La battaglia per l'Asia Centrale nella dinamica dei contrasti interimperialisti

Pubblicato: 2011-01-29 16:21:08

Con la conclusione della “Conferenza dei donatori” tenutasi in gennaio a Tokio si è di fatto chiusa la prima fase del nuovo scontro per il controllo delle vie del petrolio e del gas dell’Asia Centrale che ha avuto l’Afghanistan come teatro principale. La “pace” è stata suggellata con un finanziamento quinquennale di 4,5 mld $ di cui 1,8 immediatamente disponibili: una cifra ben superiore alle più ottimistiche previsioni e speranze del nuovo governo di Karzai, segno dell’importanza della “stabilità” e del controllo dell’Afghanistan per i piani delle maggiori potenze imperialistiche mondiali e soprattutto per gli Usa, che si erano di fatto accollati il costo dell’intera guerra e non si erano tirati indietro nel comprare capi militari e mullah dentro e fuori il martoriato paese asiatico. Gli Usa hanno preteso e ottenuto un maggiore intervento dell’Unione Europea, che si è accollata il 45% del finanziamento e del Giappone che vi parteciperà con un contributo di 500 mln di dollari in due anni. Sembra di assistere alla ripetizione in tono minore di quanto avvenuto all’epoca della Guerra del Golfo quando giapponesi e tedeschi insieme al regime saudita dovettero “risarcire” il costo dell’intervento americano, ma sarebbe una valutazione superficiale: in realtà l’odierno attivismo finanziario, diplomatico e militare (nella ISAF  International Security Assistance Force che dovreb

be garantire la “pace” imperialistica) corrisponde a precise necessità di tutte le potenze borghesi di non rimanere indietro nella corsa al controllo delle risorse energetiche dell’Asia Centrale e delle loro vie di trasporto in Occidente. Non a caso l’insofferenza degli “alleati” comincia ad evidenziarsi, sia che si tratti dell’assegnazione del comando dell’ISAF che nelle intenzioni americane dopo la Gran Bretagna dovrebbe toccare alla Turchia a scorno delle velleità delle borghesie europee sia in relazione agli obiettivi dell’azione militare (“La guerra al terrorismo è la lotta per il petrolio”, ammette candidamente Il Sole24 Ore del 18/01 dopo tanto strombazzare retorico sulla “difesa della civiltà”). E se gli Usa si muovono, gli altri non possono stare a guardare: in quest’ottica la Germania si precipita a predisporre una base d’appoggio militare in Kenia a sostegno delle sue navi che pattugliano il Mar Rosso Meridionale, il Golfo di Aden e le coste somale, non a caso alle prime notizie di importanti scoperte di giacimenti petroliferi in Sudan. La guerra in Afghanistan ha rappresentato una nuova tappa della risposta americana alla crisi di egemonia del capitale americano, a dispetto della sbandierata crescita “drogata” degli anni Novanta, basata sull’indebitamento e sul rafforzamento del ruolo parassitario del capitale finanziario a stelle e scrisce. La conclusione della prima fase della “lotta al terrorismo internazionale” ha consentito all’imperialismo Usa di impiantarsi stabilmente in Asia Centrale e dunque di estendere la propria influenza sull’area energetica mondiale compresa nell’arco che va dal Medio Oriente al SudEst asiatico (passando per i Balcani). Verosimilmente gli Stati Uniti stanno attrezzandosi per una azione di lungo termine: il ritorno in forze nelle Filippine con l’operazione Balikatan (per puntellare le basi della proiezione di potenza nel Pacifico), il sempre maggiore inserimento dell’Uzbekistan nel dispositivo di alleanze militari americane e l’attivismo crescente nel finanziamento e nell’inquadramento dei gruppi di opposizione iracheni ostili al regime di Saddam, non sono che i primi tasselli operativi della strategia americana, esposta enfaticamente nel discorso di Bush sullo Stato dell’Unione (dove la “lotta contro l’Asse del male” diventa il supporto ideologico del nuovo interventismo americano in sostituzione della precedente politica di “contenimento” degli “Stati canaglia”) e sintetizzata dalla nuova dottrina militare esposta il 31/1 dal Segretario alla Difesa Rumsfeld. Quest’ultima evidenzia la necessità di disporre di “una capacità di dissuasione in quattro teatri importanti” al fine di mantenere “la possibilità di vincere due aggressori nello stesso tempo, conservando la capacità di portare una estesa controffensiva e di occupare la capitale di un nemico e d’installarvi un nuovo regime”. I sei pilastri indicati a supporto di questa strategia sono “la protezione del territorio nazionale e delle basi americane all’estero; la proiezione di potenza verso aree di combattimento lontane; la distruzione di basi e “santuari” del nemico; la sicurezza dei sistemi informativi e di comunicazione; lo sviluppo nell’impiego di tecnologie volte a consentire il coordinamento delle azioni militari interforze nelle aree di conflitto; la protezione dell’accesso allo spazio e delle capacità di difesa spaziali americane”. Su queste basi e proprio a sostegno di questa “lotta duratura” al “terrore internazionale” (ovvero agli interessi americani su scala globale) il bilancio della Difesa è stato aumentato di 48 mld di dollari per il 2003 fino a raggiungere i 377 mld (dai 329 del 2002), cifra che sale a 390 mld considerando altre voci relative al settore (come l’aumento delle paghe); senza contare la ricaduta in termini di maggiori commesse statali per la ricerca e l’industria militare, né le stime fornite dalla BEA il 30/1/2002 che indicano già per il 2001 un livello superiore e molto vicino ai 400 mld di dollari. Tutto ciò è in piena continuità con le direttive del Rapporto “Quadriennal Defense Review 2001” del settembre scorso, secondo il quale “esiste la possibilità che potenze regionali sviluppino sufficienti capacità per minacciare la stabilità in regioni critiche per gli interessi degli Usa. In particolare l’Asia sta gradualmente emergendo come una regione suscettibile di competizione militare su larga scala. Lungo un vasto arco di instabilità che si estende dal Medio Oriente all’Asia nordorientale, la regione contiene un insieme volatile di potenze in ascesa e in declino” e dunque diventa permanente la necessità dell’imperialismo americano, “potenza globale” con “importanti interessi geopolitici in tutto il mondo” di intervenire in difesa di ogni minaccia, presente e in prospettiva futura, a quegli interessi. Il possesso e il controllo dell’Eurasia (che Brzezinsky aveva rivendicato come obiettivo fondamentale della politica estera americana nella “grande scacchiera” planetaria per la difesa della supremazia Usa) torna ad essere direttamente al centro dello scontro fra gli imperialismi maggiori; la pace imperialistica prepara le condizioni di altre guerre imperialistiche inevitabilmente connesse allo sviluppo ineguale del capitalismo mondiale e alla sua necessità di distruggere risorse e uomini per invertire la tendenza alla caduta del tasso medio di profitto su scala mondiale e far ripartire la sua folle accumulazione.

Ritorneremo sul tema, in modo più dettagliato e approfondito, in uno dei prossimi numeri.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2002)