Il movimento anti-CPE: la lotta paga ma non basta

Pubblicato: 2011-01-22 13:50:28

Nei numeri scorsi di questo giornale, commentando le rivolte nelle banlieues, scrivevamo che, negli ultimi tempi, la temperatura sociale non ha cessato di crescere in Francia1: prima la dura lotta dei marittimi e dei portuali di Bastia e di Marsiglia, poi gli scioperi nelle ferrovie, quindi la rabbia dei giovani proletari delle periferie, ora l’ampio movimento antiCPE che alla fine, dopo un mese circa di braccio di ferro, ha imposto il ritiro del provvedimento governativo. In termini di mobilitazione messa in campo, di contraddizioni aperte, di urto sociale, non c’è dubbio che quello francese sia un esempio di come la crisi economica spinga inevitabilmente vasti strati della popolazione lavoratrice (o espulsa dal processo lavorativo, o tenuta ai suoi margini o nella sua anticamera) a prendere in mano il problema delle proprie condizioni di vita e lavoro, presenti e future, senza delegarlo a forze politiche e sindacali apertamente interessate alla difesa dello status quo. Vediamo come sono andate le cose e quali insegnamenti se ne possono trarre.

Dietro le sigle

Il disegno di legge contenente le misure di Contrat Première Embauche (CPE), o contratto di primo impiego, prevedeva la possibilità di licenziamento “senza giusta causa” e da un giorno all’altro per i giovani di meno di 26 anni presi per un “periodo di prova” di due anni in una ditta o azienda di qualunque dimensione (l’altro tipo di contratto, il Contrat Nouvelle Embauche, CNE, o contratto di nuovo impiego, era destinato per il momento ai salariati delle piccole imprese). Questo avrebbe significato ovviamente che: a) il lavoratore assunto sarebbe restato per due anni sotto il ricatto quotidiano dell’“o mangi questa minestra o salti quella finestra” (=basso salario, straordinari non pagati, orari flessibili, condizioni di lavoro pesanti, vessazioni di vario genere), b) sarebbe stato nell’interesse del datore di lavoro licenziare in tronco il giovane “in prova” prima della scadenza dei due anni e prendere qualcun altro, evitando dunque assunzioni a tempo indeterminato e facendo uso esclusivamente di manodopera precaria, flessibile, sottopagata e ultraricattata. Il che, a sua volta, avrebbe significato la diffusione a macchia d’olio della precarietà in tutti i settori, la sanzione del precariato come unico “nonrapporto di lavoro”: le misure del CNE e CPE, se approvate, avrebbero colpito insomma non soltanto i giovani al di sotto dei 26 anni, ma tutto il mondo del lavoro.

La lotta contro il CPE

L’opposizione a queste nuove misure s’è manifestata da subito e ben presto la lotta s’è estesa da Parigi a tutta la Francia, cercando di darsi un minimo livello di organizzazione e collegamento per uscire dai confini angusti di questa o quella località o situazione e scontrandosi anche in certi frangenti con le forze dell’ordine. Sorpreso dall’imprevista opposizione, lo Stato ha inizialmente adottato la tattica di controllare e circoscrivere il movimento, e poi s’è rivolto ai propri alleati naturali (e fino a quel momento fin troppo… trascurati): i sindacati. I quali, come prevedibile, hanno funzionato da autentici pompieri. Mentre il movimento avrebbe richiesto il compattamento del fronte di lotta, la sua centralizzazione ed estensione, e soprattutto – visto il carattere del CPE e del CNE, di misure cioè destinate a colpire tutta la classe lavoratrice – la proclamazione e preparazione di uno sciopero generale che affasciasse tutte le categorie di lavoratori, il bonzume s’è adoperato per la diluizione dell’agitazione in una sequenza di appuntamenti, di “giornate”, di manifestazioni, scollegate le une dalle altre – il metodo classico sempre adottato per boicottare le lotte di fabbrica, attraverso la loro articolazione e localizzazione. I giovani precari o futuri precari sono stati dunque lasciati soli, ma anche così hanno mostrato una notevole determinazione, che la dice lunga sulla crisi che sta mordendo ampi settori della società francese. Si sono mossi proprio in quanto primi destinatari del CPE e CNE: cioè, in quanto futuri venditori di forzalavoro. Non è stato un “movimento di studenti”, come si sono invece affrettati a definirlo i media, gli osservatori e i commentatori (insomma, l’ideologia dominante), al fine di ghettizzarlo creandovi intorno una sorta di “cordone sanitario” di vuote parole, sterili analisi sociologiche, definizioni improvvisate. Attraverso i suoi molti e diversificati portavoce, lo Stato ha agito ideologicamente nei confronti di queste “vittime designate” esattamente come, pochi mesi prima, aveva agito nei confronti dei giovani proletari delle banlieues: là cercando di incasellare il moto spontaneo di ribellione entro le categorie di “immigrati, islamici, teppisti”, qui riducendo l’opposizione al CPE entro quelle degli “studenti che fanno casino”. In entrambi i casi, era vitale impedire che si diffondesse il concetto di “classe” e di “lotta di classe”: che insomma i giovani coinvolti vedessero se stessi (e venissero visti dagli altri settori della classe operaia) come proletari, non importa se ultramarginalizzati (nelle banlieues) o ancora in nuce (in quei grandi parcheggi sociali che sono le scuole secondarie e ormai anche le università).

L’analisi marxista non fa della sociologia. Vede i fenomeni sociali nella loro dinamica e non nella loro statica. Li vede dal punto di vista dei rapporti di produzione e dei rapporti di classe: cioè, della posizione di questi fenomeni sociali nei confronti di questi rapporti, e dentro il modo di produzione dato. Il movimento antiCPE non è stato un “movimento di studenti”, ma a) la dimostrazione di una proletarizzazione in atto di strati ormai molto consistenti di mezze classi, b) la reazione di futuri proletari alla precarizzazione del rapporto di lavoro. I due moti che si sono succeduti in Francia nel giro di pochi mesi dichiarano e confermano, nei fatti, quanto l’analisi marxista ha sempre sostenuto: il proletario è definito dall’essere, in atto o in potenza, un senza riserve, e non dall’albero genealogico familiare, dalla collocazione sociologica, dalla “cultura” o dall’immagine che ha di se stesso, o dal posto che occupa in fabbrica – come vorrebbero i borghesi e gli opportunisti di ogni risma (non esclusi quelli di “estrema sinistra”), in un misto di abietto cinismo e di retorico romanticismo.

 

Zombies all’opera

Era inevitabile che, intorno alla “questione CPE”, si scatenasse una nuova querelle che ha visto mobilitati i residui maleodoranti dell’intellighentsia sessantottina e postsessantottina – un bel campionario di quei maîtres à penser che hanno ammorbato l’aria nel corso degli anni ’70, dando il loro contributo alla controrivoluzione tuttora imperante. In un’intervista al Corriere della Sera del 20/3, Marin Karmitz, allora maoista, ora grosso produttore cinematografico, sentenzia: “Vedo un movimento teso solo a conservare l’esistente, a difendere lo status quo. […] Il malcontento pervade tutta la società ma si cristallizza sulla difesa del passato, sul rifiuto del cambiamento. E’ la Francia del ‘No’ che sfila”. E, dopo aver rimproverato a quelli che naturalmente per lui sono solo “gli studenti” di non aver nulla da dire “sugli orrori del mondo […]. Sulle guerre, il razzismo rampante, l’estremismo religioso, le disuguaglianze, lo sfruttamento delle persone”, aggiunge il predicozzo finale: “A questi ragazzi vorrei dire: osate di più, abbiate il coraggio di sognare un altro futuro come facemmo noi” (che nel frattempo nello status quo ci siamo bene incistati, a suon di miliardi di franchi prima e di milioni di euro oggi, simboli tangibili… dell’“immaginazione al potere”!). Gli fa eco André Glucksman, anch’egli allora maoista, ora filoamericano, che tira un colpo al cerchio e uno alla botte: “Fanno bene. Mostrano fierezza e saggezza [!!!], perché il contratto di primo impiego voluto da Villepin non è affatto un passo liberale [!!!] verso l’apertura del mercato [!!!]. Al contrario, il CPE è una misura insufficiente che non riuscirà a creare nuova occupazione ma perpetuerà le garanzie e i privilegi dei lavoratori adulti già inseriti. Sembra l’inizio di una riforma, in realtà è una mossa conservatrice” (intervista al Corriere, 18/3)… Il che dimostra che questa gentaglia non ha mai capito un’acca di come funziona il capitalismo, di che cosa sono le riforme, di che cos’è il mercato del lavoro, di che cosa sono le leggi economiche! In pratica, con tutte le loro bocche piene di parole, sono rimasti ad Adamo Smith e alla “mano invisibile” del mercato che dovrebbe regolare liberamente i rapporti economici e sociali. Ancora Glucksman: “Occorre una riforma complessiva e organica, non scaricare solo sugli studenti tutto il peso di un fallimento”. Cioè: il CPE è ingiusto perché colpisce solo i giovani al di sotto dei 26 anni – ci vuole qualcosa “di nuovo” che colpisca tutti, che azzeri i privilegi: “eguaglianza per tutti… al ribasso!” Infine, la ciliegina BernardHenry Lévy, il quale dichiara spudoratamente che il CPE è “un passo, un piccolo passo, nella direzione giusta”. Quanto alla “protesta degli studenti”, “ne vediamo bene la dimensione, per il momento, profondamente conservatrice” (Corriere, 2/4).

Lo Stato e i suoi manutengoli

Le misure contenute nel CNE e nel CPE sono del tutto coerenti con la necessità del capitale, a livello mondiale, di procedere sulla strada di una completa precarizzazione del rapporto di lavoro: la crisi economica l’impone. In quanto tali, quelle misure sono affini a quelle adottate in altri paesi: in Italia, per esempio, come documentavamo nel numero scorso di questo giornale a proposito del contratto dei metalmeccanici2, piuttosto che nella Spagna di Zapatero, nella Germania della Merkel, nella Gran Bretagna di Blair – misure adottate o in via di adozione da parte di una gamma di governi solo formalmente diversi, in realtà tutti accomunati dall’impegno di “salvare il capitalismo dalla sua stessa crisi”. Le gradazioni, i tempi, le modalità potranno essere diversi, ma la sostanza non cambia: il capitale ha bisogno di manodopera ultraflessibile e ultraricattabile. In ciò, esso torna alle origini, dopo aver illuso (con “riforme” rese possibili da un’estrazione selvaggia di pluslavoro durante il ventennio abbondante del boom economico della ricostruzione postbellica) che la società del capitale potesse essere il “lattemiele” degli adoratori dello “stato sociale” e delle “garanzie per tutti”. Di fronte alla crisi, cadono veli e maschere, e il capitale si mostra per quel che è – la società della guerra di tutti contro tutti, che reagisce alla propria indubbia agonia nella maniera più selvaggia e spietata. Per far ciò, lo Stato deve poter contare su tutta una serie di collaboratori: e quali collaboratori migliori dei partiti cosiddetti di sinistra e dei sindacati cosiddetti operai? La lunga storia opportunista dei primi e la prassi compromissoria dei secondi li rende alleati ideali. E’ proprio qui la differenza tra la situazione italiana e quella francese. In Italia, la classe dominante ha introdotto le stesse misure sull’arco di un decennio, ma ha avuto l’accortezza (maturata in più di mezzo secolo di… convivenza) di far ricorso al pompieraggio di partiti e sindacati che hanno steso un cordone sanitario intorno alla classe lavoratrice, ne hanno controllato le risposte segmentandole per categorie e regioni, l’hanno sfiancata in agitazioni senza prospettiva, ne hanno isolato e criminalizzato le punte più antagoniste, hanno usato i mezzi più subdoli, equivoci e terroristici, in piena sintonia con l’agire dello Stato, per evitare che potesse formarsi anche solo un embrionale fronte di opposizione alle misure via via adottate. La classe dominante francese, in parte perché non ha potuto contare su forze politiche dello stesso peso storicopolitico degli eredi italiani dello stalinismo (la sindacalizzazione è molto più bassa, e dunque inferiore il controllo), in parte perché ha creduto di poter mettere in campo esclusivamente la propria arrogante grandeur, in parte perché le contraddizioni sociali si sono fatte esplosive di mese in mese, ha trascurato di far ricorso a quell’aiuto necessario. Ha creduto insomma di poter fare da sola, e ha sbagliato. In ritardo, infatti, sono stati messi in campo i sindacati, con l’evidente mossa strategica di cercare di controllare il controllabile: cosa che in parte è riuscita, a dimostrazione che quell’aiuto è per il capitale irrinunciabile. E difatti CGT, exPCF e compagnia cantante hanno subito fatto ricorso alla prassi dilatoria, delle giornate di manifestazione isolate e separate, della retorica dei grandi appuntamenti, contro la tendenza istintiva seppure gracile e confusa di arrivare a un fronte di lotta compatto e soprattutto a forme di lotta più estese e incisive, come uno sciopero generale di tutte le categorie. Sia pure in ritardo, partiti e sindacati opportunisti si sono quindi guadagnati sul campo i loro prossimi galloni: la classe dominante francese non potrà in futuro trascurarne l’apporto decisivo.

Noi non siamo di quelli che vedono la ripresa della lotta di classe, se non addirittura l’apertura di un nuovo ciclo di lotte rivoluzionarie, in ogni moto di ribellione (salvo magari scandalizzarsi quando i giovani proletari delle banlieues bruciano l’auto… dell’operaio vicino di casa!). Non siamo di quelli che arrivano a teorizzare che, come il ’68 avrebbe aperto la strada a una nuova stagione di lotte operaie, così il “movimento antiCPE” inaugurerebbe una nuova fase di avvicinamento alla rivoluzione proletaria. In realtà, il “movimento antiCPE”, pur con tutte le caratteristiche di cui si scriveva prima (un movimento di giovani in parte già proletari o in via di proletarizzazione, e in parte futuri proletari, in lotta contro un peggioramento tangibile del rapporto di lavoro, presente e futuro), sconta tutte le debolezze che oggi ancora tagliano le gambe alla classe lavoratrice. Solo dei deliranti visionari possono ignorare quanto ha agito in profondità la controrivoluzione degli ultimi ottant’anni, nelle sue forme diverse ma convergenti della democrazia, del fascismo e dello stalinismo, disarmando realmente e metaforicamente il proletariato mondiale, e in primo luogo quello delle metropoli capitalistiche avanzate. Gli effetti di questa controrivoluzione sono sotto gli occhi di tutti: incalzati da una crisi economica che negli ultimi trent’anni ha macinato “sicurezze”, posti di lavoro, “garanzie”, i lavoratori stentano a riprendere, a ritrovare, la via della lotta di classe. Non si tratta solo del quotidiano tradimento di partiti cosiddetti “di sinistra” e di sindacati cosiddetti “operai” ormai divenuti insostituibili puntelli dell’ordine costituito – un tradimento che si traduce nel boicottaggio delle lotte, nel loro svuotamento di contenuti e di metodi, nell’isolamento dei proletari più combattivi, nella denuncia all’autorità giudiziaria e poliziesca di chi non vuole piegare il groppone, nella criminalizzazione di qualunque moto di resistenza a condizioni di vita e di lavoro sempre più pesanti… Non si tratta solo di questo (che comunque non è un fenomeno di oggi, ma una realtà maturata nel corso di una lunghissima storia, iniziata appunto con lo stalinismo). Si tratta anche del fatto che, in questi tragici ottant’anni, la classe operaia ha perso il legame con le proprie stesse tradizioni di lotta, con i classici contenuti e metodi della lotta di classe, con il concetto stesso di lotta di classe – lotta che, nell’immediato, deve porsi la finalità di affasciare i proletari di tutti i settori in un unico fronte di difesa, ma che al tempo stesso, in prospettiva, deve porsi l’obiettivo di andare oltre quel limite sia pure avanzato, perché di fronte a sé avrà sempre e comunque lo Stato del capitale, con tutti i suoi apparati repressivi, aperti e velati. La classe operaia, specie nelle metropoli capitalisticamente avanzate, fatica a riprendere quella strada, a riappropriarsi i metodi e i contenuti di lotta, anche solo a livello immediato e spontaneo. In rapide fiammate, si ribella e riacquista istintivamente la percezione dell’antagonismo inevitabile che la oppone alla società borghese, al suo Stato e ai suoi manutengoli: e in quelle rapide fiammate, arriva anche a ripescare nella flebile memoria storica ciò che le serve per la lotta immediata. Ma quelle fiammate passano e si spengono presto, per lo più senza lasciare nulla se non una circoscritta esperienza, che tutto il mondo borghese (l’ideologia, l’inerzia, la repressione) farà in mondo di cancellare. Siamo insomma a un livello ben più basso di quello cui si riferiva Lenin quando condensò nel Che fare? la teoria e la prassi marxiste del rapporto fra partito e classe: di certo, non è “colpa” della classe operaia! Così, il CPE è caduto: ma resta il CNE, restano tutte le altre misure oppressive antioperaie, resta la necessità per il capitale di ricorrervi o di inventarne di nuove. Quella lotta ha pagato nell’immediato, ma non basta. I giovani proletari o futuri proletari usciti da quest’esperienza dovranno porsi il problema della continuità delle strutture organizzate e dell’allargamento del fronte di resistenza all’attacco del capitale. E dovranno inevitabilmente porsi il problema della prospettiva verso cui andare, senza di che qualunque movimento rivendicativo è destinato a rifluire senza lasciar traccia. E il problema della prospettiva può solo essere quello della necessità del passaggio da una lotta di difesa a una lotta di attacco: dunque, il problema dello Stato borghese come bastione del modo di produzione capitalistico e il problema della rivoluzione proletaria e del partito rivoluzionario.

Esigenza primaria del partito rivoluzionario

La Francia di questi ultimi anni appare traversata da incubi diversi: alla crisi che morde in profondità, il capitale e il suo Stato cercano di rispondere con misure economiche e sociali come il CNE e il CPE volte a rendere sempre più flessibile e ricattabile la mano d’opera o come il nuovo progetto di legge sull’“immigrazione scelta” orientato a limitare sia pure parzialmente l’immigrazione (di cui il capitale ha comunque sempre bisogno) rassicurando al contempo le mezze classi. Intanto, il rapporto conflittuale con l’Unione europea concretizzatosi nel recente “No” alla progettata Costituzione europea e lo scoppio a catena di scandali che colpiscono i vertici dell’amministrazione e del governo tradiscono il malessere profondo che serpeggia nel paese, anche se non riesce ancora a disporsi lungo linee e dinamiche di classe, ma resta sordo e cupo risentimento e disaffezione. La mobilitazione ideologica degli ultimi mesi (la rivalutazione del passato coloniale, la celebrazione dell’abolizione della schiavitù, ecc.) obbedisce anche alla necessità di rinverdire i fasti di una grandeur traballante e spesso ridicolizzata, incanalando in senso fortemente conservatore quel malessere. Da tutto questo scenario di estremo interesse per i comunisti, manca drammaticamente – come dicevamo – il partito rivoluzionario, l’unica forza in grado non solo di dirigere e coordinare le lotte che, materialisticamente, si sprigionano dal sottosuolo sociale, facendole uscire dai limiti angusti da cui nascono e in cui tendono a rinchiudersi, ma anche di far fare loro quel salto di qualità fondamentale dal terreno puramente economicorivendicativo al terreno politicorivoluzionario – di fare insomma trascrescere, in date condizioni favorevoli, le lotte di difesa in lotte di attacco. Ma non basta dir questo, perché troppe volte questo discorso viene fatto in maniera astratta e meccanica. Il partito rivoluzionario non è un deus ex machina, che – come nelle tragedie classiche – scende dall’alto e risolve le situazioni. Parlare quindi di “esigenza primaria del partito rivoluzionario” vuol dire parlare di un lungo, incessante, metodico lavoro di preparazione rivoluzionaria svolto a contatto con la classe lavoratrice in tutti i suoi settori. E questo, a sua volta, vuol dire due cose fondamentali. Innanzitutto, vuol dire che il partito rivoluzionario non si improvvisa, non è il coniglio bianco che si estrae dal cilindro. Esso può solo essere il risultato di una lunga lotta condotta nel tempo per la difesa e la riaffermazione di una dottrina e di una tradizione, contro tutte le forze, interne ed esterne alla classe operaia, che non hanno cessato di attaccare e mettere in discussione quella dottrina e quella tradizione, cercando più volte, nel corso di un secolo e mezzo, di spezzarne il filo rosso. Ciò significa: bilancio di ottant’anni di controrivoluzione, incessante restaurazione teorica, difesa dei principi, del programma, della tattica, delimitazione politicoorganizzativa dall’opportunismo in tutte le sue vesti (di cui quella di “estrema sinistra”, anche nelle sue punte apparentemente più radicali, è la peggiore e più pericolosa), trasmissione alle nuove generazioni rivoluzionarie di un intero patrimonio teoricopratico, intervento nelle lotte proletarie nei limiti delle proprie forze e capacità per reintrodurvi metodi e obiettivi rivoluzionari. Chi non comprende quest’esigenza primaria è fuori da ogni prospettiva rivoluzionaria: fa parte della melma spontaneista, movimentista, anarcoide e soggettivista, che tante volte nel corso di questo lungo periodo controrivoluzionario ha letteralmente fregato il proletariato mondiale. Da questa prima affermazione, discende dialetticamente la seconda, non meno importante. Il partito rivoluzionario non è nemmeno lo Stato Maggiore Militare che, a un certo punto, decide di scendere in campo pretendendo che la classe lo segua, per pura disciplina caporalesca, pronta a obbedire a qualunque strategia messa in campo, a qualunque manovra decisa nel chiuso di una stanza. Qui, in questa visione del tutto meccanica e opportunista, abbiamo in nuce tutte le aberrazioni staliniane e poststaliniane relative al rapporto fra partito e classe, che hanno portato al disastro sia il partito rivoluzionario (la Terza Internazionale di Lenin) sia la classe operaia mondiale. La complessità dialettica di quel rapporto, che presuppone per l’appunto quel lungo, incessante, metodico lavoro di preparazione rivoluzionaria svolto a contatto con la classe lavoratrice in tutti i suoi settori (come ci ha insegnato soprattutto il Lenin di Che fare?), si snatura completamente a favore di una tracotante e irresponsabile banalizzazione, di tipo puramente caporalesco – una scimmiottatura militaresca che fa accapponare la pelle se si pensa ai disastri che ha prodotto dalla metà degli anni ’20 in avanti. E’ un fatto che entrambe queste erronee impostazioni (quella spontaneista e quella militaresca) convergono l’una sull’altra, come è sempre successo nella storia del movimento comunista a ulteriore dimostrazione che l’opportunismo può avere tante facce, ma un’unica direzione – quella contraria alla rivoluzione. D’altronde, il partito rivoluzionario non è neppure il “faro che illumina”, una formazione solo accademicoscolastica volta ad “allargare la coscienza” dei proletari: porsi in questa prospettiva significherebbe porsi automaticamente fuori del marxismo, per il quale la rivoluzione non è fatto di coscienza del proletariato, ma di determinazioni materiali che spingono il proletariato all’incontro con il partito rivoluzionario nel corso accidentato di un cammino di lotte ed esperienze. E non è neppure una formazione che nascerà quando le masse si metteranno in movimento, perché allora – non essendo stato svolto quel lungo, incessante, metodico lavoro – sarà davvero troppo tardi: anche in questo caso, significa non aver compreso nulla della dialettica storica e consegnare la classe in lotta a una sconfitta sicura, per averle sottratto per troppo tempo l’organo rivoluzionario: che non è una semplice protesi, ma deve essere legato e collegato alla classe esattamente come qualunque organo è legato e collegato al resto del corpo, in tutte le sue parti e funzioni. Sono tutte queste deviazioni e aberrazioni che vanno combattute, ieri come oggi e come domani. Sarà necessario tornarci su, perché sarà lo stesso evolversi delle contraddizioni materiali a richiederlo, in Francia come altrove.

Note: 

1.Cfr. i nn.5/2005 e 1/2006 di questo giornale.

2. Cfr. “Dal contratto dei Metal-meccanici un nuovo attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei pro-letari”, il programma comunista, n.2/2006

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2006)