunalismo, socialismo, comunismo; ma è, all'opposto, concentrazione nazionale, socialismo (internazionale e non mercantile!), comunismo.

Ma il passo di Marx potrebbe ancora indurre lettori alquanto... codini a un equivoco: che la descritta società comunista sia composta di associazioni multiple, nel senso che ciascuna disponga del proprio prodotto e lo scambi con le altre. Sarebbe equivoco sesquipedale. Si tornerebbe all'errore, già molto prima superato di consegnare la società alle cooperative di produttori agricoli o a una loro confederazione. Le associazioni di produttori della società futura, i cui membri saranno anche di norma scambiati molte volte nel corso della vita attiva di un uomo, saranno associazioni che hanno per solo fine la funzione, l'atto, la gioia del produrre. Non solo in quanto seguono un piano razionale comune, ed in quanto la società si sarà trasformata in una associazione di produttori, come nello stesso contesto, ma soprattutto in quanto questi raggruppamenti, tecnici e non economici, di produttori mettono tutto il loro prodotto a disposizione della società e del suo piano centrale di consumo.

Ci consideriamo pervenuti alla prova che, nell'invariante marxismo, la società comunista non ammette proprietà di gruppi (come non contiene singoli proprietari), nemmeno sul prodotto del loro lavoro e sull'oggetto del loro consumo. Produrre, vivere e godere sono in questo sistema uno stesso atto che si ricompensa da sé, e non si compie più sotto la vile frusta degli appetiti di consumo. La sintesi dialettica lavoro-bisogno si fa solo alla scala dell'Uomo Sociale.

Naturalmente per il filisteo borghese la storia russa ha già dimostrato che questo fu un sogno generoso folle ed impossibile.

Ma il filisteo occidentale capirà che non può cantare vittoria, quando il filisteo russo sputerà la confessione che non ha nulla a che vedere con il comunismo marxista.

L'uomo e la natura

Il brillante brano di Marx di cui il relatore ebbe a servirsi allo scopo di delucidare quistioni di economia e di storia sociale, portando in argomento il tema suggestivo dei rapporti tra individuo e società nel loro svolgimento, e quello della possibilità di una scienza umana (non individuale ma collettiva e di partito, qui il punto cruciale) di stabilire leggi della storia avvenire, condusse sul terreno che comunemente si dice filosofico, e dette luogo ad alcune critiche del relatore ad interventi e riferimenti di marxisti (ma di pianta stalinista, ahimé) nel coevo congresso di filosofi a Venezia.

Noi sosteniamo che sia possibile l'indagine sulle leggi della società futura in quanto diamo alla scienza della società umana, per quanto sia essa solo al suo inizio, le stesse capacità che alla scienza della natura, la quale già all'inizio del tempo borghese, quattro secoli addietro, era in piena fioritura.

Con ciò il marxista ha superata la reverenza per una barriera invalicabile tra le forme della conoscenza dei fatti della natura e quella dei fatti umani. La nostra pretesa di descrivere la società futura si fonda su quella dell'astronomo di prevedere le eclissi, fatto bene antico, ed anche le fasi millenarie della vita di una stella o di una nebulosa.

La filosofia della storia non ha ragione di essere diversa dalla filosofia della natura; e ciò più correttamente si esprime dicendo che, quale che sia il diverso grado di sviluppo, scienza della natura e della storia si servono degli stessi metodi di indagine, per lo scopo unico di stabilire uniformità di eventi passati ed attuali, e da tanto assurgere a previsione di eventi futuri.

Ciò non si reggerebbe se si tollerasse la estraneità di due mondi, quello della natura materiale e quello dello spirito. In base a queste distinzioni elementari tutti i marxisti che hanno trattato di filosofia e di critica delle filosofie convenzionali del mondo borghese si sono proclamati monisti, in quanto materialisti. Filosofia monista potrebbe essere anche quella basata sul solo mondo dello Spirito, di cui quello materiale sia considerato una emanazione o (cosa meno astrusa delle altre) una creazione. Si dicono invece dualisti i sistemi che tengono due mondi in piedi di fronte e distinti. Marx ed Engels si dissero monisti di fronte ad Hegel e all'idealismo tedesco, Plekhanov e Lenin ne rivendicarono la posizione dinanzi a più recenti filosofi borghesi e a contorcitori del marxismo classico anche sul piano filosofico.

Ma i cosiddetti marxisti del Congresso di Venezia ostentano di non essere «monisti» e attribuiscono tale qualifica al «materialismo volgare e borghese». Il materialismo di Marx è detto, con termine che piacque a Stalin, dialettico, e secondo tali orecchianti la dialettica c'entra in quanto concede, di fronte al mondo della natura, una posizione autonoma e contrapposta al mondo dell'uomo.

Uomo e natura era uno dei temi di Venezia; e ciò avrebbe condotto a parlar molto di marxismo: ma di quale marxismo? A dire di una relazione dell'Unità di settembre, il Congresso si sarebbe orientato contro la tendenza a risolvere i due termini l'uno nell'altro, «la natura nell'uomo (idealismo) o l'uomo nella natura (meccanicismo o materialismo volgare)». La concezione che oggi è «alla moda» avrebbe stabilito che i due termini sono «correlativi», e di questo il marxismo sarebbe la più vivace se non l'unica (sic!) espressione.

Il solo fatto che un giornale che si dice marxista vada a cercare successi in un simposio di filosofi ufficiali e professionali basta a spiegare come si sia in presenza di una tremenda confusione di principii.

La dialettica è invocata a torto per far passare di contrabbando che il settore dei fatti umani si contrapponga dall'esterno al settore dei fatti naturali; e questa non è che una passerella alla confessione che non si deve ammettere che cause naturali determinino i processi umani, e vale introdurre quindi fattori non materiali di cui l'uomo pensante è portatore e che trasformano il mondo.

Ciò vale ammettere che la natura si plasmi su modelli che hanno fatta la loro prima apparizione nel Pensiero, ossia nello spirito, e vi trovano tutta la loro genesi. Il gioco della dialettica va invece posto in ben altro rapporto: non tra natura ed uomo, ma in quello tra società umana ed individuo singolo.

Tutte le ideologie che vogliono portare innanzi l'uomo rispetto al mondo fisico, e dargli su questo un imperio, che lo liberi dalla determinazione, anche dove non lo dicono, non pensano all'Uomo specie, ma all'uomo persona. Tutti gli idealismi sono individualismi. Tutti i Croce che dicono che sola origine della scienza è nell'atto del pensare ammettono come campo di ricerca la mente ed il cervello, che è di un uomo singolo.

I vari materialismi

Che cosa intende dire Marx quando parla di materialismo volgare in contrapposto al suo materialismo storico? Qualche cosa di analogo a quando contrappone la economia volgare alla precedente economia classica, sebbene borghesi entrambi. Il materialismo volgare non è quello di prima, ma di dopo la Rivoluzione Francese. Nell'Enciclopedia vi è un materialismo filosofico che Marx chiama appunto classico, e a cui attribuisce la potenza di condurre dalla distruzione di ogni fideismo nella natura a quella del fideismo e spiritualismo nella società umana. Ma la vittoria della società capitalistica ferma questi sviluppi dottrinali classici, e riduce la scienza economica all'economia volgare, che dissimula la estorsione di plusvalore e pluslavoro, come riduce il materialismo classico di Diderot e di d'Alembert ad una filosofia volgare che non intacca la dominazione borghese e apologizza la oppressione economica dopo avere condannata quella culturale e giuridica. Il materialismo volgare come lo intende Marx è quello che si sviluppa poi nel positivismo oggi giustamente dileggiato e scientizzante degli Spencer, Comte, Ardigò e varie versioni nazionali, che adescarono decenni addietro i socialisti revisionisti anglolatini, mentre l'idealismo vecchio stile adescava i tedeschi e russi.

Cercheremo di indicare più linearmente la distinzione tra materialismo volgare e materialismo marxista. Ammettiamo che in entrambi siano posti a base e sottostruttura i fatti materiali, e dalla loro dinamica si voglia indurre la scienza dei fatti e comportamenti umani e la spiegazione delle umane opinioni ed ideologie. La miopia del materialismo volgare sta nel porre questa relazione nel campo chiuso dell'individuo umano.

Per il materialismo storico nostro, termine che Marx considerava equivalente a quello di determinismo economico, la quistione è sollevata al campo di tutta la società e della sua storia, e la ricerca non verte più sul comportarsi e il pensare del singolo, ma sull'attitudine e la ideologia delle classi sociali e delle forme che si succedono nella storia.

Il determinismo dei positivisti si riduce ad una causazione tra fisiologia e psicologia; quello dei materialisti marxisti parte dalla economia sociale per costruirvi la spiegazione del diritto, della religione, della morale e anche della filosofia delle successive epoche.

La prima veduta è sterile ed insufficiente ed inoltre si avvia su un percorso oscuro e senza fine. Essa tiene come noi conto dell'effetto dell'ambiente fisico esterno all'uomo, ma in mille irreducibili peculiarità, mentre a noi interessano circostanze e relazioni generali come quella tra un clima geografico e l'adattamento e comportamento che induce nel popolo che ci vive, come media costante per tutti i singoli.

La scienza è molto molto lontana dal poter stabilire dai dati fisici dell'ambiente in cui vive un organismo umano, e dal... menù delle vivande che gli sono servite in tavola, la generazione dei pensieri nel suo cervello; in quanto ancora non è scoperto il legame che unisce i sistemi vegetativi e neuro-psichici. Ma nel nostro materialismo noi riteniamo di poter trattare con rigore scientifico, ossia con buona riduzione degli effetti dell'errore, la relazione causale tra le condizioni materiali di vita di una collettività umana, come rapporto con la natura e rapporti tra uomini (tra classi sociali) e i caratteri della sua organizzazione politica giuridica e così via.

La differenza tra i due materialismi non sta dunque nel fatto inventato che Marx abbia decampato dal terreno monista per stabilire la vuota parità dignitaria tra natura ed uomo, specie di neo-dualismo, ma nel criterio fondamentale che noi non passiamo per la inafferrabile determinazione che gioca nel singolo organismo e cervello personale, non cerchiamo la vuota fantasima della «personalità», ma fondiamo la relazione sulle condizioni materiali di una comunità sociale e tutta la serie delle sue manifestazioni e sviluppi storici.

Su questa base noi riteniamo fondatamente e con ricchezza di prove storiche che nulla è l'influenza di una personalità sulla vicenda sociale, e che la storia e la sociologia umana vanno considerate come uno dei campi di descrizione in cui è lecito considerare ripartita la conoscenza della natura, senza che una tale distinzione e separazione abbia valore preminente davanti a tutte le altre; per il che è ben giusto dire che nella dottrina marxista la scienza della società umana è compresa in quella della natura materiale, anzi la seconda nella sua costruzione deve giocoforza precedere la prima.

Perché materialismo dialettico

Fermo restando che il materialismo dialettico è stato assai malamente presentato da Stalin nel suo libro, avente la sola mira di giustificare, con concessioni ad un aberrante volontarismo storico, la pretesa di costruire socialismo artificiale nella Russia isolata ed arretrata, possiamo chiarire ora in quanto si può ammettere la espressione di materialismo dialettico come totale equivalente di materialismo storico. Non si deve intendere che la dialettica consista nel dire: l'economia fa la politica, ma poi la politica (bassamente ridotta a prassi di stato) rifà a suo modo l'economia. Questa è una inversione di tesi e non la sintesi di una tesi e di una antitesi feconde. Marx ha detto che gli uomini fanno la loro storia, vecchia obiezione di rimasticatori scarsi. È certo che la fanno, colle mani coi piedi e con la bocca anche, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo è che la facciano con la testa, ossia che siano a tanto di «costruirla» (termine esoso e da imprenditore borghese) su di un modello, o progetto, tutto pensato. La fanno sì, ma non come credevano e sapevano di farla, né come prevedevano e desideravano. Ecco il punto.

La dialettica sorge nel chiedere: questa impotenza, questo negato libero arbitrio umano, concerne l'individuo o concerne anche la società umana? La risposta marxista è qui classica. Il soggetto personale, e a più forte ragione nelle società a struttura individualista, è immerso nel massimo di quella impotenza a prevedere ed a guidare. In queste società, e soprattutto in quelle la cui ideologia è bolso liberalismo, più il singolo riveste un grado alto della gerarchia, più è una marionetta tratta dai fili deterministi.

Anche la società come un tutto, e fino a quando è una società divisa in classi, non possiede visione e direzione del proprio avvenire; in essa nel corso della storia gli interessi delle classi che si scontrano si rivestono di previsioni (profezie) e di ideologie in contrasto, ma non arrivano alla potenza di prevedere e di preparare il futuro.

Quella sola classe, presente in questa società capitalista, che ha interesse alla abolizione della società divisa in classi, può aspirare alla capacità di lottare per tale fine e di averne nel suo seno una conoscenza ed una visione, e questa classe (il marxismo scoprì), è il moderno proletariato.

Ma fino a che questa classe vive nella società capitalistica la visione cosciente del suo avvenire non può aversi in ciascun suo membro, e nemmeno nella sua totalità, ed è solo sciocco pretendere tale coscienza e volontà nella maggioranza di essa; questa idea non è che uno dei tantissimi derivati borghesi che intorbidano le menti dei proletari e che solo un seguito di generazioni potranno cancellare.

Quindi un singolo non può assurgere alla visione della società comunista per effetto del riflesso delle sue convenienze ed interessi personali; questo sarebbe materialismo volgare. E nemmeno può concentrare in sé la visione della classe e il futuro della società umana se non come convergenza delle forze di classe.

La contraddizione è che l'uno non può e la collettività neppure; e ciò condurrebbe alla impotenza eterna non solo di volere il futuro, ma di prevederlo.

L’uscita dialettica da questa doppia tesi (che il proletariato può e non può, è la prima classe che tende alla società aclassista, ma non ha la luce che alla specie umana risplenderà dopo la morte delle classi) sta nel doppio passo contenuto nel Manifesto dei Comunisti: primo tempo: partito; secondo tempo: dittatura. Il proletariato massa amorfa si organizza in partito politico e assurge a classe. Solo facendo leva su questa prima conquista si organizza in classe dominante. Egli va alla abolizione delle classi con una dittatura di classe. Dialettica!

La capacità di descrivere in anticipo e di affrettare il futuro comunista, dialetticamente non cercata né nel singolo né nell'universale, è trovata in questa formula che ne sintetizza il potenziale storico: il partito politico attore e soggetto della dittatura.

Determinata passività del singolo

La tesi che abbiamo stabilita mette al loro posto il materialismo volgare o borghese e quello comunista. Il primo gioca, anche nella origine classica, sulla persona. Quando il francese d'Holbach dice «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» ossia: nulla è nell'intelletto che non sia prima stato nel senso; egli stabilisce una relazione diretta tra la influenza materiale della natura sull'individuo e le sue manifestazioni mentali, le sue opinioni. Questo era, anche per Marx, un passo avanti, perché permetteva di superare il fideismo, secondo il quale nella mente di ciascuno vi è un dato innato (anima) che viene dalla divinità; ed anche il contemporaneo idealismo sassone per il quale, anche facendo a meno del dio, un substrato ideale che non si sviluppa dalle materiali sensazioni si trova collocato in tutte le teste.

Ma la posizione del materialismo borghese è enormemente indietro rispetto alla nostra. La relazione, in Marx, si stabilisce tra la condizione materiale media in cui vive un determinato agglomerato sociale e le sue corrispondenti manifestazioni nei campi dell'intelletto, che sono ritenute come religione, ideologia, arte, cultura, politica. La passività dello «spirito» rispetto alla materia nella singola persona resta per noi fatto assodato, ma la sua meccanica resta irraggiungibile alla scienza del tempo capitalistico, oggi in piena crisi degenerativa, che l’ha vanamente inseguita. Il pensiero ufficiale, e peggio nei congressi filosofici, non possiede la chiave dialettica per spiegare le sue contraddizioni. Per il fideista Dio ha messo tutto a posto nella testa dell'uomo (come in ogni angolo della natura fisica che lo attornia), ma al primo è data una persona, col suo libero arbitrio nell'opinare e nel comportarsi, ed una responsabilità (inevitabile complemento del fastidioso feticcio: la personalità), e quindi il sistema di premi e di castighi.

Il borghese ateo in un primo tempo gettò giù il libero arbitrio e aggiogò la testa allo stomaco, ma siccome, per dirla in breve, la sua nuova «forma di produzione» aveva bisogno di stomaci vuoti, autorizzò a pensare ed opinare i relativi cervelli, e fondò il sistema della democrazia elettiva generale e della responsabilità giuridica, arrivando a fare del suo Stato di classe dominante l'Assoluto etico sociale. La cultura moderna, in cui confluiscono bassamente i disertori della rivoluzione, oscilla tra questi due fantocci di cartapesta: il singolo responsabile, e lo Stato etico cieco.

Noi riteniamo il risultato della passività incosciente del singolo, ma nel nostro determinismo la previsione e la verifica non pretendiamo averle alla scala individuale. Le dimostriamo nel campo sociale con l’analisi storica (ed economica), e non escludiamo che la regola media generale sia contraddetta in casi singoli svariatissimi, senza che ciò intacchi la nostra teoria. Non cerchiamo la prova del determinismo nelle opinioni che stanno nella testa degli uomini presi uno per uno, né la sua rottura nella coscienza volontà ed iniziativa di azione di persone, minime o massime.

La rottura tuttavia viene, e in generale nella storia ha sempre nel fatto preceduta la sua esatta coscienza teorica. La rottura che seguirà la determinazione dell'epoca borghese, per cui le vittime del sistema pensano con la ideologia propria di esso, in generale, verrà, ma per la prima volta nella storia (e quindi non per effetto innato nell'atto creativo divino o nella immanenza della Idea) - ed in ciò il «rovesciamento della praxis» - con la comparsa di un soggetto conoscente, volente ed agente di sua iniziativa che non è una persona, ma il partito rivoluzionario. Questo esprime l’organizzazione della classe proletaria moderna, ma più che rappresentare la classe in un senso borghese di delega democratica, la rappresenta nel suo programma e nella sua futura attuazione, rappresenta la società comunista di domani, e questo è il senso del salto (Marx-Engels) dal regno della necessità in quello della libertà, che non compie l'uomo rispetto alla società, ma la Specie umana rispetto alla Natura.

Potente ortodossia

Negazione dell'individuo, affermazione dell'Uomo Sociale, della Specie uscita dalla sua travagliosa preistoria. Si tratta di continuo, e senza accusare stanchezza, di mostrare che la tesi è quella originaria della scuola marxista, e che essa sgombra il campo da tutti gli ostinati e infetti immediatismi, la cui comune diagnosi è la paralisi della dialettica, universale e non contingente e pettegola, propria del marxismo rivoluzionario.

Per il primo effetto rifacciamoci al brano più classico di Marx, nella prefazione alla Critica dell'Economia Politica. Quando noi facciamo entrare in campo, al posto dell'individuo, il complesso degli uomini, non facciamo solo una integrazione quantitativa, dall'uno ai molti, e saremmo per dire spaziale, ma anche temporale. La vita della specie non ha limiti temporali comparabili a quelli della caduca Persona; e nel marxismo la Produzione non conserva solo il singolo animale uomo ma è un anello della sua Riproduzione. Lo stesso citato filosofo barone (uscito come persona dal suo determinismo di classe feudale) non avrebbe esclusa l'ereditarietà: ogni cervello non pompa solo dalle sensazioni della sua vita, ma anche da quelle dei progenitori. Ciò è del tutto scientifico; ma non lo è meno la constatazione, più che materialista, che ciascuno pensa anche col cervello degli altri, anche conviventi. Sarà brillante dire che il cervello è una glandola che secerne il pensiero, ma in questo non siamo materialisti volgari, e non aspettiamo chi scopra l'ormone-pensiero; per noi, veri materialisti, vi è un cervello collettivo, e l'Uomo Sociale vedrà uno sviluppo, ignorato dalle antiche generazioni, del Cervello Sociale. Ma che si pensi colla testa degli altri è un fatto positivo antico e contemporaneo. «Nella produzione sociale della loro vita gli uomini accedono a rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; rapporti questi di produzione i quali corrispondono ad un grado determinato della evoluzione delle forze produttive materiali». Il testo segue definendo come base questi rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica della società.

Su tale base reale «si eleva la superstruttura giuridica e politica, cui corrispondono determinate forme della coscienza sociale». Come nella nostra fedele ricostruzione, la persona sulla scena non è apparsa affatto. Non è la posizione economico-sociale dell'individuo che determina la sua ideologia; questo è stato detto tanto spesso quanto male: la formula di Marx è: «il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale». Segue la nota presentazione del contrasto tra le forze produttive e le forme di produzione o rapporti di proprietà; o teoria delle rivoluzioni (di tutte le rivoluzioni). A questo punto la critica investe in modo lapidario, dopo aver messo fuori causa la coscienza della persona e quella di ogni data società, la stessa «coscienza che la rivoluzione ha di sé stessa». Il testo dice: «Come non si giudica un individuo secondo ciò che egli pensa di essere, così non si possono giudicare le epoche di sovversione [e, aggiungiamo noi, a maggior ragione quelle di conformismo] dalla coscienza che esse si formano di sé stesse».

Ove, poco oltre, Marx, dopo avere elencata la serie classica dei modi storici di produzione, enuncia che con la forma borghese «si chiude la preistoria della società umana», in quanto le forze produttive sono divenute tali da consentire di risolvere l'antagonismo tra rapporti e forme di produzione, ossia di passare ad una società senza classi; è precisato che quei rapporti borghesi, ultimi ad essere antagonistici, lo sono «non nel senso dell'antagonismo personale e subiettivo, ma nel senso di un antagonismo risultante dalle condizioni della vita sociale degli individui».

È dunque rigorosamente classica la nostra riduzione a zero del fattore individuale nella storia, nelle rivoluzioni, e nella rivoluzione comunista. E la eliminazione della persona singola come soggetto di azione rivoluzionaria, e perfino di antagonismo sociale (lotta di classe).

Epicedio dell'immediatismo

La forma democratica dell'opportunismo è quella classica (nell'infamia) della Seconda Internazionale, tumulata da Lenin e riesumata da Krusciov, che dice possibile col meccanismo parlamentare l’attuazione maggioritaria del socialismo. Il crasso ragionamento è una vile parodia della formula polemica del Manifesto: il comunismo è il moto dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza. In tal caso la rivoluzione proletaria sarebbe la prima... a non essere una rivoluzione e a risolvere in via incruenta il contrasto tra forze produttive e forme di proprietà, l'antagonismo sociale proprio della precedente forma, del tempo capitalista! La negazione marxista di tale possibilità sta nella tesi di base del determinismo: la dominante ideologia di ogni epoca è lo specchio sovrastrutturale della sua base economico-produttiva: oggi la proprietà capitalista. La rottura della sovrastruttura sarà l'effetto della rottura alla base; gli operai, classe oppressa, si muoveranno in massa per la rivoluzione violenta, ma solo dopo di essa acquisteranno in massa la nuova sovrastruttura: l'ideologia comunista. Consultare pregiudizialmente le loro opinioni, anche se fosse vero che la maggioranza degli elettori sono proletari, significa avere resa impossibile la rivoluzione, eterno il capitalismo.

Qui il cardine dell'opportunismo totale, quale era quello dei riformisti del principio del secolo, legalitari incarogniti, e quale è oggi quello dei vantati marxisti-leninisti figliati da Stalin e covati da Krusciov e simili chiocce.

Ma abbiamo detto di ridurre ad analoga negazione della tesi base, del principio primo del marxismo, anche le posizioni immediatiste. Fanno esse parte dell'opportunismo? Indubbiamente sì quanto alla sostanza, un poco meno quanto alla forma; ossia alla fasulla «coscienza che hanno di sé stesse». Una specie di sifilide del terzo stadio. Non è mortale, ma ereditaria: da preferirsi l'opposto.

La posizione libertaria è senza speranza individualista. Acquistata la coscienza che la società è ingiusta, il ribelle, con la sua generosità magari eroica, se ne considera uscito: lo spirito prima del corpo. L'esatto inverso del determinismo. Quanto agli altri, non vuole usar loro violenza: vorrebbe dire accettare la posizione di Marx-Engels: la rivoluzione è un fatto autoritario per eccellenza. Tutti quindi dovranno liberarsi soggettivamente, e cominciando tanto dalla persona come dalla sovrastruttura. Il rovescio del marxismo. (Altro non ci preme: ad ognuno il permesso di negare il marxismo... fin che il vero marxismo non avrà il potere).

La posizione operaista, che comprende in sé il laburismo di destra quanto il sindacalismo di sinistra, cade sotto la stessa analisi. Non è un partito politico che deve condurre la lotta rivoluzionaria, ma le organizzazioni economiche in cui sono tutti i lavoratori e solo i lavoratori; dicono questi. Ma l'associazione di lavoratore con lavoratore (e poi nel limitato cerchio di categoria) non toglie che il lavoratore viva da salariato nel rapporto borghese di produzione e sia predestinato alla ideologia borghese sovrastrutturale. Associare i lavoratori compressi dal rapporto capitalista, e credere di aver con tanto stabilite le condizioni della società socialista, ecco il colossale errore. Chiedere a questi organismi di proletari, ad una loro democrazia interna, di elaborare dottrina e programma e di condurre l'azione, ecco l’illusione immediatista. Un tale meccanismo non si eleverà mai sopra l'immediato contatto con la struttura borghese della produzione, e quindi con la sua ideologia derivata, che va distrutta prima che negata; e che per tale via non sarebbe mai negata e mai distrutta.

Una negazione dell'immediatismo che sta alla radice di ogni falso sinistrismo (imputabile a tutti i gruppi storici meno che alla nostra Sinistra detta italiana) è quella di ammettere, giusta il sano marxismo, che come un membro della classe oppressa ben accade che stia nei partiti della classe dominante, inversamente può ben stare nel partito rivoluzionario chi della classe oppressa non sia membro. Per via mediata e non immediata la rivoluzione riceve l'apporto di elementi che non vi hanno diretto interesse. Questo è incomprensibile all'immediatismo.

Ma questo dice, facendo tesoro della storia sociale, il Manifesto colle parole, nella descrizione dell'acme rivoluzionario, che suonano: «in tempi in cui la lotta di classe si avvicina all'ora decisiva... una piccola parte della classe dominante diserta il proprio campo e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che ha in mano l'avvenire...» e come segue; mostrando che gli ideologi borghesi passano al proletariato e alla rivoluzione, come avvenne per la nobiltà illuminista, filosofa o talvolta sanculotta.

Qui l'immediatista se double anzi se triple dell'ipocrita e del demagogo: il pericolo opportunista non starebbe nella cecità immediatista, ma in questo accettare ideologi e dirigenti non operai! Dove si troverà il rimedio? La nostra risposta è senza esitazioni: nel partito politico, una volta che abbia superate le malattie opportuniste ed immediatiste, e si affermi il criterio risolutivo che la causa della rivoluzione prevale a dispetto di ogni maggioranza consultiva.

È recente la nostra citazione di Engels in fine della sua vita, oscura e disinteressata quanto quella di Marx: «Nel nostro partito noi possiamo ammettere elementi di tutte le classi della società, ma non vi possiamo tollerare gruppi di interessi capitalisti e contadini medi o mezzo borghesi». Riducete il partito depositario della rivoluzione ad un complesso di leghe economiche o di consigli aziendali, potrete vantarlo quanto volete strettamente operaio, ma in effetti lo avrete reso schiavo delle influenze piccolo borghesi e borghesi. Gli esempi storici sono innumerevoli, primo quello inglese. Non ricorderemo poi la posizione decisissima di Lenin su questo punto, illustrata nei nostri studi russi nelle opere teoriche come Che fare? e nella storica prassi rivoluzionaria bolscevica, nella condanna di ogni risibile «economismo» e di ogni «aziendismo».

La diretta via rivoluzionaria è solo alla classe lavoratrice che può collegarsi. Ma non basta un collage immediato, una aderenza inerte. Vi sono, dialettici e dinamici termini mediati, indispensabili e potenziati, la teoria rivoluzionaria del determinismo storico, il programma della società comunista, l'organizzazione in partito, sola nella quale si realizza il soggetto e il motore, la volontà e la potenza della rivoluzione integrale.

Libertà e valore

Uno dei soggetti del Congresso filosofante ha commosso gli stalinisti, che non hanno saputo capire come il tema Uomo e Natura è posto con intenti borghesi, e vale conformisticamente il trito binomio: Io e Cosmo, conducendo a farne due sfere autonome, e peggio a fare del Cosmo una deforme funzione dell'Io; e non sono certo gli ex marxisti opportunisti o immediatisti che sapranno opporre la giusta formulazione: Natura e Specie, su cui non si costruisce un dualismo, ma un monismo che assegna alla scienza della specie il posto di un settore della natura, con una stessa metodologia scientifica, o una filosofia unica, fino a che non avremo visto aboliti il sostantivo e la professione. Solo fino a che si parlerà di filosofi si discuterà di nobiltà o di dignità degli elementi: ma se per un momento volessimo accedere all'uso di tale linguaggio, dichiareremmo più Bellezza Armonia e Dignità nella natura extra umana, di quanto fino ad ora ne abbia offerta la storia della natura umana.

Verremmo in un certo modo al secondo tema del Congresso, anche esso binomiale: Libertà e Valore. Gli ex marxisti anche qui hanno pascolato nel campo della ideologia piccolo-borghese; si tratterebbe di una eterna affannosa ricerca in cui l’umanità è tragicamente lanciata; e tutte le battaglie rivoluzionarie avrebbero avuto lo stesso tema: far un passo verso la Libertà assoluta e la Scoperta dei veri Valori della vita. I più audaci dei filosofi hanno ammesso che questa corsa non è finita, perché l'Uomo – s’intende, è sempre la persona a cui essi pensano - se non è più schiavo o servo feudale è tuttavia non libero. Ma ciò non perché sia salariato manifattore di merci, bensì perché ancora si usa la violenza nelle guerre di Stati e di classi, il potere totalitario e la repressione delle opinioni. Quindi una vaga aspirazione alla fine dello «sfruttamento» e della guerra, che impedirebbero di parlare di libertà e di valori. Simile vieto pacifismo e tollerantismo è stato preso dagli stalinisti per un incontro colla fondamentale esigenza marxista: quella dell'umanesimo! Ed ecco un altro orribile luogo comune che si sta facendo strada tra i tanti del repertorio filisteo.

Va gridato ben forte che il marxismo rivoluzionario non ha a che fare con la vaga enunciazione di umanesimo, che storicamente si può definire in modi diversi, ma tutti immensamente da noi distanti.

Storicamente si chiamarono umanisti i primi borghesi che nel campo dell'arte e della filosofia reagirono alla dominazione teologica ritrovando i valori reali e non mistici della vita pagana classica. Valori utili alla rivoluzione borghese in senso lato ma che nulla hanno a che fare colla rivoluzione proletaria, che si vede contro la borghesia atea quanto quella mistica. Più modernamente l'abusato termine di umanesimo non è che la copertura di tutti gli inganni con cui determinati settori del brigantesco mondo capitalista hanno in questo secolo recitata la bolsa infame commedia, causa prima dei tradimenti opportunisti, della condanna alla aggressione, all'atrocismo, al personicidio e al genocidio.

A questa gente classicamente Marx ha risposto che il cammino necessario della storia fino ad oggi, e per un'altra fase ancora - e peggio ancora se non prevarrà la nostra teoria ultraottimista per cui siamo all'ultima delle società di classe, come gradirebbe il filisteo - si è fatto passando su persone e individui, dunque su corpi e su «spiriti» umani; ed anche, è ben lecito aggiungere, anche se la citazione non è sottomano, su popoli interi (ne sa qualcosa la puritana civiltà della ultraumanistica America!).

La posizione marxista

Il primo tema del Congresso che una schiera di professorissimi teneva a Venezia aveva dato lo spunto alla nostra piccola riunione di Parma per mettere in luce viva la nostra tesi antindividualista che scioglie i nodi dell'antico imbroglio tra monisti e dualisti, tra materia e spirito. Il secondo tema, a parte le palesi attinenze tra i due, ci offrì l'agio di ribadire la nostra tesi antimercantilista. Come la nostra rivoluzione sola e prima compirà il saltus fuori dal personalismo, così sola e prima farà quello che va fuori di un'altra peste multiforme: il mercantilismo.

La categoria valore, oggi in gran moda, non è che la vuota sovrastruttura della base economica valore di scambio, propria delle economie di mercato. Noi non ci schieriamo nel corteo dei cercatori di valori nuovi, o tampoco alla testa di esso. Quando il prodotto del lavoro umano ed il lavoro stesso non avranno più come finalità lo scambio con altro prodotto, o col tramite monetario, e il lavorare e il produrre avranno fine e gioia intrinseca senza barriere nel consumare, allora non resteranno valori ideologici intorno a cui blaterare letterariamente o congressualmente. Come la categoria libertà, che storicamente ha avuto sempre il significato di lotta di uomini contro uomini oppressori, perderà il suo senso soggettivo in una società senza antagonismi, perché senza lavoro venale, e la libertà non avrà più per soggetto la persona o la classe oppressa, ma l'Uomo Sociale, che non potrà perderla oltre i limiti della naturale necessità fisica; così la categoria valore, svuotata nel campo economico, sparirà come tema di verbali esercitazioni, dietro le quali vi è il nulla.

Possiamo leggere poche pagine più oltre la nostra Critica dell'Economia Politica: «Come attività adeguata per l'appropriazione della materia in una forma o nell'altra, il lavoro è la condizione naturale dell'esistenza umana, è una condizione per attuare il ricambio materiale tra l'uomo e la natura, indipendentemente da tutte le forme sociali. Al contrario il lavoro che crea valori di scambio è una specifica forma sociale del lavoro».

Il testo dà l'esempio del sarto che produce abiti, ma non produce valore di scambio, nella sua qualità di lavoro specifico, ma lo produce oggi come lavoro astrattamente generico, il quale è proprio di un certo nesso sociale (mercantilismo artigianale o capitalistico) «che non è stato cucito con l'ago del sarto».

Nella antichità i tessitori producevano l'abito senza produrre il valore di scambio dell'abito, aggiunge Marx. E noi aggiungiamo sicuri: nella società comunista si produrranno gli abiti, come ogni altra cosa, senza produrre valori di scambio. Socialismo - sempre il dialogo con Stalin! - è l'economia senza valori di scambio (nello stadio inferiore e nel superiore).

Se dunque i marxisti nella loro concezione espellono il valore dalla struttura economica di base, quali valori restano loro da perseguire nella sovrastruttura? Ove un valore economico sorge, per la legge di scambio per un altro soggetto esso è scomparso. Si forma valore dove si forma sopraffazione. La stessa abolizione dello sfruttamento economico è formula (vedi sopra) inadatta e incompleta storicamente; e noi diciamo più esattamente che si tratterà di abolizione di ogni valore di scambio e di ogni produzione di valori dal lavoro. Se non se ne produrranno dal lavoro, quali valori dovranno essere superstiti nella sfera, che abbandoniamo ai filistei, della ricerca «filosofica»? In conclusione il binomio libertà e valore echeggia con un certo significato nel solo ambiente di una società, come la presente, in cui la fregatura dell'uomo da parte dell'uomo sia, non diciamo un incidente più o meno criminale, ma la ragione stessa intima della sua struttura nel produrre e nel consumare, e quindi nel pensare.

La ricerca della libertà e del valore dunque non interessa il marxismo rivoluzionario, che nella dottrina del suo partito imposta la lotta del proletariato in modo assolutamente diverso da una qualunque partecipazione ad un concorso universale per una nuova formula in questa serie ingannevole, che le società antagoniste hanno offerto agli uomini nelle vicende della loro preistoria. Questa serie nella presente epoca borghese vede il suo termine, a cui non già resta da salire un solo scalino, ma che è il più nemico ed ostile, ed il più meritevole di una totalitaria distruzione, e negazione spietata di tutti i valori mentiti verso i quali - degenerando ormai fino all'estremo limite - tortuosamente si inerpica nelle sue mascherate ufficiali.

Persona e Partito

Il volgare tranello che i nostri avversari tendono alla formidabile costruzione marxista della teoria del partito rivoluzionario consiste nel riproporre tendenziosamente, dopo che la nostra critica ha superato il problema della relazione tra individuo e società, quello tra persona e partito, ed in altri termini il vecchio argomento del capo e delle gerarchie. Tale argomento concerne ogni forma di organizzazione e non il solo partito politico, in quanto ogni tipo di organizzazione ha il suo famigerato «apparato». Quindi in molteplici circostanze (tra le altre, Riunione di Pentecoste) abbiamo mostrato che se pericoli vi sono, essi possono essere domati e superati solo nella forma partito a preferenza di tutte le altre, la cui storia è piena dei fenomeni degenerativi che hanno accompagnato le ondate di opportunismo. Il classico «bonzismo» dei dirigenti, trattati con lauti stipendi e resi inviolabili da uno stupido timore reverenziale contro il quale abbiamo lottato all'arma bianca al tempo di Lenin, era il tessuto connettivo della Seconda Internazionale, e aveva dilagato nelle forme sindacali ed elettorali, le quali soffocavano la vitalità dei centri organici del movimento politico e se li erano sottomessi. In ciò il nocciolo della critica leniniana distruttiva dell'opportunismo, in tutti i paesi.

Nel rispondere a questa insinuazione dei detrattori del marxismo non va dimenticato che noi non difendiamo il «partito» in generale, un qualunque partito storico tra i tanti, ma la speciale ed unica forma che è quel partito rivoluzionario il quale primo e solo impersona il compito storico della classe proletaria moderna, e fa di essa non solo fine a sé medesima, ma mezzo per la realizzazione del programma comunista. Il socialismo, disse Engels nella sua prima redazione catechistica del Manifesto, è la dottrina delle condizioni della emancipazione del proletariato. Non meno generale è la citazione della frase che la emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi. Sono posizioni dialettiche a fronte della pretesa che il proletariato moderno sia stato già emancipato dal liberalismo borghese come tappa finale, e di quella peggiore oggi dilagante che possa essere emancipato dalla massa «popolare» piccolo borghese o populismo.

E l'altra nota massima di Lenin che deve servire la rivoluzione per il proletariato, ma non il proletariato per la rivoluzione va compresa dialetticamente (ogni nostra tesi va impiegata dopo aver chiarito l'antitesi che la sollevò storicamente) nel senso che la classe operaia non è una forza al servizio di una qualunque rivoluzione (si trattava allora di quella che creò la tedesca repubblica di Weimar) ma che la lotta rivoluzionaria va per noi condotta pei fini propri della classe proletaria, ossia per il programma comunista.

La obiezione che i capi rovineranno tutto è una secolare risorsa della polemica antisocialista dei ventri dorati, i quali ai lavoratori dicevano: volete unirvi per difendervi da voi stessi? Ebbene, avrete bisogno di chi vi organizza e lo dovrete pagare con quegli stessi sacrifici che oggi dite di fare per noi padroni. La modernissima pudicizia, da zitelle inacidite della rivoluzione, contro la coraggiosa leale e disinteressata rivendicazione della dittatura del partito comunista come unica forma reale della dittatura del proletariato, non è che una ennesima edizione di quella tradizionale reazionaria obiezione.

La sola forma invece che eviterà le degenerazioni bonziste è quella in cui l’aperta dichiarazione del partito che tende ad avere tutta la direzione della lotta rivoluzionaria non sarà sostituita dalla ipocrita offerta di consultare democraticamente le masse, più o meno popolari, per mettersi al servizio della volontà da esse manifestata, quale che essa sarà. La formula servire il proletariato, anzitutto nella pratica esperienza è stata usata da tutti i traditori storici della rivoluzione venduti e demagoghi; ed inoltre echeggia una sporca mentalità borghese. Servire (profitta di più chi meglio serve) è la divisa del Rotary Club internazionale, ossia della organizzazione mondiale dei predatori di plusvalore, interessati a mostrare che il loro fine è il solito bene universale.

La storia dei travagli del partito operaio di classe, lunga e sanguinosa, finirà quando il partito avrà superata la fase vergognosa dello stupido corteggiamento ai proletari, che ne vuol fare elettori o pagatori di quote sindacali, ma non li scuote rivoluzionariamente da quelle catene della loro servitù, meno visibili e contro le quali non basta nessun eroismo, che portano dentro sé stessi.

Non rifaremo dunque qui la storia dei trascorsi e dei pericoli delle forme apartitiche. È ad esempio un rimedio, come pare si illudano alcuni ideologi cinesi, il decentrare dallo Stato alle comuni locali, al pericolo dei capi prepotenti o delle temute cricche e gang di potere, dei colpi di palazzo, e simili letterarie ombre sinistre? A questa bambinata basta a rispondere un episodio che si racconta da secoli ai giovani. Giulio Cesare, il dittatore per antonomasia (al cui cospetto i moderni non sono che poveri pisciarelli pendenti) traversando un povero villaggio alpino virilmente esclamava: preferirei essere il primo in questo villaggio anziché il secondo in Roma!

Se la persona è un pericolo - in effetti essa non è che un vaneggiare millenario degli uomini nelle ombre che li dividono dalla loro storia di specie - la via che lo combatte sta solo nella unitarietà qualitativa universale del partito, in cui si attua la concentrazione rivoluzionaria, oltre i limiti della località, della nazionalità, della categoria di lavoro, della azienda-ergastolo di salariati; in cui vive anticipata la società futura senza classi e senza scambio.

Il partito «carismatico»

Spaccati borghesi e qualche sinistro andato a male vedono invece come rimedio alle forme recenti del degenerare borghese, alle oligarchie, cricche pretoriane, gangs criminali, bande di vampiri del potere, ed altre fumettistiche figure di cui è piena la stampa e la blaterazione contemporanea per la credulità dei minchioni, una «garanzia» non meno idiotamente presa a prestito negli arsenali borghesi, la «democrazia», trasportata dalla universalità costituzionale nei campi più ristretti - dove maggiormente è vana illusione - della classe e dello stesso partito.

Entro limiti storici ben definiti il meccanismo elettivo e consultivo ha un certo gioco effettuale, in quanto non può mai uscire dal cerchio mercantile e costituzionale borghese, ma può servire a temperare - a fine nettamente controrivoluzionario - taluni sgarri estremi di disamministrazione e di sopraffazione, che giovano a singoli componenti della classe dominante ma non alla causa conservatrice della classe dominante stessa. Ma anche in questo campo concreto, vogliamo rilevare, la garanzia che l'abuso sia evitato o represso non sta nelle autonomie periferiche o di categoria, ma nella estensione delle cerchie di organizzazione e di potere, che mano mano che si estendono e si elevano valgono di istanze superiori e di poteri correttivi a quelli inferiori e ristretti.

L’organizzazione interna del partito ha potuto e potrà servirsi a fini puramente meccanici di un simile sistema che indubbiamente ha le forme di una gerarchia, ma non racchiude nella virtù del suo ingranaggio nessuna «assicurazione» contro le crisi storiche, la cui causa è altrove. Quindi da decenni e decenni la Sinistra nostra ha chiarito che il partito contingentemente neppure è infallibile, e risente dialetticamente nella sua struttura degli effetti delle sue azioni verso l'esterno; subisce malattie e crisi, e paga il fio, con scissioni risanatrici e lunghe attese storiche, dell'aver deviato dalla invariante dottrina classica, dell'avere intorbidata la sua organizzazione interna e la sua manovra strategica: di qui la nostra condanna di blocchi, fronti, fusioni, reti insinuate in altri partiti e così via. Non è questo il luogo di mostrare come tutti i crolli nell'opportunismo sono legati storicamente ad episodi di quella natura, e meglio lo mostrerà la «storia» della lotta della Sinistra, in preparazione.

Questo arduo problema della vita contemporanea è visto in modo banale dagli ideologi borghesi i quali trattano metafisicamente di una evoluzione nella struttura di tutti i partiti moderni, in generale, in tutti i paesi, e qualunque sia il loro programma, o come noi meglio diremmo la loro base di classe.

Nella rivoluzione liberale avrebbe giocato la forma sana e pura del partito politico, basato sulla democrazia interna e sulla libera adesione degli iscritti che avveniva per fatto di opinioni nutrite di confessioni. Questo meccanismo viene presentato come una predominanza della «cultura» sulla «politica». Esso non esclude che il partito generico abbia una gerarchia, ma la apologizza secondo uno schema ingenuo: il capo sarà il più dotto e sapiente, e la dirigenza politica, nel dolce Ottocento borghese liberale, sarebbe stata condotta da maestri sugli allievi, sicché l'autorità nei partiti avrebbe avuto un contenuto intellettuale. Questo apparato politico sarebbe addirittura un correttivo della pesante burocrazia amministrativa!

È ovvio tuttavia che il toccasana era la democrazia, e che in questi partiti-scuole gli allievi si eleggevano i maestri. Nell'ultimo secolo una tale illusione è caduta, perché sono sorti i «partiti di massa», in cui la base ha perduto i diritti democratici e i capi sono piovuti dall'alto, e misteriosamente accettati. Tutta la spiegazione che ci è data di questa palingenesi storica sta nel dire che il gregariame segue il capo e la stretta corte che lo spalleggia perché ravvisa in lui un «carisma», ossia una grazia come divina, che egli solo possiede e può amministrare ad altri se vuole. La cultura sarebbe andata a farsi fregare, la politica avrebbe messa sotto i piedi la «cultura», nella società del Novecento. Il Capo non diviene tale perché è il più sapiente, ma il suo verbo fa testo perché egli è il Capo; sia pure un cazzaccio, diviene il Migliore.

La forza o la ragione

Abbiamo notoriamente condotta la critica della concezione del partito di massa e della maniera di direzione dei partiti comunisti introdotta nella Terza Internazionale sotto il deforme nome di bolscevizzazione; ma non abbiamo mai voluta vedere confusa questa nostra critica con quella che può essere dettata da posizioni apologetiche della democrazia generica, che idealizza un tipo buono per i partiti di tutti i colori e sbocca dove sboccarono come da facile previsione nostra gli stalinisti: in un piatto pacifismo sociale.

Sono dunque due quistioni ben distinte quella della natura del partito comunista e quella della evoluzione in tempo borghese della forma partito, o del rapporto politica-cultura.

Questa formula odierna del capovolgimento di una simile relazione a vantaggio del termine politica e contro quello di cultura la troviamo attribuita in articoli del Perticone al noto sociologo tedesco Max Weber, che quanto meno avrebbe al tempo dell'altra guerra teorizzato il partito «democulturale», restando poi travolto nella delusione hitlerista-stalinista. Sono dunque sempre ex-semimarxisti che vengono tra i piedi.

A noi interessa stabilire, prima di dire delle recentissime forme totalitarie e della spiegazione-deplorazione «carismatica», che mai il marxismo ha avuto nulla di comune con una teoria «dei partiti» in cui questi abbiano nella loro dinamica l'equilibrio ponderale delle opinioni degli aderenti. Nella nostra concezione del partito rivoluzionario questo ha la sua dottrina, e tutti i suoi componenti la accettano e condividono, ma non per questo hanno ad ogni stormir di fronda la facoltà di mutarla con consulte numeriche, perché essa nasce collettiva ma unitaria per forza della vicenda storica e non per un associarsi di cellule soggettive. Ma è la concezione di un solo partito.

Quanto agli altri partiti ci fa ridere la leggenda di una età dell'oro, democratica e di tipo scolastico e pupo-eruditivo. Nella rivoluzione borghese anche essi furono poggiati sulla dittatura e sul terrore; si dissero illuminati ma tale illusione la distrusse non Marx, ma perfino Babeuf quando teorizzò che nella lotta sociale la forza ha diritti maggiori della ragione; e quindi il partito razionale visto dal Weber non ha alcuna origine proletario-socialista. Siamo sempre lì; la scuola dei proletari sarà la vittoriosa rivoluzione, che per ora chiede ad essi le loro mani armate, ma non può chiedere loro una laurea politica; anche a quelli inscritti al partito non si chiede un «esame di cultura». Fin dalle lotte della Seconda Internazionale, la Sinistra ha deriso la tesi del partito «culturista».

Fin dal loro sorgere i partiti della borghesia hanno espressi e difesi interessi di classe e non cristallizzazioni di opinioni professate: i molti partiti medio borghesi e piccolo borghesi hanno costituito meccanismi per la trasformazione delle richieste dell'alto capitale in superstizioni politiche delle classi medie e della imbelle piccola borghesia. Quelli di essi che maggiormente reclutavano i loro aderenti nei ceti «intellettuali» sono quelli che meno chiaro hanno visto nella storia e nella società, e hanno fornito eroi ingenui alle imprese e conquiste del capitalismo europeo lasciandosi inculcare come ideali i suoi loschi appetiti: in tutto il Risorgimento Italiano troviamo solo una grande eccezione a questa corbellata razionalità e «culturismo» della lotta politica, nel marxista che non ebbe tempo di leggere Marx, Carlo Pisacane, che tuttavia dette la vita alla causa nazionale, ucciso prima che dalla sbirraglia dal contadiname analfabeta e aclassista.

La ridicola epoca dei big

Alla contrapposizione fatta dal Perticone tra la fase dei partiti di democrazia volontaria e quelli di cieca disciplina ad un centro motore che la base riconosce in dati nomi o peggio in un solo Nome; ove si tolga ogni rimpianto, alla Weber, di quel primo tipo, ed ogni prospettiva di una sua riapparizione di domani in una nuova giostra liberale pluripartitica (che mai nel passato ha giocato realmente) può darsi una portata solo in quanto si svolga la critica della degenerazione contemporanea della società borghese, e si sappia non identificare metafisicamente la strada opposta per cui si giunse, ad esempio, al partito di Stalin, e a quelli di Hitler, Mussolini, o poniamo oggi De Gaulle.

La caratteristica di queste mostruose organizzazioni, la cui vera causa è la passività delle masse in una società in decomposizione, che non è difetto di «cultura» o mancanza di «maestri», ma difetto di forza meccanica rivoluzionaria per note cause complesse e remote, sta nello strano assurdo che da tutte le parti il sistema moderno «carismatico» che fa ovunque e sotto tutti i cieli e climi del capo un idolo (quanto fragile e caduco!) si difende appunto apologizzando lo stupido toccasana democratico e vanta adesioni consultive e plebisciti di pretese «coscienze».

Gli stati totalitari come Germania, Italia e Giappone sono stati travolti dalla guerra e con essi i loro partiti di governo. Tra i vincitori, gli occidentali sono democrazie parlamentari permanenti, e in questa forma giuridica si sono sempre più sforzati di organizzare i paesi del mondo su cui influiscono. La Russia e gli Stati con lei connessi internamente hanno conservato il sistema monopartitico e non hanno partiti concorrenti al potere; ma la politica che conducono all'estero i partiti comunisti di nome è tutta imperniata sulla apologia aperta della democrazia elettiva, che essi pretendono dai governi locali. Nella polemica tra i due blocchi di Stati e di partiti la rivendicazione democratica è sempre in prima linea, e l'accusa più frequente è di avere fatto oltraggio alla elettorale manifestazione della volontà popolare. Ognuno dei contendenti adopera come verità evidente l'accusa che l'altro perpetra tale infamia.

Malgrado questo sciupio di invocazioni alla sovranità popolare a base larghissima, tutte le volte che questi poteri mondiali si incontrano resta regola comune, ed accettata in contraddittorio gli uni verso gli altri, che i milioni di uomini, i cui interessi (non diremo nemmeno le cui opinioni) sono in ballo, sono lontani spettatori di una adunata di quattro o cinque personissime accampate al vertice in delega dei quattro o cinque governi degli Stati più mostruosi, e tutto si decide, in questo democratico e popolare mondo, da quei cinque al massimo «big»; ossia da cinque tipi su due miliardi di membri della specie umana, tutti «demosovrani»; da cinque altissime figure a cui votammo la apostrofe di un dimenticato poeta, citata ironicamente come il più bell'endecasillabo della letteratura italiana: «O big piramidal, che fai tu lì?».

Potrebbe la democrazia essere più decaduta e bassamente svergognata di così?

Quali chances alla sociologia razionale delle opinioni delle élites, delle scelte di uomini coltivati, che dovrebbero condurre, nella illusione di Weber, la vita politica mondiale, scambiandosi ogni tanto il potere con elegante fair play, con tollerante cavalleria?

Fu detto contro la sinistra marxista, negatrice del partitone mostruoso e della adulazione delle masse, che noi tenevamo della teoria delle élites intellettuali. Ma noi siamo tanto contro la democrazia nella società nella classe e nel partito, cui invochiamo una centralità organica, quanto contro la funzione delle élites dirigenti, cattivo surrogato del Capopersona, marionetta collegiale messa al posto di quella isolata, il che in dati svolti è un passo indietro. La differenza sostanziale sta nel fatto che la nostra dottrina non considera una costellazione di partiti, ma la funzione di uno solo, il cui dialogo con tutti gli altri non è intellettuale né culturale, e giammai elettorale e parlamentare, ma è affidato alla violenza di classe, alla forza materiale che ha per suo traguardo la sottomissione e la distruzione di ogni altro.

Il partito che noi siamo sicuri di veder risorgere in un luminoso avvenire sarà costituito da una vigorosa minoranza di proletari e di rivoluzionari anonimi, che potranno avere differenti funzioni come gli organi di uno stesso essere vivente, ma tutti saranno legati, al centro o alla base, alla norma a tutti sovrastante ed inflessibile di rispetto alla teoria; di continuità e rigore nella organizzazione; di un metodo preciso di azione strategica la cui rosa di eventualità ammesse va, nei suoi veti da tutti inviolabili, tratta dalla terribile lezione storica delle devastazioni dell'opportunismo.

In un simile partito finalmente impersonale nessuno potrà abusare del potere, proprio per la sua caratteristica non imitabile, che lo distingue nel filo ininterrotto che ha l'origine nel 1848.

Tale caratteristica è quella della nessuna esitazione del partito e dei suoi aderenti nella affermazione che è sua funzione esclusiva la conquista del potere politico e il suo maneggio centrale, senza mai nascondere in nessun momento questo scopo, e fino a quando tutti i partiti del Capitale, e del suo servidorame piccolo borghese, non saranno stati sterminati.

(dai rapporti della Riunione di Parma – 20-21 settembre 1958 e tratto da «Il Programma Comunista» nn. 21 e 22 del 1958)