La civiltà dell'economia folle

Pubblicato: 2011-01-19 21:48:33

VENERDI 16/3 il Nasdaq Composite, l’indice americano dei titoli azionari delle imprese della cosiddetta “new economy”, scendeva al di sotto della soglia dei 1900 punti, al livello del novembre 1998, trascinando in pesanti ribassi tanto i “nuovi mercati” (denominazione assunta dalle Borse Valori che trattano soprattutto titoli delle aziende legate a Internet) quanto quelli “tradizionali”, in tutte le piazze mondiali.

Un nuovo minimo sarebbe stato raggiunto sei giorni dopo: al momento in cui scriviamo (primissimi di aprile), l’indice Nasdaq è al di sotto dei 2000 punti e quello Dow Jones sotto i 10000. Sono stati soprattutto i titoli tecnologici, delle telecomunicazioni e dei media a registrare i crolli più pesanti, ma la causa contingente è dovuta all’effe t t o dei “profit warning”, ovvero degli annunci di utili nulli o inferiori alle attese, o al budget, delle imprese “new economy”.

Contemporaneamente, il dollaro tornava al massimo nei confronti dell’euro e dello yen sui mercati dei cambi, proprio mentre nuove stime correggevano al rialzo il deficit commerciale americano (dai 360 mld di dollari annui ai 400, contro i 265 effettivi del 1999) e, appena leniti i timori per la crisi turca, si riaffacciava per la borghesia mondiale lo spettro di una nuova crisi del debito argentino (120 mld. di dollari, con il 25% dei titoli dei paesi emergenti complessivamente collocati rappresentati da obbligazioni argentine), che induceva il presidente De la Rua prima a nominare un governo di unità nazionale, poi a chiedere (e ottenere) al parlamento di avvalersi dell’impiego di “poteri speciali” per fronteggiare la “situazione d’emergenza” e gestire gli urti economici e sociali di questa ondata di crisi.

Non ridono nemmeno Europa e Giappone: la prima sempre più ansimante nella ricerca di un ruolo finanziario che consenta di compensare i contraccolpi di una produzione sempre più fiacca e di una posizione sul mercato mondiale sempre più subordinata, il secondo alle prese con un debito pubblico valutato al 130% del PIL (con stime al 151% per la fine dell’anno), un sistema bancario e finanziario oberato da una montagna di crediti ormai inesigibili (oltre 75 mila miliardi di yen quelli delle banche e, da soli, quelli delle aziende erano il 142% del PIL nel 2000), un netto peggioramento della bilancia commerciale per effetto soprattutto del calo del commercio infra-asiatico, un calo vertiginoso delle quotazioni dell’indice Nikkei che è arrivato al livello di 12233 punti, poco superiore alla soglia dei 12000 punti che riteniamo “critica” per la stabilità finanziaria dell’imperialismo nipponico .

La “new economy” che avrebbe dovuto garantire al capitalismo, nelle parole dei suoi esegeti più o meno a libro- paga, la “fine del ciclo economico” e – dunque – la cancellazione della crisi come momento di ricomposizione violenta del rapporto fra produzione e consumo sociale, sembra ora un cumulo di rovine e le fanfare della “nuova era” hanno smesso ormai di intonare trionfalismi a spartito. L’indice Nasdaq che nel decennio degli anni Settanta è passato da 100 a 200, ha raggiunto quota 1000 punti nel 1995, raddoppiando nel 1998, fino a raggiungere e superare i 5000 punti prima della crisi del marzo 2000; il valore totale della capitalizzazione di Wall Street era passato dai 1200 mld di dollari del 1982 ai 4000 mld del 1994 (50% del PIL), fino a toccare alla fine di giugno 2000 i 14500 mld (150% del PIL, con una crescita di 12 volte dal 1982) e l’indice Dow Jones era aumentato del 70% dal 1996 fino all’apice del marzo 1999: la frenesia speculativa sembrava non conoscere ostacoli e il centro della speculazione, gli Usa, diventavano il modello additato al mondo intero.

Parafrasando Marx, la fiducia borghese trovava la massima espressione nella quotazione di Borsa e le mezze classi erano felici di parteciparvi. Si potrebbe obiettare che i meno sprovveduti fra gli analisti finanziari avevano già messo in guardia sul “darwinismo digitale” che presto o tardi avrebbe rivoluzionato il settore delle cosiddette “dot com”; non erano mancati neanche gli appelli istituzionali contro l’irrazionale “esuberanza” dei mercati (Federal Reserve americana), preoccupati che “tutte le borse dei principali paesi industrializzati, con l’eccezione di quella giapponese, presentano un significativo scostamento del tasso di crescita atteso degli utili societari – implicito nelle quotazioni correnti – da quello oggettivamente registrato nei periodi di maggiore crescita economica” (“Rapporto Bankitalia sulla crescita delle Borse valori nel periodo 1995/99”). Ma si trattava di fastidiosi ronzii, peraltro interessati da sempre a uno smussamento del ciclo e dei suoi alti e bassi (e che dal nostro punto di vista rimangono prigionieri dell’errore di tutta l’economia borghese di scambiare la causa – la crisi nella specifica forma di crisi capitalistica – , con l’effetto, la finanza e la speculazione ) .

Il diluvio comincia nella primavera del 2000 e non accenna a placarsi, anche se siamo pronti a scommettere che ai primi raggi di sole si griderà nuovamente all’arrivo dell’eterna estate radiosa, naturalmente fino alla prossima tempesta, con altrettanta naturale ricerca della causa o del colpevole di turno. Nei primi due mesi dell’anno hanno già chiuso 106 società del “comparto” Internet (una media di 2 al giorno), 203 complessivamente da novembre 2000; le ondate di licenziamenti nel settore si contano a decine di migliaia. Chi era stato convinto, o costretto, a giocarsi la pensione in Borsa negli Usa come in Giappone ha dovuto rinunciare all’idea di averne una: secondo il “Corriere della Sera” del 27/3 “la crisi delle Borse ha costretto milioni di anziani americani che avevano investito i risparmi in titoli azionari a rinunciare ad andare in pensione nel 2001, mentre milioni di altri, che si erano pensionati nel 2000, sono stati obbligati a cercarsi un nuovo lavoro. In media nell’ultimo anno essi avrebbero perso un terzo del loro capitale e quindi sarebbero obbligati a continuare o a riprendere a lavorare per ricostituirlo”. Lo stesso giorno, lo stesso giornale annunciava l’autorizzazione della Banca d’Italia alla raccolta di capitali da parte degli “hedge funds” (i fondi altamente speculativi che erano stati messi sotto accusa come una delle “cause” della crisi asiatica) italiani. Ovvero, come ha dimostrato sempre il marxismo a scorno di ogni velleità regolatrice tanto più di sedicenti “istituzioni super partes”, il capitale ha il diavolo in corpo e la sua vita “non consiste che nel suo movimento come valore perpetuamente avviato a moltiplicarsi”.

Come abbiamo evidenziato più volte su queste pagine[1], in generale la borghesia non è in grado né di comprendere né tanto meno di dominare la natura delle crisi che sono un prodotto necessario della dinamica del modo di produzione capitalistico e che richiedono distruzioni sempre maggiori per assicurare la valorizzazione del capitale e la conservazione dei rapporti borghesi.

In particolare, il preteso boom americano non c’è stato: la crescita della produzione è stata circa i due terzi di quella degli anni ’60 e l’aumento di produttività un trucco contabile derivante da una combinazione di intensificazione-estensione dello sfruttamento ed aumento della quota di servizi nella composizione del PIL. La crescita degli Stati Uniti a tassi invidiati dal resto del mondo borghese è potuta avvenire grazie al massiccio ricorso all’indebitamento (interno e soprattutto esterno: quest’ultimo nel 1999 aveva raggiunto i 2000 mld di dollari) e al ruolo ancora predominante del dollaro sui mercati internazionali e come valuta di riserva. Gli USA hanno attirato capitali dal resto del mondo e finanziato il loro doppio deficit strutturale, quello commerciale e quello dei conti con l’estero, in virtù dei processi di liberalizzazione finanziaria avviatisi su scala mondiale alla metà degli anni ’70 - guarda caso in seguito allo scoppio della crisi che chiudeva irreversibilmente il processo di accumulazione “pacifico” apertosi nel secondo dopoguerra. Le basi di questa crescita americana sono insomma maledettamente fragili e sorrette in ultima istanza dalla forza militare incontrastata dell’imperialismo yankee, espressione questa del dominio economico accumulato fino ad ora.

In uno degli ultimi capitoli del III Libro del Capitale, Marx contesta la pretesa “formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale”, formula in base alla quale la teoria borghese mistificatrice individua il capitale e la terra come “fattori produttivi” della ricchezza sociale, eliminando così “la forma del plusvalore che caratterizza specificatamente il modo di produzione capitalistico”[2]. Affermare che il capitale è una “cosa” anziché uno specifico rapporto sociale e un processo il cui ciclo di vita include produzione e circolazione del capitale stesso, così come sostenere che la natura come tale possa erigersi a produttrice di valore, scrive Marx, ha come unico scopo quello di rendere “naturale”, “legittima” ed “eterna” l’appropriazione privata del prodotto sociale e del valore creato dal lavoro salariato, e dunque quello di dimostrare il capitalismo come il migliore dei mondi possibile.

Questa formula, che corrisponde agli interessi delle classi dominanti elevando a “dogma” le loro “fonti di entrata”, è corrispondente al punto di vista nel quale tutti i rappresentanti della borghesia, economisti in testa, non possono che restare impigliati, a maggior ragione gli economisti volgari di ieri e di oggi, essendo l’economia volgare la “traduzione didattica, più o meno dottrinaria, delle idee quotidiane degli agenti della produzione” e del continuo rovesciamento delle forme dell’apparenza in cui questi operano in sostanza reale e materiale che gli sfugge e li domina.

Da dove nascono le crisi capitalistiche? “L’enorme forza produttiva in relazione alla popolazione, quale si sviluppa in seno al modo capitalistico di produzione e, quantunque non nella stessa misura, l’aumento dei valori-capitali (non solamente dei loro elementi materiali) che si accrescono molto più rapidamente della popolazione, si trovano in contrasto e con la base per cui lavora questa enorme forza produttiva, che relativamente all’accrescimento della ricchezza diventa sempre più angusto, e con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente. Da questo contrasto hanno origine le crisi”[3]. La crisi capitalistica nasce nella produzione e si manifesta nella distribuzione dove si compie la ritrasformazione del capitale merce in capitale-denaro. Non ci sono dubbi che la “finanziarizzazione” crescente sia un aspetto saliente dell’imperialismo e del parassitismo economico tipico di un modo di produzione dove la quota di interessi e rendite (derivanti dalla produzione di plusvalore) diventa componente sempre più rilevante nella ripartizione della massa di plusvalore estorto alla scala mondiale. Attraverso la finanza prosegue e si rafforza, specie nei momenti di crisi, anche la centralizzazione del capitale e, dunque, lo stesso dominio imperialista. “In generale – scrive Lenin – il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso di capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione raggiunge dimensioni maggiori”[4].

Ma, così come l’imperialismo non è che una sovrastruttura del capitalismo, la “finanziarizzazione” non è che una delle forme attraverso le quali si esprime e rappresenta la sovrapproduzione. Agli occhi della borghesia e della succube “opinione pubblica” accade così che la sovraspeculazione appaia come la causa della crisi, mentre essa non è altro che un sintomo della sovrapproduzione cui ha fatto da canale di sfogo fino al momento critico in cui la prosperità si trasforma in crisi e ristagno.

Nel III Libro del Capitale, Marx sottolinea come in un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione si basa sul credito si verifichi un “sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione”, che produce inevitabilmente una crisi senza che ciò possa essere impedito da interventi correttivi delle Banche Centrali: le sedicenti “nuove architetture finanziarie finanziarie” di cui favoleggia oggi la borghesia, fingendo di ignorare che quotidianamente si scambiano sui mercati internazionali oltre 1500 mld di dollari e si concludono contratti in strumenti derivati su interessi e cambi per 1265 mld di dollari (cifre tratte dal “II Rapporto triennale della Banca dei regolamenti internazionali” apparso nel maggio1999, che mostrano come sia praticamente impossibile un intervento delle Banche Centrali tranne che in situazioni fortemente circoscritte ad aree marginali dell’economia mondiale ).

L’aspetto finanziario fa apparire deformata la realtà soprattutto nei centri più sensibili e nevralgici del movimento del capitale finanziario, in misura minore nei centri di produzione. Ma la radice delle crisi matura e si sviluppa sul terreno costituito dalla contraddizione insanabile fra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione. La sovrapproduzione, l’eccesso di produzione rispetto alla domanda solvibile, pagante, è il prodotto necessario di un sistema il cui fine è l’accumulazione di capitale, la vera causa delle crisi capitalistiche. Ed essa non è che l’altra faccia della medaglia della legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto alla scala mondiale, manifestazione della necessaria transitorietà di un modo di produzione che non è né eterno né naturale ed è destinato storicamente ad essere abbattuto e sostituito da un’economia rivolta allo sviluppo completo, armonico e onnilaterale della specie umana.

Non stiamo qui a ricordare in dettaglio le cifre sulla povertà e la distribuzione della ricchezza: basta consultare un qualunque rapporto della borghesissima Banca Mondiale o dell’Onu per averne un’idea. Qui ci limitiamo a rimarcare come – proprio nel momento di massima propaganda sulla diffusione del benessere indotto dalle nuove tecnologie e dalla “new economy” – le stesse statistiche che la borghesia sforna non riescano a mascherare le previsioni scientifiche del marxismo. Vediamo alcuni esempi.

Predominio del capitale finanziario e tendenza al monopolio: nel settore delle banche di investimento, tre imprese (Morgan Stanley, Goldman Sachs e Merril Lynch) controllano il mercato; dalle loro mani passano il 75% delle fusioni e acquisizioni internazionali, il 50% delle quotazioni di borsa e il 30% delle emissioni di titoli rappresentativi di prestiti. Gli utili netti di queste tre banche sono cresciuti nell’ultimo triennio da 7 a 12 mld. di dollari e il ROE (indice che misura il rendimento del capitale proprio, calcolato come rapporto percentuale fra l’utile netto conseguito e il capitale di rischio derivante da conferimenti e da autofinanziamenti a disposizione dell’impresa) risulta essere superiore al 20% e da circa vent’anni si mantiene su livelli molto più elevati della media.

Dottrine economiche volgari al servizio della circolazione del capitale, della creazione di capitale fittizio e della speculazione: il 73% delle società “new economy”quotate in Borsa nel 1999 non aveva mai registrato profitti, ma malgrado ciò la loro richiesta e il valore delle loro azioni saliva continuamente (una delle più note, Amazon.com, con perdite pari al 20% del volume d’affari, presentava un valore capitale di Borsa di oltre 27 miliardi).

Miseria e proletarizzazione crescente: il quinto più ricco dell’umanità consuma oggi l’86% dei beni e servizi contro l’1,3% del quinto più povero (70 contro 3,6 era il rapporto all’inizio degli anni Settanta), più di 2 miliardi e 600 milioni di persone non hanno accesso o disponibilità di strutture igieniche e sanitarie di base e oltre un miliardo non ha una abitazione adeguata. Negli Usa e in Europa si concentra il maggior consumo di alimenti come carne e pesce, di energia e di acqua potabile, fino all’assurdo di una spesa di cibo per animali domestici che supera i 17 mld. di dollari annui, cifra superiore a quanto un paese come l’Argentina paga ogni anno per gli interessi sul debito[5]. È dimostrata la legge assoluta del capitalismo in base alla quale la maggiore accumulazione comporta un minor numero di borghesi, un maggior numero di operai e un numero ancora maggiore di proletari semioccupati e disoccupati e di peso morto di sovrapopolazione senza risorse: all’accrescimento e alla concentrazione dell’accumulazione e della ricchezza borghese ad un polo della scala sociale si contrappone l’accrescimento della miseria proletaria che misuriamo non con il livello alto o basso del salario ma con l’incertezza generale legata alla condizione materiale di forza-lavoro salariata e di senza-riserve. Respingendo il protocollo di Kyoto sulla riduzione della produzione dei gas nocivi e inquinanti, il presidente americano Bush ha spiegato che bisognava dare la priorità al mantenimento dei profitti delle imprese americane colpite dalla crisi e agli interessi economici nazionali da quella minacciati. Che insomma l’economia degli Stati Uniti è più importante della salute del pianeta. Considerazione ovvia, che scandalizza soltanto gli ipocriti concorrenti dell’imperialismo americano e le verginelle dell’opportunismo internazionale sempre impegnate col loro socialismo piccolo borghese e riformista a salvaguardia dei supremi interessi di conservazione del capitalismo mondiale. Ma è l’ennesima dimostrazione dell’irrazionalità e dello sciupìo di risorse umane e materiali, dunque della follia economica di un modo di produzione ormai decrepito e sempre più “inumano”.

Il capitalismo non può fermare da solo o volontaristicamente questa sua corsa folle alla riproduzione su scala sempre più allargata di capitale e di miseria. Soltanto la rivoluzione comunista può spezzarne la dinamica, distruggendo il potere della borghesia e la sua civiltà e instaurando la dittatura proletaria, che dovrà condurre a una organizzazione dell’economia non più basata sul profitto ma sulla consapevole amministrazione del rapporto fra godimento, bisogni e natura. Cioè, su un piano organico di riproduzione e sviluppo di tutta l’umanità, consentendo alla Specie umana di compiere il salto dalle angustie e limitatezze della sua preistoria alla forma piena e dispiegata della storia dell’Uomo Sociale: la società senza classi e senza Stato.

 

[1] Crisi economica e scienza marxista, in “il programma comunista” n. 9-10/98; Corso del capitalismo: Usa, in “il programma comunista” n. 9/2000.

[2]  K. Marx, Il Capitale, III, cap.48, Editori Riuniti, pag. 927.

[3] K. Marx, Il Capitale, III, 15, pag. 321

[4] Lenin, L’imperialismo. Editori Riuniti, pagg.94-95.

[5] Rapporto Onu sullo sviluppo umano, cit. da: A. Fanjul, Paradossi della globalizzazione, 1999; cfr. anche i dati riportati da C. Collins sulle variazioni nella distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti nell’articolo L’economia dei sempre più ricchi, in “Surplus”, n. 6/2000.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2001)